il cinema e le altre arti
Gorizia Le Mani
Indice
CINERGIE
il cinema e le altre arti
n. 15. marzo 2008
Direzione
Laboratorio Cinemantica , Dipartimento di
Storia e Tutela dei Beni Culturali;
Laboratorio Crea ,
Corso di Laurea DAMS, Gorizia
Università degli Studi di Udine
Direttore
Roy Menarini
Comitato di redazione
Alice Autelitano, Enrico Biasin, Ilaria
Borghese, Giulio Bursi, Davide Gherardi,
Veronica Innocenti, Valentina Re
Redazione
Alice Autelitano, Stefano Baschiera, Enri¬
co Biasin, Ilaria Borghese, Roberto Braga,
Piera Braione, Maurizio Buquicchio, Giu¬
lio Bursi, Margherita Chiti, Francesco Di
Chiara, Livio Gervasio, Davide Gherardi,
Marco Grosoli, Veronica Innocenti, Aldo
Lazzarato, Roy Menarini, Cristiano Poian,
Leonardo Quaresima, Valentina Re, Anna
Soravia, Roberto Vezzani
Hanno collaborato a questo numero
Serena Aldi, Piera Braione, Stefano
Baschiera, Paolo Bertolin, Maurizio
Buquicchio, Roberto Castrogiovanni,
Francesco Chillemi, Francesco Di Chiara,
Claudio Di Minno, Dunja Dogo, France¬
sca Esposito, Angelita Fiore, Marzia
Gandolfi, Davide Gherardi, Federico
Giordano, Marco Grosoli, Sara Martin,
Roy Menarini, Federico Pagello, Laura
Sangalli, Matteo Stefanelli, Roberto
Vezzani, Federico Zecca
Reperimento immagini
Marco Cornar
Redazione
c/o Laboratorio CREA
Piazza Vittoria 41, Gorizia
tei. 0481 82082
cinergie@libero.it
www.damsweb.it
Progetto e realizzazione copertina
Marco Vimercati
© Le Mani Edizioni
Via dei Fieschi, 1
16036 - Recco (Ge)
www.lemanieditore.com
e-mail: lemani.editore@micromani.it
stampa: Microart’s S.p.A. - Recco (GE)
La pubblicazione è stata realizzata con il
contributo di
Università degli Studi di Udine
TAVOLA ROTONDA
3 Allegro ma non troppo
Tavola rotonda sul cinema comico Usa
ULTIMO SPETTACOLO
10 Venere in Dodge Challenger
Grindhouse - A prova di ?norte ( Grind-
house - Death Proof Quentin Tarantino,
2007)
12 II cinema di exploitation nell’epoca
della riproducibilità tecnica
Grindhouse (Robert Rodriguez e Quen¬
tin Tarantino, 2007)
12 Terrore tra gli stati membri
14 Da André and Wally B. a Ratatouille.
Pixar, una macchina creatrice
FAHRENHEIT 451
16 Quel genere d’attore
L’esplosione degli studi sull’attore e l’in¬
tima immortalità del concetto di genere
18 Recensioni
CINEMA E LETTERATURA
20 Un sogno lungo un’eternità
Un'altra giovinezza {Youth Without
Youth , Francis Ford Coppola, 2007)
22 Ne touchez pas à la hache. Sul demone
in Balzac e Rivette
La Duchessa di Langeais {Ne touchez pas
à la hache, Jacques Rivette, 2007)
Fondazione Cassa di Risparmio di Udine
e Pordenone
FONDAZIONE CUP
CINEMA E ARTI VISIVE
24 Escursioni nell’inconscio con il regi¬
sta Jochen Kuhn
26 André Kertész tra fotografìa e cinema:
una prima ricognizione
TV FILES
28 Prisoji Break fra ripetizione e trasfor¬
mazione
30 L’inanità del linguaggio e la visione
impossibile
Amleto di Carmelo Bene (da Shakespeare a
Laforgue) (Carmelo Bene, 1974)
SOTTO ANALISI
32 II Museo postmoderno
37 Chi si vuole conservare si perde. Tem¬
po e spazio barocco nel cinema di Max
Ophuls
LE CITTÀ DEL CINEMA
39 LXIV Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica - Venezia
Archeologie western a Venezia
40 Trompe-l’oeil
41 I-Tube: un fake-reality show dalla
guerra d’Iraq
Poi comincia la polvere
Orizzonti Doc
42 Stile di famiglia
43 XLIII Mostra Internazionale del Nuo¬
vo Cinema di Pesaro
Le piccole Italie nascoste nel nuovo
mondo. Il cinema italoamericano con¬
temporaneo
43 XXI II Cinema Ritrovato 2007 - Bolo¬
gna
“Dio ti vede, Stalin no”. Intervista a
Tatti Sanguineti
44 La musica per film. Intervista a Mar¬
co Dalpane
45 XII Pusan International Film Festival
(PIFF)
Asia: le nuove correnti vengono da
Sud Est
46 XXVI Le Giornate del Cinema Muto
Pordenone
Inedita Starevic
L’interazione tra narrazione e spazio
in un film di fine Ottocento
48 II Cinema - Festa Intemazionale di
Roma
Riflessi in uno specchio oscuro
49 VII Science + Fiction - Festival Inter¬
nazionale della Fantascienza - Trieste
Effetti speciali, mozzarelle e “cattive¬
ria” spagnola
50 XXV Torino Film Festival
Il cielo sopra Torino
SPECIALE
51 Nuvole (parlanti) all’orizzonte
Speciale Cinema e fumetto nel panora¬
ma contemporaneo
52 II boom del cinefumetto e i suoi confi¬
ni
Il successo del cinefumetto e i discorsi
del boom
54 Città di immagini e parole
La metropoli nel cinema e nella televi¬
sione influenzati dal fumetto
56 Deus ex Machina
Brian K. Vaughan: una proposta di mo¬
nografìa
58 Lo splendore della vita di ogni giorno
American Splendor. La vita e le stagioni
di Harvey Pekar tra cinema e fumetto
61 7Brothers e il debutto di Woo nel mon¬
do dei comics
Allegro ma non troppo
Tavola rotonda sul cinema comico Usa
Hanno partecipato: Roy Menarini
(RM), Marco Grosoli (MG), France¬
sco Di Chiara (FDC), Maurizio Bu-
quicchio (MB), Davide Gherardi
(DG)
RM: Partiamo da qualche annotazio¬
ne preliminare. A partire dal saggio di
Luca Bandirali ed Enrico Terrone,
“Apologia del filmetto”, apparso su Se-
gnocinema del luglio-agosto 2005, si è
sviluppato, sia pure in maniera fram¬
mentaria, un nuovo interesse estetico
nei confronti del cinema di comme¬
dia, comico e farsesco. L’idea dei due
critici è quella che esiste un cinema
americano di commedia aH’interno
del quale una sorta di “idea cellula”
viene sviluppata in tutte le direzioni:
essa investe tutte le dimensioni della
realizzazione cinematografica, dalla
scenografia, fesa eloquente e significa¬
tiva, alla recitazione, in cui gli attori
esplicitano gli aspetti simbolici nasco¬
sti, fino alla regia, che diviene traspa¬
rente e limpida.
Ho pensato che fosse un punto di par¬
tenza interessante per osservare quello
che sta accadendo in questi anni ai
film comici e farseschi. Innanzitutto
proporrei due riflessioni. La prima è
che, nella filmografia demenziale più
esplicita, ma anche nelle commedie
che possiedono qualche elemento
scurrile, sono emerse delle differenze
proprio negli ultimissimi anni. La mia
impressione è che assai meno del soli¬
to venga enfatizzato l’aspetto biologi¬
co, escrementizio, quello più devastan¬
te delle funzioni del corpo, e ci si pro¬
spetti invece un ritorno importante al¬
le funzioni della commedia classica.
L’ipotesi, che rilancio a voi, è innanzi¬
tutto questa: posto che demenziale e
horror non di rado si trovano in una
relazione di strana parentela, mi chie¬
do se questo aspetto non venga dele¬
gato proprio all’horror, che di recente
si è estremizzato. La seconda riflessio¬
ne riguarda, invece, la senescenza di al¬
cune figure degli anni Novanta: pren¬
diamo, ad esempio, un protagonista
come Ben Stiller. Stiller sta legger¬
mente modificando i propri ruoli, fa
sempre gli stessi film, però su un ver¬
sante familista: la saga dei Ti presento i
miei, Una notte ai museo e così via sono
meno ferocemente puntati sul fisico e
sul biologico rispetto alla prima parte
della sua carriera o a film come Tutti
pazzi per Mary. E quando non fa film
mirati alle famiglie va incontro ad una
flessione degli incassi, la stessa che sta
affrontando Adam Sandler, per non
parlare di quella - macroscopica - che
sta fronteggiando Jim Carrey, il quale
da qualche anno cerca di riciclarsi per¬
sino con l’horror, come ha fatto in
Number 23.
Si dice che il ricambio odierno è stato
attuato dal cosiddetto “genere Judd
Apatow”, ovvero 40 anni vergine, Mol¬
to incinta o Suxbad, che Apatow non
ha diretto ma prodotto e super-visiona¬
to: film che vengono altresì interpreta¬
ti come “cinema demenziale repubbli¬
cano”, come si è letto da qualche par¬
te, perché - a fronte di dialoghi e si¬
tuazioni pecorecci - propongono solu¬
zioni tradizionaliste e familiari.
Dunque, ci sono delle modificazioni in
atto e ce una larghissima produzione
che ha svegliato critici da molto tem¬
po impigriti rispetto a tale produzione:
mi chiedo, allora, se questo cinema
possieda un senso, se produca qualche
significazione di cui è il caso di tenere
conto, oppure no: volendo, possiamo
anche decretare che questo cinema
non ci interessa e non è significativo
culturalmente.
MG: Mi ricollego a quanto Roy dice¬
va sulla scatologia, che ultimamente
verrebbe un po’ meno, per avanzare al¬
cuni dubbi sull’apologià del filmetto
pubblicata su Segnocinema. Il fatto che
venga meno Io scatologico, che prima
era tra le cose che più marcatamente
segnalavano “il mondo” (nozione che
in Bandirali e Terrone, almeno nelle
intenzioni, è qualcosa di più consisten¬
te del semplice “set”), proietta, credo,
alcune ombre sulla teoria degli apolo¬
ghi. A quanto ho capito il loro discor¬
so è finalizzato a vedere il filmetto co¬
me una specie di pedagogia del com¬
promesso tra il principio di piacere e il
principio di realtà, laddove il principio
di realtà sarebbe incarnato appunto
non più, come nella commedia tradi¬
zionale, da un set come teatro degli
scambi tra il principio di piacere (del
personaggio e delle sue pulsioni) e
un’istanza in qualche modo esterna,
bensì da questa istanza che è il mondo,
cioè qualcosa di autonomo rispetto al
soggetto, al linguaggio e quindi al
principio di piacere, e che verrebbe a
fondarne più o meno una controparte
indipendente. Il fatto che adesso ven¬
ga meno quello che più marcatamente
rappresentava la consistenza del mon¬
do (la materialità ultraconcreta dello
scatologico), secondo me è una spia
abbastanza utile del fatto che molto
probabilmente quello che è visto come
un distacco da una concezione ìm-
prontata sul set non è in realtà qualco¬
sa di così diverso. Non comprendo be¬
ne sinceramente dove si differenzi la
nuova commedia, demenziale o meno,
da quello che bene o male è sempre
stata la commedia, cioè questo terreno
di compromesso tra principio di piacer
re e principio di realtà e tutto ciò che
ne consegue e che ne è collegato. Però,
TAVOLA ROTONDA
appunto, l’obiezione più naturale po¬
trebbe essere, semplicemente: “in ef¬
fetti l’importanza del filmetto è pro¬
prio evidenziare queste caratteristiche
che nella commedia ci sono sempre
state, magari limitandosi a confermar¬
le con mezzi aggiornati”, il che è asso¬
lutamente legittimo. In tal caso, a que¬
sto punto, mi verrebbe da fare altre
obiezioni: se è ancora sostenibile di
fatto, anche analiticamente, un’ipotesi
come quella del principio di piacere e
del principio di realtà come due aspet¬
ti effettivamente scollegati e che vanno
l’uno contro l’altro, è anche vero che
questa nozione in mille modi è stata
contrastata psicanaliticamente, per
esempio da Marcuse o da Lacan; ma
anche questo potrebbe essere parato
dicendo “è vero, però già il fatto che
questo sia un sintomo di un ritorno ad
una visione del mondo veterofreudia-
na è importante di per sé, significativo
in quanto sintomatico di un’epoca e
della sua visione del mondo”. A questo
punto, una ulteriore obiezione che mi
viene da fare è: davvero siamo davanti
a una riconferma complessa e stratifi¬
cata di una qualche essenza della com¬
media quando in realtà un gran nume¬
ro, assolutamente significativo, di film
e universi comici hollywoodiani sono
andati proprio contro questa visione
generale del principio di piacere e
principio di realtà come due entità
scollegate che vanno una contro l’al¬
tra? Pensiamo a Billy Wilder, uno che
ha sbeffeggiato mille volte chi si face¬
va fregio della vulgata freudiana (pen¬
so ad esempio allo psicanalista di Pri¬
ma pagina che diventa famoso con un
libro intitolato “Le gioie dell’impoten¬
za”). Wilder ha sempre operato un co¬
spicuo scarto tra una scenografìa quasi
iperrealistica con un principio di pia¬
cere incarnato dal dialogo, che stavano
come due entità sì separate ma tal¬
mente coincidenti in sé, nella loro se¬
parazione, che anche un mediatore ap¬
parentemente onnipotente come il de¬
naro (l’altra figura cardine del cinema
di Wilder) si rivelava, ben di più, irri¬
mediabilmente evanescente 1 . Tutto
questo smonta dall’interno la visione
di Bandirali e Terrone del filmetto co¬
me conferma della commedia a sua
volta fondata sul compromesso piace¬
re/realtà. Già Lubitsch di fatto nullifi¬
cava lo spazio rendendolo una pura so¬
glia (ovviamente il discorso delle porte
ecc. ecc.), lasciando il campo libero al
principio di piacere incarnato dal dia¬
logo, che raggiunge vette di virtuosi¬
smo insuperato - lo spazio insomma
non c’era più, era solo una pura forma
senza una consistenza propria. Per non
parlare di Blake Edwards che era pro¬
prio il regista del dissolvimento del
set, cui fa fronte un principio assoluta-
mente speculare di piacere fondato
sulla propria impasse costitutiva. E qui
secondo me la difficoltà: si vuole vede¬
re il filmetto come riconferma di una
visione essenziale radicata nella com¬
media che in realtà è stata già smenti¬
ta da coloro che di fatto la commedia
l’hanno creata. Da un lato il fatto che
registi come Robert Luketic, piuttosto
che riconfermare il compromesso in
cui consisterebbe la commedia, si ri¬
fanno direttamente a quella classicità
inevitabilmente (ad esso) refrattaria,
tentando di farne un calco in vitro: La
rivincita delle bionde o Quel mostro dì
suocera si rifanno stilisticamente a
Cukor e a Hawks in maniera piuttosto
chiara. C’è un senso della solidità, del¬
la sintesi nella messa in scena che evi¬
dentemente non si trova ad esempio in
Tu io e Dupree. Dall’altro, e cosa ben
più significativa, Bandirali e Terrone
mancano l’evidenza come, per così di¬
re: non vedono la coda dell’amico di
Jack Black in Amore a prima svista, nel
senso cioè che tentativi espressamente
wilderiani di messa in scena come
quello dei Farrelly attentano proprio
alla forma del compromesso tra prin¬
cipio di piacere e principio di realtà,
tutt’altro che vedendola come qualco¬
sa di solido da riconfermare. Ciò poi si
vede chiaramente in Lo spaccacuori do¬
ve non c’è più il mondo, bensì due am¬
bienti inconciliabili che anzi spingono
il protagonista a vanificarne il confine.
Questi due ambienti diversi non si
coagulano in un mondo (tant’è vero
che il protagonista è costretto a sce¬
gliere), così come viene portato avanti
un ritratto del principio di piacere an¬
cora come qualcosa che è intrinseca¬
mente ostacolato, dall’interno, dalla
sua stessa realizzazione.
FDC: Io terrei l’articolo di Bandirali e
Terrone soltanto come un punto di
partenza, nel senso che ha il grande
merito di spostare l’attenzione sul ci¬
nema comico-commedia di oggi.
Chiaramente risulta provocatoria l’i¬
dea di creare un nuovo minigenere,
con un corpus che può anche essere
discutibile, in un momento in cui sa¬
rebbe forse più profìcuo discutere dei
rapporti tra comico e commedia, che
sono due categorie trans-storiche e
trans-nazionali che esistono da prima
del cinema, e vedere magari quale è
stato il loro rapporto in quegli anni
Novanta, che credo siano, in accordo a
quanto detto prima, il momento di na¬
scita di quel nuovo legame tra la com¬
media e il demenziale di cui abbiamo
iniziato a parlare oggi. Nello scorso
decennio hanno iniziato ad avere mag¬
giore risonanza film che puntano mar¬
catamente sulla dimensione corporale
(Jim Carrey è uno dei protagonisti di
questa fase), all’interno di un sistema
nel quale al box office dominano anco¬
ra commedie sullo stile di quelle inter¬
pretate da Julia Roberts e Richard Ge-
re, o film comici incentrati su di un at¬
tore che ultimamente è in fortissima
flessione come Robin Williams, i cui
film escono ormai solo destate. L’idea
era (e questo è il caso anche dei film di
Tom Shadyac, che negli ultimi film,
come Una settimana da Dio o Un’im¬
presa da Dio, si sta piuttosto avvicinan¬
do a Judd Apatow) quella di fare un ci¬
nema comico, indirizzato anche all’in¬
fanzia (come il capostipite Ace Ventura )
nel quale la dimensione corporale-fi¬
siologica acquisiva una dimensione
preponderante. D’altra parte la dimen¬
sione corporale, scatologica o meno, è
connaturata al comico stesso, storica¬
mente, se andiamo a vedere anche nel¬
lo slapstick, la corporeità intesa come
ipercineticità dell’autore automa era
fondamentale. E anche uno dei motivi
per cui forse il comico non ha mai avu¬
to tantissima attenzione critica: un ar¬
ticolo di dieci anni fa di Linda Wil¬
liams 2 parlava proprio della scarsa at¬
tenzione critica nei confronti di melo¬
dramma, horror e porno, e formulava
l’ipotesi che ciò fosse dovuto ad un
tabù culturale nei confronti di film che
rappresentano sullo schermo e induco¬
no nello spettatore delle reazione fisio¬
logiche, come possono essere la lacri¬
ma, l’urlo o l’eccitazione, e in questo
senso è ironico che lei stessa nel suo
saggio tralasci proprio il comico che
provoca il riso e lo rappresenta sullo
schermo. Possiamo quindi anche pen¬
sare che il rapporto tra il comico e la
commedia sia quello tra due tipi di ci¬
nema inclini all’ilarità che affrontano
in maniera diversa dinamiche simili,
per cui il comico è più dirompente e ha
una dimensione della corporeità meno
mediata, sia per quanto riguarda quel¬
lo che si vede sullo schermo sia per il
contegno sociale dello spettatore al
momento della proiezione, e la com¬
media, fondata piuttosto sulla media¬
zione nelle relazioni sociali delle dina-
40 anni vergine
Molto incinta
TAVOLA ROTONDA
miche immediatamente istintuali e
corporali. Sono due mondi che co¬
munque hanno sempre avuto una for¬
te interrelazione all’interno del cinema
americano: tentare di dividerli com¬
pletamente, quando si parla della
screwball, ad esempio, sarebbe inutile.
Tornando al discorso che faceva Roy
in apertura, credo che negli anni No¬
vanta il comico imperniato sulla fisi¬
cità come quello dei Farrelly e di
Shadyac abbia funzionato come cata¬
lizzatore e traghettatore verso nuove
forme, e nel momento in cui questi
stessi registi e gli attori che lavoravano
nei loro film hanno voluto cercare di
aumentare pubblico e risonanza si so¬
no spostati sempre più verso la com¬
media: in questo senso ce davvero un
legame con l’horror perché se non mi
sbaglio poco più di un anno separa
Amore a prima svista, che è il film dei
Farrelly che tende a ridurre la dimen¬
sione corporale, da La casa dei 1000
corpi di Rob Zombie, che è invece un
film che se ne fa carico in un altro con¬
testo. Quindi dicevamo che per i regi¬
sti del comico si è trattato di abbando¬
nare la corporeità per avere una mag¬
giore audience e anche una maggiore
rispettabilità, la dimensione scatologi¬
ca rimane ma diluita, come nel caso di
Apatow, all’interno di un sistema che
fa maggiore riferimento alla dimensio¬
ne della commedia.
MB: Io condivido parzialmente quello
che diceva Marco sul conflitto, la ten¬
sione, sottolineata da Bandirali e Ter¬
rone, fra principio di piacere e princi¬
pio di realtà. Il caso di Lo spaccacuori è
molto rappresentativo, vi si possono
vedere diverse dinamiche: da un lato
all’interno del film stesso è come se ve¬
nisse descritta la parabola degli ultimi
film degli stessi Farrelly, ovvero c’è, da
una parte, una commedia basata sulle
relazioni o, come si vede nel film, su
una specie di campo e controcampo
fra il matrimonio fallito e la relazione
ideale; o ancora si può vedere nel per¬
sonaggio di Ben Stiller un tentativo di
sfuggire al processo di regressione in¬
fantile di tutti i film dei Farrelly, ap¬
punto assumendosi la responsabilità
della crescita, del matrimonio, supera¬
mento della condizione di eterno sin¬
gle. Dall’altra parte, per quanto questa
resistenza del reale venga riaffermata
addirittura con dei riferimenti politici
inediti nei film dei Farrelly, ad esem¬
pio nel momento in cui Stiller tenta di
superare la frontiera tra Messico e Sta¬
ti Uniti per ritornare come un emi¬
grante messicano, e viene perseguitato
dalla polizia di frontiera e picchiato,
nonostante ciò la scena madre del film
è invece una fortissima riaffermazione
del principio di piacere, della persi¬
stenza di una comicità corporale basa¬
li» spaccacuori
ta su escrementi, deiezioni: mi riferisco
alla sequenza in cui la moglie di Stiller
è costretta ad urinare sulla schiena del
protagonista in un tripudio di musica
messicana e di bambini urlanti. L’ulti¬
mo film dei Farrelly è quasi un’ammis¬
sione di colpa: dopo il tentativo fallito
di evolversi verso la commedia, come
in L’amore in gioco, remake politica-
mente corretto dì Febbre a 90, in que¬
st’ultimo film, che sembra fino a quel
momento “pulito” e addirittura più vi¬
cino ad una commedia newyorkese co¬
me certi altri film interpretati da Ben
Stiller, c’è invece un’esplosione di cor¬
poreità che, anche ricollegandomi a
Francesco che citava Jim Carrey, trovo
sia un elemento che in un certo senso
contraddice la tesi dì Bandirali e Ter¬
rone sulla sobrietà, la medietà del fil¬
metto, soprattutto in merito alle
performance degli attori. Bandirali e
Terrone parlano di una performance
perfettamente integrata nelle dinami¬
che narrative, mai sopra le righe, mai al
di fuori di un’estetica media e quasi
naturalista, e addirittura parlano di
un’estetica da documentario, quando
invece, dai più eccessivi attori mario¬
netta come Jim Carrey o Jack Black ai
più moderati Ben Stiller o Will Fer-
rell, l’aspetto fisico o Yoveracting sono
una qualità fondante.
MG: Secondo me l’esplosione scatolo¬
gica di una parte di Lo spaccacuori, più
che un ritorno del principio di realtà,
diviene proprio affermazione dell’i¬
dentità speculativa tra la scatologia e
l’ideahzzazione, la rarefazione estrema
della messa in scena che è la cifra del
cinema dei Farrelly degli ultimi sette
anni. Secondo me più che un ritorno
alla scatologia in Lo spaccacuori c’è il
culmine di questa identità di fatto tra
la scatologia e l’asetticità della sceno¬
grafia, o comunque della messa in sce¬
na, che hanno portato avanti i Farrelly
negli ultimi tre o quattro film, escluso
L’amore in gioco. A partire da questa
identità tra opposti il film prova a se¬
gnare uno scarto. Più in generale credo
che nel genere che stiamo vedendo si
stia facendo via via sempre più chiaro
il legame intrinsecamente inscindibile
tra la scatologia, la concretezza dei
materiali più bruta, e invece una mes¬
sa in scena trasparente fino ad essere
quasi aerea, come più esplicitamente
che mai avviene nei film dei Farrelly.
Da Io, me e Irene in poi, il loro cinema
chiarisce che in questo tipo di demen¬
zialità la scatologia non può che ricol¬
legarsi con una rarefazione estrema, e
quindi con la trasparenza della messa
in scena. A questo punto, è chiaro che
la rarefazione della messa in scena, es¬
sendo un principio per forza di cose
più versatile e universale dell’altro e
opposto termine (la scatologia), è, per
così dire, naturalmente destinata a pre¬
valere, e dunque la scatologia ad eclis¬
sarsi. Così la commedia è quasi desti¬
nata a soppiantare il comico, almeno se
il comico è determinato soprattutto
dalla materialità scatologica delle deie¬
zioni, o degli escrementi ecc. ecc. Si
tratta di un’evoluzione abbastanza na¬
turale che il comico — come ha accen¬
nato Francesco - passi un po’ il testi¬
mone alla commedia in quanto ele¬
mento più versatile perché può fare af¬
fidamento su un principio come quel¬
lo dell’astrazione della messa in scena.
DG: Una delle questioni che mi sem¬
bra possa sollevare questa tavola ro¬
tonda è che la diatriba filmetto-film
d’autore potesse essere anche una que¬
stione dì rapida evoluzione e storia dei
generi. Mi sembra di assistere a un
particolare successo del comico più o
meno volgare o di questa nuova cate¬
goria del grottesco che forse ha a che
fare con egemonie corporative molto
forti che si sono fatte l’idea che il pub¬
blico dei multiplex, che è la serie di¬
stributiva all’interno della quale ven¬
gono somministrati questi film, sia
particolarmente propenso a consuma¬
re questo tipo di pellicole, e che si trat¬
ti quindi di un cinema di rapido con¬
sumo, prodotto alla stessa velocità del
pop corn, che viene servito à pendant
degli stessi prodotti audiovisivi di que¬
sti cinema. Però, guardando alla storia
del cinema, è interessante osservare
che questo tipo di comicità spinta, co¬
me sa bene chi ha studiato la storia del
cinema muto, è stato un genere che si
è rivelato perdente proprio nel mo¬
mento in cui si affermava il lungome¬
traggio, nel momento in cui il cinema
passava dall’essere un insieme di pro¬
grammi a diventare film di un’ora,
un’ora e mezza; il comico quasi scom¬
pare o deve mutare forma e trasfor¬
marsi in commedia sofisticata, brillan¬
te, per difendersi dalla accusa di essere
vaudeville, e via dicendo.
Invece oggi vediamo che esso torna in
grandissima voga, e mi chiedo se ciò
TAVOLA ROTONDA
Lo spaccacuori
possa avere a che fare anche con una
teoria dietrologica dello spettatore di
oggi e della sua capacità di attenzione,
di poter sopportare un film particolar¬
mente elaborato e complesso che duri
un’ora e mezza. Viene il sospetto che il
film oggi sostanzialmente annoi, che la
gente sia abituata alla televisione, alle
puntate di un’ora magari inframmez¬
zate dalla pubblicità, quindi pillole di
dieci minuti; viene il sospetto che la
forma imperante ormai sia quella di
You Tube, del testo audiovisivo che du¬
ra dal minuto ai dieci minuti, e che
quindi si ritorni in un qualche modo
ad una situazione antecedente a quello
che gli storici chiamano “l’avvento del
lungometraggio”, e anche ad un gene¬
re che è stato rimosso dalla storiogra¬
fìa, anche se chiaramente non da quel¬
la storiografìa che ha aperto la gabbia
detta tigre con l’apologià del trash e
che ha permesso in un qualche modo
di creare questa situazione di aperta e
violenta contrapposizione tra autoria-
listi e antiautorialisti.
FDC: Avrei una perplessità sull’ultima
cosa che ha detto Davide e cioè sul
problema della forma breve: i film di
Judd Apatow cui abbiamo accennato
prima sono delle commedie che supe¬
rano i 120 minuti, e questa è una cosa
che colpisce; anche dei cinepanettoni
come L’amore non va in vacanza, una
commedia che cerca di introdurre un
personaggio interpretato da Jack Black
all’interno di un calderone che sembra
piuttosto rifarsi alle commedie pseu¬
do-sofisticate interpretate da Richard
Gere, superano abbondantemente le
due ore: direi che ci troviamo piuttosto
di fronte ad un allungamento della
forma.
Per quanto riguarda il rapporto comi-
co-commedia, è vero che il comico più
volgare da un solo rutto ha ceduto il
passo in certi casi alla commedia più
sofisticata, ma quello tra i due ambiti è
sempre stato un rapporto problemati¬
co, nel senso che al di là del fatto che
l’elemento scatologico è un dato più
recente, legato all’ampliamento delle
soglie della visibilità, la screwball co¬
medy rispetto al resto della commedia
degli anni Trenta era qualcosa di estre¬
mamente controverso, dal punto di vi¬
sta della fisicità della performance e
anche da quello morale-censorio. Allo
stesso modo i film di Frank Tashlin
sono molto diversi da altri tipi di com¬
medie ugualmente diffuse negli anni
Cinquanta: sono due mondi, quello
del comico basso e detta commedia,
che itt genere dividiamo in maniera
piuttosto netta facendo un’operazione
critica,ma che dal punto di vista pro¬
duttivo hanno sempre avuto dei confi¬
ni più labili. Non tutto il comico ri
questi ultimi anni fa ancora leva sullo-;
scatologico anche quando vuole rima¬
nere tale.
Lo vediamo anche a proposito di per¬
sonaggi come Ben Stiller che ultima¬
mente lavorano soprattutto in comme¬
die per ragazzi come Una notte al mu¬
seo, ma che affiancano alla recitazione
un’attività di produttore attraverso la
quale collaborano con gli altri membri
di questo clan che si sta progressiva¬
mente formando, e che comprende ol¬
tre a Stiller anche Jack Black, Vince
Vaughn, Owen Wilson. Ad esempio
Stiller produce, facendovi anche una
comparsata, Tenacious D e il destino del
rock, un film sulla falsariga di The Blues
Brothers costruito attorno al duo cano¬
ro Jack Black-Kyle Gass, o anche Bla-
des of Glory con Will Ferrei! e Jon He-
der. Anche attori che si stanno buttan¬
do più sul versante detta commedia
continuano a lavorare nel comico,
compaiono gli uni nei film degli altri,
e non sempre il comico rimane legato
alle forme più corporali degli anni No¬
vanta o viceversa tenta di trasformarsi
in commedia. Un esempio può essere
un film che amo molto, Ricky Bobby, la
storia di un uomo che sapeva contare fino
a uno, interpretato da Will Ferrell e
Sacha Baron Cohen, che fa leva sui
meccanismi della parodia ma non in¬
tesa come parodia cinematografica in
senso stretto, piuttosto come forma
metaforica che ironizza su forme ste¬
reotipate dell’attuale comune sentire.
Abbiamo di fronte una serie di film e
serie tv che affrontano in maniera se¬
ria e metaforica il clima post 11 set¬
tembre, e in questo contesto esce Ricky
Bobby, la storia di un corridore auto¬
mobilistico (Ferrell) di successo e arro¬
gante che concorre nel circuito Nascar
(molto chiuso e seguito nei soli Stati
Uniti) che per la rivalità con un corri¬
dore francese che viene dalla Formula
1 (Cohen), ed è omosessuale e conno¬
tato come un coacervo degli stereotipi
sugli europei, perde la bussola, ha un
incidente e rimane bloccato dalla pau¬
ra non riuscendo più a correre. Soltan¬
to una riconsiderazione delle sue radi¬
ci e del rapporto con l’esterno permet¬
terà al corridore di uscire da questa
impasse, fino alla riconciliazione con il
corridore francese, che avviene tramite
un pubblico bacio sulla bocca. Il film
tra l’altro si conclude con una scena in¬
comprensibile, posta dopo i titoli di
coda, nella quale i due bambini di otto
anni figli del protagonista, di nome ri¬
spettivamente Walker e Texas Ranger,
commentano un racconto di John
Stcinbcck operandone una improba!» -
’e lettura metaforica, c mi sembra sia
un modo per dare una chiave di lettu¬
ra a quanto appena visto.
r,, .avieri ibbinc i i < iw ' -i .
una commedia che- si butta -u vai. .ri
più tradizionali -;..zvtemoli.i
(traggo la definizione dalla rivista
Ciak) di Judd Apatow, e viceversa de¬
gli attori che cercano di trovare nuove
frontiere per il comico recente, tenen¬
do però un piede nell’altra staffa del
cinema indie, come Ben Stiller o
Owen Wilson che hanno lavorato con
Wes Anderson, o Will Ferrell che di
recente ha interpretato anche Vero co¬
me la finzione di Marc Foster e Melin¬
da e Melinda di Woody Alien.
MB: Volevo ricollegarmi a quello che
diceva Davide e in un certo senso lan¬
ciare una provocazione anche a Roy: se
è vero che i film di Judd Apatow dura¬
no 120 minuti e sono polpettoni infini¬
ti, tuttavia molti lamentano le lacune
narrative clamorose che vi si verificano
continuamente. Ecco, trovo che il ri¬
chiamo che fa Davide atte gag, agli one
reel movies e all’incapacità del pubblico
di sopportare una struttura narrativa
complessa contrapposta al desiderio di
guardare qualcosa che sia invece un
succedersi di gag, sia indice piuttosto
della nostra inadeguatezza critica, ov¬
vero detta nostra incapacità di analizza¬
re certe forme narrative che sono pen¬
sate per avere successo presso un pub¬
blico la cui percezione è ormai comple¬
tamente diversa e della quale forse non
teniamo conto abbastanza. A proposito
di questo citavate anche You Tube : si
tratta di forme brevissime che servono
soltanto a riempire degli spazi di tem¬
po e non sono più un “investimento” da
parte dello spettatore in una progres¬
sione drammatica. Ecco, mi piacerebbe
allargare il discorso a partire dal film
demenziale, penso a Scary, a L’invidia
: del mio migliore amico o a School of Rock.
Assistiamo ancora, in questi film, a gal¬
lerie di personaggi macchietta, a gag e
strut "
tura assolutamente debole, e assistiamo
^ P^§^ P | | É hìr ì r ir i “--r rril]T , * t ~ di questa
narrazione neoclassica hollywoodiana.
La mia considerazione più spontanea è
che in serie tv come 24 o Lost assistia¬
mo ad un’esaltazione cronica della con-
tinuity, di una struttura narrativa com¬
plessa, addirittura infinita, perdendo i
pezzi della quale è impossibile rimane¬
re al passo, mentre in film come Pirati
dei Caraibi-La maledizione delforziere
fantasma o Transformers assistiamo sol¬
tanto a un susseguirsi di situazioni
completamente scollegate, scritte in
modo lacunoso, ad una struttura narra¬
tiva che va verso una dissoluzione com¬
pleta. Dunque, per quanto noi possia¬
mo disprezzare questo tipo di cinema,
dobbiamo renderci conto che esso, in
un certo senso, ottiene quello che vuo¬
le, e che forse ancora una volta i pro¬
duttori di Hollywood - pur essendo
probabilmente più vecchi di noi - capi¬
scono meglio di altri che cosa vogliono
i teenager, i quali seguono con facilità
questi film che a noi risultano spesso
incomprensibili. Forse hanno speso
molte più ore detta nostra generazione
con i videogame: questo può essere uno
dei motivi per cui non siamo in grado
(neanche a livello percettivo) di seguire
un film come Transformers.
RM: Sono perfettamente d’accordo,
c’è davvero un problema percettivo da
parte nostra: è chiaro che affrontare
questi film con estetiche cinematogra¬
fiche più o meno classiche è pressoché
impossibile. Nei blockbuster c’è un
racconto che non solo è frammentario
e modulare ma anche appositamente
frantumato e lacunoso; chi ha visto Pi¬
rati dei Caraìbi, specialmente il secon¬
do episodio, sa che a un certo punto
Jack Sparrow viene rapito da una
tribù, cosa di cui non si sapeva niente
fino a pochi minuti prima, ma questo
non dà certamente problema a molti
spettatori; mi chiedo davvero se sia il
caso di analizzare e giudicare tali film
da questo punto di vista. Rimangono
poco interessanti ed efficaci da moltis¬
simi punti di vista, ma è chiaro che so¬
no concepiti per un pubblico che si di¬
strae, esce dalla sala, rientra nella sala,
e soprattutto comunica con l’esterno
della sala: questa è la vera novità degli
ultimi anni. Con i cellulari, infatti, il
pubblico non solo comunica con fin-
terno della sala, e interagisce con il
film, ma parla anche con l’esterno del¬
la sala e questo sarebbe una cosa su cui
riflettere al di là dell’ideologia prò o
contro cellulari in sala che evidente¬
mente appartiene ad un altro aspetto
della storia della cinefilia recente.
Volevo puntuafizzare alcune cose che
avete detto e rilanciare quelle che ci ri¬
mangono. Innanzitutto sono d’accordo
con Francesco per la questione della
struttura narrativa. Di Apatow si dice
(cito una recensione di un sito, molto
ingenua) “per una volta il comico bas¬
so utilizza persone e non personaggi”,
che è un modo molto romantico e in¬
genuo per dire che c’è una narratività
che lavora sul personaggio ed è questo,
credo, a cui si riferiscono Banditali e
Terrone con un’immagine molto più
teorica, quella dell’idea che viene fatta
germinare. Pensiamo invece al demen-
ziale-parodia, che è un genere dedito
al sampling, e che somiglia tantissimo
alle comiche mute, perché è impac¬
chettato nei 75-80 minuti (per esem¬
pio Hot Movie ed Epic Movie), con il
compito esclusivo di produrre l’antolo¬
gia delle scene più interessanti o, se vo¬
lete, giudicate “di culto”, della stagione
o delle due stagioni precedenti, e di
farne la parodia. E un cinema che è già
passato in dvd, i cui consumatori, le cui
comunità di spettatori hanno già
estratto delle scene madri, e diventa
poi parodia dell’antologia delle scene
madri in cui tutto è ribaltato in manie¬
ra elementare: Epic Movie è un film in
cui Narnia si chiama Gnarnia, in cui si
va nella fabbrica del cioccolato di Tim
Burton e si scopre che il cioccolato na¬
turalmente è composto di escrementi,
e così via: siamo al livello primitivo dei
ribaltamenti.
Tornando ai contenuti, comico e com¬
media di fatto mostrano forme diverse
di negoziazione del visibile e del dici¬
bile. I principi di mondo e di piacere
vanno di volta in volta riconsiderati;
Wilder o Edwards riuscivano a nego¬
ziare alzando l’asticella del moralmen¬
te accettabile, e a volte mandando in
fallimento questa stessa negoziazione,
il che è una delle vere e grandi capacità
del comico, ovvero di rifiutare a un
certo punto la negoziazione e, come
dire, “andare al massacro”. Il comico
ogni tanto porta quasi a incandescen¬
za questa negoziazione, ed è quel “qua¬
si” che rendeva Wilder comunque
amato dall’industria hollywoodiana.
D’altra parte, gli anni Novanta sono
quelli in cui il dibattito internazionale,
e in particolare quello nazionale ame¬
ricano, ruota intorno a una macchia di
sperma presente sul vestito di una sta-
gista della Casa Bianca. Meglio dun¬
que non stupirsi del fatto che, per la
prima volta in un film ufficiale ameri¬
cano, compaia lo sperma, che finisce
nei capelli di Cameron Diaz. Semmai
c’è da stupirsi se i giornali per interi
mesi ne parlano, e dì come un’accusa di
impeachment al Capo dello Stato si sia
basata su una prova spermatica.
Allora mi domando se uno dei comici
che più hanno frantumato tutto negli
anni 2000 non sia Sacha Baron
Cohen, con il suo Borat, che Paolo
Cherchi Usai nella sua recensione su
Segnocinema legge alla luce di una cul¬
tura vernacolare, ovvero come una sor¬
ta di sboccato e violento emergere di
elementi folk e idiolettici.. Primo, per¬
ché c’è un lavoro di partenza dal Borat
televisivo e dagli altri personaggi di
Sacha Baron Cohen che oggi vengono
consumati (anche dal sottoscritto) su
YouTube e su altri cataloghi del gene¬
re, dove le singole apparizioni di Borat
dentro i programmi contenitore del
comico ebreo sono già tranquillamen¬
te antologizzate; e poi perché il film
Borat si basa su un elemento linguisti¬
co che molti hanno ignorato: esso non
riguarda semplicemente la dialettica
vero/falso, cioè il chiedersi se Borat
stava veramente prendendo in giro o
no gli altri personaggi in scena, ma il
fatto che Borat e il suo amico vanno
insieme in America seguiti da un ca¬
meraman che non compare mai. E
un’istanza narrativa che viene comple¬
tamente elusa pur essendo affermata
fin dall’inizio, finendo col proporre
una specie di mockumentary comico¬
demenziale dove la messa in scena del
cameraman viene inghiottita nel nulla
enunciativo. Il pubblico non se ne
preoccupa, il film non se ne preoccupa,
è tutto troppo evidente per non risul¬
tare chiaramente predisposto. Qui ab¬
biamo un superamento totale di tutte
le istanze narrative precedenti di cui
comunque si preoccupavano anche i
film comico-demenziali. Questa cross-
medialità o intermedialità è giunta a
un tale punto che non c’è più necessità
di evidenziare le forme del linguaggio
che per solito il finto documentario te¬
matizza.
Vorrei quindi parlare di Sacha Baron
Cohen e di Borat, e comprendere in¬
sieme a voi se davvero si tratta di un
fenomeno di un certo peso e se può es¬
sere una sorta di ponte nei confronti
del cinema indipendente che finora
abbiamo solo sfiorato.
FDC: Credo che Borat rispetto agli
film di cui abbiamo parlato sia eccen¬
trico, innanzitutto a livello di messa in
scena: mi sembra che piuttosto che le¬
garsi al resto del cinema comico o al
lavoro televisivo di Cohen, si ponga a
metà tra una parodia del giornalismo
d’inchiesta, che tende al candid eye, e la
parodia del cinema di Michael Moore.
Ciò dimostra quanto, allo stesso livel¬
lo, lo stesso cinema di Michael Moore
sia poco credibile. E stato presentato al
Festival di Torino un film che si chia¬
ma Manufacturing Dissident, che si oc¬
cupa di queste stesse cose da un punto
di vista “serio”, ma già Cohen mostra
benissimo come si tratti di un cinema
da non prendere per certo. Al tempo
stesso credo che il legame vada indivi¬
duato con il cinema indie : abbiamo
parlato di forma breve e meccanismo a
clip, e credo che Borat la condivida con
un regista indipendente (o pseudo ta¬
le, perché prodotto dalla Fox Searchli-
ght) che non amo molto, Jared Hess
(quello di Napoleon Dynamite), nei cui
film c’è un meccanismo a scene auto¬
conclusive che ricorda un certo tipo di
fiction in stile MTV, come Beavis e
Butthead o Scrubs. Credo perciò che in
Borat ci siano elementi parodistici che
lavorano a diversi livelli: buttano sul
versante Michael Moore, ma al tempo
stesso integrano la televisione di questi
ultimi anni in maniera diversa dalla
media.
MB: Io sono d’accordo sulla singola¬
rità del film Borat rispetto al cinema di
cui abbiamo parlato finora, ma credo
vada sottolineato come parta da pre¬
supposti diversi: da una parte Sacha
Baron Cohen è un comico inglese di
modello imperialista che prende in gi¬
ro le etnie come faceva Peter Sellers, e
quindi persegue una sua “poetica” di
imitatore-comico; dall’altro, se è pure
vero che Borat è un caso interessante
di trans-medialità, non vedo come l’i¬
dea di trasporre cinematograficamente
un prodotto interamente televisivo ar¬
ricchendolo con una semi-mascherata
struttura narrativa (la ricerca del sogno
Borat
Tenacious D e il destino del rock
TAVOLA ROTONDA
americano, l’inseguimento di Pamela
Anderson, ecc.), si possa considerare
davvero innovativo. Ad esempio trovo
che questo dubbio sul vero/falso, sep¬
pure marginale, sia la dimostrazione
che, rispetto alle interviste di Borat, il
film ne risulti una versione annacqua¬
ta, tanto da spingere lo spettatore ad
essere dubbioso o insoddisfatto sulla
veridicità delle interviste.
MG: E ora qualcosa di completamente
diverso dei Monty Python era già un
collage spudorato di elementi di pro¬
venienza televisiva. Perciò la figura del
cameraman che non si vede mai po¬
trebbe essere significativo in questo
senso: se prima, in occasione di tenta¬
tivi come quello embrionale dei
Monty Python, si tendeva a marcare
già dal titolo la derivazione televisiva
riconoscendola come tale per poterla
giustificare cinematograficamente, il
fatto che non si veda il cameraman in
Borat è segnale del fatto che le due co¬
se sono talmente coincidenti e che non
ci si meraviglia più di un elemento che
appartiene all’altra sponda; in pratica,
non ce più bisogno di rimarcare una
compresenza di fatto.
MB: Sicuramente il fatto che nessuno
si accorga o sottolinei la presenza del
cameraman è ancora dovuto ad una
questione percettiva: non si può non
pensare ai reality show nei quali dopo
un po’ lo spettatore non si chiede più
se attorno ai personaggi che agiscono
in una dinamica completamente nar¬
rativa e quotidiana ci sia o meno un
elemento enunciativo.
DG: Devo dire che Borat a me è pia¬
ciuto, nonostante l’iniziale ritrosia da
vecchio cinefilo nei confronti di un
film che si presentava veicolato da una
pubblicità agghiacciante, e devo dire
che l’ho trovato un film estremamente
sofisticato, che può fungere da ferma¬
glio nei confronti dei discorsi che ab¬
biamo finora affrontato. Sicuramente
l’espediente narrativo del film è vec¬
chio: lo straniamento, l’intrusione di
un elemento distante in un ambiente
d’osservazione, che proviene da Mark
Twain e dal suo Un americano alla cor¬
te di reArtù (1889), o anche dal teatro
brechtiano, se vogliamo alzare i para¬
metri; si tratta, in ogni caso, dell’espe¬
diente di introdurre in un ambiente un
personaggio che non c’entra niente e
liberarlo da tutte le pastoie della nor¬
matività sociale. Espediente che invece
costituisce un grave inghippo per Mi¬
chael Moore, che addirittura si è tro¬
vato nel suo ultimo film a dover finge¬
re di essere un americano medio tra¬
mite la voce off, il che funziona quasi
come un freno alla scorrevolezza e alla
capacità del film di convincere lo spet¬
tatore. Sacha Baron Cohen tocca due
o tre aspetti che possono tenere insie¬
me gli elementi di eventuale analisi
contenutistica del filmetto, del genere
parodia: il bersaglio di questi film è ge¬
neralmente una specie di sofisticatezza
barocca e non funzionale di costumi e
riti sociali, che vengono veicolati dalla
presenza di comportamenti normativi
schiaccianti e oppressivi, in particolar
modo il patriottismo in America, che è
diventato evidentemente un elemento
grave che soltanto un certo tipo di
commedia demenziale si permette di
toccare con una certa libertà; altro ele¬
mento è la cultura della finta trasgres¬
sione, che è il must dell’aggressività
pubblicitaria di oggi. Il mito della tra¬
sgressione può essere in verità molto
pericoloso.
FDC: Volevo tornare anch’io sul giu¬
dizio estetico di Borat. L’elemento del¬
la provenienza televisiva non mi sem¬
bra un limite ma un punto di forza per
il fatto che riesce ad operare una sinte¬
si, e al contempo a presentarsi come
qualcosa di inedito nel panorama cine¬
matografico. Vorrei quasi dire che, an¬
che a proposito del legame horror-co¬
mico di cui abbiamo parlato prima, è
un po’ il The Blair Witch Project comi¬
co e non può non sortire effetti anche
nel breve periodo. L’opera offre una ri¬
flessione metacinematografica a vari
livelli, lavorando sugli stessi meccani¬
smi della comicità: in primo luogo, va
enfatizzato il fatto che il personaggio
dell’antisemita sia interpretato da un
attore ebreo ortodosso, e che l’imma¬
ginaria lingua del Kazakistan sia in
realtà Yiddish; in secondo luogo, biso¬
gna sottolineare certe sequenze, come
quella della scuola di spettacolo, nella
quale un comico americano propone
un modello di comicità molto inoffen¬
sivo, un po’ da stand up comedian della
Las Vegas anni Cinquanta, destinato a
non offendere nessuno, mentre Borat
in due minuti riesce a tirar fuori una
barzelletta feroce su prostituzione, in¬
cesto e handicap: la trasgressività pre¬
sa semplicemente come utopia di una
comicità liberatoria e offensiva per
chiunque. Faccio notare che ho visto il
film un anno fa, quando c erano anco¬
ra gli strascichi delle vignette danesi
sull’Islam; cera Fassino che si faceva
intervistare e si dimostrava ipocrita-
mente indignato di fronte a qualsiasi
forma di provocazione religiosa e au¬
spicava una satira che smorzasse i toni
in modo da essere pacificata: credo che
Borat insieme a Cartoon Wars, che è un
ciclo di puntate del serial South Park
incentrato sull’apparizione di Mao¬
metto, riesca a rappresentare una posi¬
zione per nulla acritica alTinterno di
questa riflessione sui limiti del comico.
RM: Abbiamo più volte sfiorato l’ar¬
gomento: il rapporto con il cinema in¬
die. Non abbiamo tempo di tornare sul
concetto di cinema indipendente ma
sappiamo tutti di quali film parliamo,
quelli degli Anderson, di Payne, di
Smith, e così via. La prima sorpresa è
che si affermano alcune figure macro¬
narrative e iconiche comuni: la high
school, la famiglia disfunzionale, il mi¬
crocosmo urbano, i paradossi ideologi¬
ci e psichici che alcuni personaggi si
portano dietro. Tutto ciò è patrimonio
comune di queste due cinematografie.
Per esempio, Election di Alexander
Payne è il prototipo di commedia high
school con elementi indie, critici, sar¬
castici. Il gruppo, o clan, a cui faceva
riferimento Francesco, quello di Stil-
ler, Vaughn, Wilson (il cosiddetto fiat
pack cui anche la rivista Notturno ha
dedicato un dossier, il n. 65, dicembre
2007), ha chiaramente abitato per tan¬
ti anni entrambi gli universi. Non a ca¬
so, il ripescaggio colto di Bill Murray
lo trasforma in figura capace di incar¬
nare l’umorismo indie traendolo da
tutto un altro flusso comico più conso¬
no. Questi contatti ci sono e si vedono
dentro commedie che non aspirano ad
essere percepite come un film di An¬
derson, quale per esempio Suxbad in
cui la messa in scena, la ruvidezza del
contesto, la provincia, la mutevolezza
dei caratteri potrebbero stare tranquil¬
lamente dentro un film più aperta¬
mente stile-Sundance. Ecco, mi sem¬
bra che da metà degli anni Novanta in
poi questo elemento sia sempre più
evidente.
FDC: Parlando di Anderson tornerei
sull’elemento della dialettica tra forma
lunga e sketch: mi sembra che un vizio
che abbiamo quando parliamo di que¬
ste cose, anche nel confronto tra serie
tv come Lost, 24, e film come Transfor-
mers, sia il paradosso di pensare che
esistono contemporaneamente un
pubblico ampio che consuma serie tv
estremamente sofisticate, e un bacino
d’utenza da blockbuster altrettanto
ampio ma non in grado di seguire nar¬
razioni complesse. Se apriamo un con¬
fronto con la letteratura (e mi viene in
mente appunto Anderson, secondo me
avido lettore di David Foster Wallace),
questi mondi non sono così incompa¬
tibili: possiamo anche ipotizzare che
uno stesso spettatore una sera si impe¬
gna a ricostruire i labirinti narrativi di
Lost e il giorno dopo si va a vedere
Transformers perché comunque ha vo¬
glia di vedere un tipo di spettacolarità
che sul piccolo schermo non è propo¬
nibile. Troviamo questi elementi appa¬
rentemente opposti (una narrazione
intricatissima ma lacunosa dei passag¬
gi narrativi fondamentali, frammista a
descrizioni infinite di situazioni singo¬
le a sé stanti, momenti slapstick, vir¬
tuosismo narrativo) tanto in Wallace
(penso ai romanzi soprattutto) quanto
nei film di Wes Anderson. The Darjee-
ling Limited, per esempio, è un film di
grande interesse, passato a Venezia
sotto silenzio, nel disinteresse della
critica. In questo film, all’inizio, viene
annunciato lo svolgersi di un percorso
che alla fine non si compie; inoltre ci
imbattiamo in una serie di sequenze
slegate che puntano ad un percorso
completamente diverso, e scopriamo
microsituazioni in cui l’attore comico
(qui Owen Wilson, oltre ad una bre¬
vissima apparizione di Bill Murray)
mette in atto una recitazione alla Bu-
ster Keaton, tramite il ricorso al dead-
pan, la mancata reazione emotiva agli
eventi; invece, dal punto di vista tema¬
tico, si ricorre al serbatoio della fami¬
glia disfunzionale, che troviamo in tut¬
ti i romanzi americani degli ultimi an¬
ni, e che anche in letteratura vengono
Borat
TAVOLA ROTONDA
affrontati spesso con un misto di si¬
tuazioni ironiche ed elementi slap-
stick.
MB: Condivido quello che dice Fran¬
cesco e infatti possiamo parlare di
un’evoluzione molto ampia della nar¬
razione che prende appunto le mosse
dalla letteratura sofisticata americana
contemporanea e si sposta al film pa¬
rodia. Penso che potremmo rintraccia¬
re i motivi di questo cambiamento
strutturale in questioni di stampo so¬
ciale e percettivo, come per esempio la
diffusione degli psicofarmaci di massa,
la nuova narrazione televisiva, i reality
show.
Ma quello che dicevo era viceversa
provocatorio nei confronti di Roy
quando afferma che vale più una pun¬
tata di 24 che cento Superman Returns.
Forse è la critica ad essere inadeguata,
siamo noi quelli incapaci di analizzare
in modo pertinente certi fenomeni
blockbuster differenti da quelli che
eravamo abituati a trattare in prece¬
denza.
MG: Secondo me il ricorso al comico
e alla commedia nelle strutture narra¬
tive di David Foster Wallace mira più
che altro a riferirsi a un certo immagi¬
nario. Se il comico entra dentro i mec¬
canismi di Wallace lo fa in quanto ma¬
nifestazione di un mondo spettacolare
precedente che viene convocato post¬
modernamente, più che come ingre¬
diente dellefficienza narrativa dei suoi
romanzi. Secondo me il comico e la
commedia sono presenti soprattutto
perché fi avevano usati i suoi padri nar¬
rativi dentro un tipo di narrazione che
apparentemente non li avrebbe mai
contemplati: in L’arcobaleno della gra¬
vità di Pynchon ci sono sprazzi musi¬
cal che lasciano spazio a veri e propri
intermezzi comici, anche scatologici.
Se David Foster Wallace riprende ele¬
menti comici lo fa non tanto per in¬
nervare la propria narrativa quanto, da
un lato, per rimandare a quella specifi¬
ca patrilinearità narrativa, e dall’altro a
un tipo più eterogeneo di richiami
spettacolari e metaspettacolari.
DG: Come sempre gli elementi su cui
discutere sono tantissimi, anche sul ci¬
nema indie. La mia impressione è che
il ragionamento sia molto legato al
concetto di cultura e controcultura
americana, al divario sociale tra chi
può andare al college e chi no, a spere¬
quazioni di stampo culturale. Sono
emersi elementi che andrebbero ap¬
profonditi e concordo pienamente con
quanto detto da Maurizio, e cioè che
dovremmo affinare i nostri strumenti
di analisi e cercare di individuare dei
filoni anche storiografici per l’analisi
di questi film, come ad esempio l’in¬
fluenza dello show televisivo america¬
no sulla commedia e sulla comicità. In
ogni caso l’indagine dovrà concentrar¬
si anche sulle fonti extrafilmiche.
Film citati
Ace Ventura: l’acchiappanimali (Ace Ven¬
tura, Pet Detective , Tom Shadyac,
1994).
Amore a prima svista (Shallow Hai ,
Bobby Farrelly, Peter Farrelly, 2001).
L’amore in gioco (Fever Pitch , Bobby
Farrelly, Peter Farrelly, 2005).
L’amore non va in vacanza (The Holi-
day, Nancy Meyers, 2006).
Blades of Glory (Josh Gordon, Will
Speck, 2007).
The Blair Witch Project (Daniel Myrick
e Eduardo Sànchez, 1999).
The Blues Brothers (John Landis,
1980).
Borat (Borat: Cultural Learnings of
America for Make Benefit Glorious Na-
tion of Kazakhstan, Larry Charles,
2006).
La casa dei 1000 corpi (House of 1000
Corpses, Rob Zombie, 2003).
Che cosa è successo tra mio padre e tua
madre? (Avanti!, Billy Wilder, 1974).
Election (Alexander Payne, 1999).
E ora qualcosa di completamente diverso
(And Now for Something Completely
Different, Ian MacNaughton, 1971).
Epic Movie (Jason Friedberg, Aaron
Seltzer, 2007).
Febbre a 90° (Fever Pitch, David Evans,
1997).
Hot Movie (Aaron Seltzer, 2006).
Un'impresa da Dio (Evan Almighty,
Tom Shadyac, 2007).
L’invidia del mio migliore amico (Envy,
Barry Levinson, 2004).
Io, me e Irene (Me, Myself & Irene,
Bobby Farrelly, Peter Farrelly, 2000).
Manufacturing Dìssident (Rick Caine,
Debbie Melnyk, 2007).
Melinda e Melinda (Woody Alien,
2004).
Mi presenti i tuoi? (Meet thè Fockers,]sy
Roach, 2004).
Molto incinta (Knocked Up, Judd Apa-
tow, 2007).
Napoleon Dynamite (Jared Hess,
2004).
Una notte al museo (Night at thè Mu-
seum, Shawn Levy, 2006).
Number 23 (The Number 23, Joel
Schumacher, 2007).
Pirati dei Caraibi - La maledizione del
forziere fantasma (Pirates of thè Carib-
bean: Dead Man’s Chest, Gore Verbin-
ski, 2006).
Prima pagina (The Front Page, Billy
Wilder, 1974).
40 anni vergine (The 40 Year Old Vir¬
gin, Judd Apatow, 2005).
Quel mostro di suocera (Monster-in-
Law, Robert Luketic, 2005).
Ricky Bobby, la storia di un uomo che sa¬
peva contare fino a uno (Talladega Ni-
ghts: The Ballai of Ricky Bobby, Adam
McKay, 2006).
La rivincita delle bionde (Legally Blon¬
de, Robert Luketic, 2001).
Scary Movie (Keenen Ivory Wayans,
2000 ).
School of Rock (Richard Linklater,
2004).
Una settimana da Dio (Brace Almighty,
Tom Shadyac, 2003).
Sicko (Michael Moore, 2007).
Lo spaccacuori (The Heartbreak Kid,
Bobby Farrelly, Peter Farrelly, 2007).
Superman Returns (Bryan Singer,
2006).
Suxbad (Superbad, Greg Mottola,
2007).
Tenacious D e il destino del rock (Tena-
ciuos D in thè Pick of Destiny, Liam
Lynch, 2006).
Ti presento i miei (Meet thè Parentsfsy
Roach, 2000).
Transformers (Michael Bay, 2007).
Tu io e Dupree (You, Me and Dupree,
Anthony Russo, Joe Russo, 2006).
Tutti pazzi per Mary (There's So¬
mething About Mary, Bobby Farrelly,
Peter Farrelly, 1998).
Vero come la finzione (Stranger Than
Fiction, Marc Foster, 2006).
Note
1. Cfr. soprattutto Maurizio Grande, Roberto de
Gaetano (a cura di), Billy Wilder , Roma, Bulzoni,
2006.
2. Linda Williams, “Film Bodies. Gender, Gerire
and Excess”, Film Quarterly 44 , n. 4 (Summer
1991), pp. 2-13, ora in Barry Keith Grant (a cura
di), Film Geme Reader III , Austin, University of
Texas Press, 2003.
Tu, io e Dupree
Due single a nozze
Venere in Dodge Challenger
Grindhouse - A prova di morte
[Grindhouse - Death Proof Quentin
Tarantino, 2007)
Anche le cheerleaders sanno che i film
automobilistici grondano di sottintesi
sessuali. A prova di morte più che mai,
e non solo perché Lee (la cheerleader)
vede nelle sgasate di Mike un ipodota¬
to. Né sorprende, dopo Kilt Bill, la te-
matizzazione del masochismo. Se la
Sposa (cfr. Il freddo e il crudele di De¬
leuze) 1 era l’ideale masochista (posto
autodistruttivamente dal maschile:
Bill) di una figura femminile incar¬
nante l’impersonalità macchinale della
natura, la freddezza dell’alternarsi in¬
differente di morte e rinascita, ora Ta¬
rantino va ancora più a fondo preci¬
sando il masochismo quale torsione
interna del feticismo. Dimezza il film,
la prima parte “feticista”, la seconda,
simmetrica, “masochista”: il punto, co¬
me in Deleuze, sta nella sottile diffe¬
renza tra le due. “Il masochismo di ba¬
se non è né materiale né morale, è for¬
male, unicamente formale” 2 . Se nella
prima metà ricorre spesso una presen¬
za a sostituire un’assenza (quella del
fallo materno: è la definizione stessa di
feticcio), la seconda replica lo schema
della prima operando uno slittamento
intrinseco verso un’idealizzazione ef¬
fettiva del femminile (à la Kill Bill). Il
masochismo per Deleuze è questo: de¬
sessualizzazione del fantasma (della
scena assente presentificata dal fetic¬
cio) e risessualizzazione nell’ideale.
Dalla minzione trattenuta e poi assen¬
te, negata dai frame mancanti, alla
contemplazione (idealizzazione) del
ragazzo di Lee, che la guarda orinare.
“Il masochismo è l’arte del fantasma. Il
fantasma gioca tra due serie, due limi¬
ti, due ‘bordi’, entro i quali si instaura
una risonanza che costituisce la vita
vera del fantasma” 3 . Se il feticismo si
fonda sul narcisismo maschile ferito
(nessuno conosce i film in cui ha lavo¬
rato Mike), il masochismo inscena la
punizione del narcisismo del maschio
che gioca senza riguardo per la contro¬
parte (Mike è punito per l’insegui¬
mento). La dialettica feticista presen¬
za-assenza è nella prima parte onni¬
presente, dall’affiancare a un regista
assente (se non via sms) uno troppo
presente (Tarantino che interpreta
Warren), alla frequenza di piedi fem¬
minili (e la gamba tagliata sull’asfalto)
assenti nel secondo blocco. Julia sul di¬
vano in pòsa identica a quella del po¬
ster sopra di lei la sostituisce feticisti¬
camente, Lee invece ammira la propria
idealizzazione su una rivista femmini¬
le. Per Sacher-Masoch idealizzare si¬
gnifica soprattutto sospendere, conge¬
lare l’oggetto idealizzato in un’immo¬
bilità fotografica (viceversa Julia copia
una donna che non è lei, assente). Nel¬
la stilistica masochiana, come nell’eco¬
nomia masochista, la sospensione, l’at¬
tesa, la dilazione, è cruciale 4 . L’orgasmo
prolungato (e non puntuale-fallico co¬
me il crash della prima metà) che è lo
Ship's must è la strategia narrativa stes¬
sa del secondo segmento (castissimo
cóme lo è la narrativa masochista, a
fronte del primo “bollente”), in cui la
tarantiniana arte delle pause (la scena
delle cinture in mezzo alla strada), del¬
la dilatazione ritmica e dell’indugio sui
diàloghi è tirata al massimo per co¬
struire un’attesa, una sospensione. Poi¬
ché invece il feticismo è per definizio¬
ne fortemente sessualizzato, la prima
metà sarà un’alternanza calcolata di
tensione-rilascio, un sistema di picchi
e cadute, un ritmo altalenante retto
dalle “attrazioni” delle lap dance, bal¬
letti e provocazioni varie. La ripetizio¬
ne delle attrazioni, scandita dagli LP
nel juke-box a intervalli regolari, cul¬
mina nell’incidente “moltiplicato”. I
feticci si organizzano in una serialità,
in una catalogazione: vedi Truffaut,
Monteiro... e la rubrica di Mike.
Se feticismo è disconoscimento del
fallo materno, la ripetizione fissa il di¬
sconoscimento come tale, conferma
ogni volta l’impossibilità in cui di fat¬
to consiste. È l’istinto di morte freu¬
diano, l’eterno scansare la morte (come
Mike nell’auto “a prova di morte”) at¬
traverso la ripetizione - è quest'ultima
che fonda il legame inestricabile tra
Eros e Thanatos. Feticismo e maso¬
chismo come due modi lievemente di¬
versi di riconoscere tale legame, di
identificare la ripetizione. In un caso si
ripete per disconoscere sempre di nuo¬
vo (l’assenza del fallo materno) - nel¬
l’altro è la ripetizione che viene ad as¬
sumere valore di per se stessa: il piace¬
re non sta più nel mancare reiterata-
mente il piacere “totale”, ma va a coin¬
cidere con la ripetizione stessa. La ri¬
petizione, nel masochismo, diventa per
così dire un fine in sé piuttosto che un
mezzo per disconoscere compulsiva¬
mente un’assenza. “Nel processo di de¬
sessualizzazione che salda la ripetizio¬
ne e la contrappone al piacere, poi nel
processo di risessualizzazione che agi¬
sce come se il piacere della ripetizione
procedesse dal dolore” 5 . Desessualiz¬
zazione, tramite il “freddo” che Deleu¬
ze riconosce cardine del masochismo,
e risessualizzazione: Icy Hot, come la
giacca di Mike. La castità del secondo
segmento si accompagna alla risessua¬
lizzazione della ripetizione in quanto
tale (non più solo pulsione di morte:
tra primo e secondo atto il teschio spa¬
risce dal cofano): a risessualizzarsi è
dunque la macchina. Il fallo materno
assente della prima parte, scimmiotta¬
to con modi acidamente mascolini
ULTIMO SPETTACOLO
(Marcy poi finge di essere uomo), di¬
venta nel secondo (in cui Kim ha una
pistola) la bramata automobile 6 , ripeti¬
zione automatizzata e non solo fetic¬
cio. Lo sbocco della desessualizzazione
è l’idealizzazione della meccanicità,
che si riallaccia all’ideale masochista
dell’alternarsi indifferente dei cicli na-
turah (femminili) di morte-rinascita
(Zoe cade e risorge nelle maniere più
imprevedibili). Similmente, la voce
(elemento materno per eccellenza) la¬
tita nel primo pezzo, in cui il juke box
sciorina molte canzoni ma nessuna le
canta, mentre nel secondo c’è una sola
canzone, ed è Lee a cantarla.
Al feticismo si associa come noto il
voyeurismo: là sua parabola sarà analo¬
ga. Mike spia le ragazze e l’occhio è il
suo elemento: cannocchiale, collirio,
fotografie. Nel segmento “feticista” an¬
che lo spettatore è palesato voyeur: al¬
l’inizio della lap dance, e nella veranda,
viene rimarcato che lui vede ciò che
Mike non vede. Quando il suo punto
di vista e quello di Mike coincideran¬
no sarà la fine, ovvero non ci sono più
fotografie ma la soggettiva in fieri dal
mirino della macchina fotografica. “La
sospensione ha la stessa funzione ri¬
spetto all’ideale, e lo proietta nel fanta¬
sma. La stessa attesa è l’unità ideale¬
reale, la forma o la temporalità del fan¬
tasma” 7 . Con l’attesa dello scatto in
tempo reale, la separatezza costitutiva
del feticcio-foto viene meno, gli viene
restituita la temporalità, la sospensio¬
ne. E infatti siamo già nel segmento
“masochista”. Nel quale il punto di vi¬
sta è delle ragazze: Mike viene solo in¬
travisto durante le chiacchiere al tavo¬
lo e non ha più nessun punto di vista
privilegiato o alternanza binaria col lo¬
ro come nella prima parte, tant’è che
allo slittare del punto di vista da Mike
alle ragazze (al rientro del colore), è
Abbie a vedere l’auto da cui Mike le
spia. La seconda parte disattiva dall’in¬
terno il voyeurismo della prima.
A proposito della fascia mediana del
film: è ovvio che l’intermezzo in b/n
richiama la desessualizzazione, perno
del masochismo rispetto al feticismo.
Ma conta anche il dialogo tra lo sce¬
riffo e il figlio: dentro lo squilibrio per¬
manente tra i sessi (alluso dal sipariet¬
to tra i due e la dottoressa), segnala il
venir meno della legge maschile-pa¬
triarcale per far spazio alla forma fem¬
minile-idealizzata di sostituzione alla
legge: il contratto. “Il masochista vive
l’ordine simbolico come inter-mater-
no, e pone le condizioni sotto le quali
la madre, in un tale ordine, si confon¬
de con la legge. [...] La triplicazione
delle madri ha letteralmente espulso il
padre dall’universo masochista” 8 . Il se¬
condo segmento porta le tre donne in
prima Enea e ricaccia Mike nelle retro¬
vie. È il contratto, forma giuridica per
eccellenza del masochismo (ancora ne
Il freddo e il crudele ), a suggellare ripe¬
tutamente gli accordi tra Lee, Kim,
Abbie e Zoe.
Quegli accordi che Julia e le altre non
trovano mai, perse nell’oscillazione ir¬
risolta tra acidità e sensualità, tra cor¬
tesie di maniera e malcelate rivalità
isteriche, così differenti dal camerati¬
smo aggressivo delle seconde. Simme¬
triche, in questo senso, le reazioni ai
racconti ose'e, o ai malintesi Shan-
na/Shauna e Nuova Zelanda/Austra¬
lia. O i botta-risposta con montaggio
tesissimo delle une, e le chiacchiere al
tavolo in (quasi) pianosequenza delle
altre. “Tutto il movimento del maso¬
chismo consiste nell’idealizzare le fun¬
zioni delle cattive madri, trasferendole
sulla buona madre” 9 . Cambiare di se¬
gno dall’interno alle negatività della
prima serie femminile, trovando il mo¬
do di idealizzarle.
Il fantasma masochista ha come
bordi simbolici la madre uterina e
la madre edipica: entro le due, e
dall’una all’altra, la madre orale, il
cuore del fantasma. Il masochista
gioca tra questi estremi, e li fa ri¬
suonare nella madre orale. In tal
modo egli conferisce a costei, alla
buona madre, un’ampiezza che le
fa costantemente sfiorare l’imma¬
gine delle sue rivali. È necessario
che la madre orale rapisca alla ma¬
dre uterina le sue funzioni eteriche
(prostituzione) e alla madre edipi¬
ca le sue funzioni sadiche (puni¬
zione) 10 .
Se la prima serie di ragazze oscilla tra
sensualità e sadismo, la seconda “lette¬
ralmente” compie il suo viaggio in au¬
to tra sensualità (la ricognizione sulla
sessualità di ognuna) e sadismo (verso
Mike), ma “stabilizza” i due poli attra¬
verso la meccanicità, attraverso la di¬
namica rigorosa quanto acefala e fero¬
cemente pragmatica che si instaura tra
loro - si pensi ancora alle loro inesau¬
ste contrattazioni. Nella seconda serie
di ragazze, c’è ancora la sensualità
(Abbie e Lee, quantomeno) e la cru¬
deltà (Lee lasciata in balia del redneck)
delle altre, ma risignificate dall’idealiz¬
zazione materna (Abbie, unica madre
nel film) e macchinale che è del maso¬
chismo. Dai frame mancanti della pri¬
ma metà, in cui la pellicola salta, a
quelli subliminali dei titoli di coda, le
code di pellicola raffiguranti tradizio¬
nalmente volti femminili: il femminile
non è più la mancanza (tra i frame), ma
direttamente quel nero che tra un fo¬
togramma e l’altro ne garantisce la
successione - insomma, il femminile
come il motore stesso della e nella ri¬
petizione, come vuole l’idealizzazione
masochista.
Tutto questo chiarisce la vera natura
della cinefilia di Tarantino, lontanissi¬
ma dalla vulgata che la vuole vuota,
sterile e ammiccante. In quanto com¬
plice di Mike (lo è Warren, dice lo sce¬
riffo), la collocazione di Tarantino
cambia nettamente dalla prima alla se¬
conda metà dell’opera, segnando un
distacco radicale e decisivo. Mike con¬
suma i suoi incidenti per fìnta, come
esorcismi della morte solo in absentia
di essa (è l’erotismo secondo Bataille,
un feticcio della morte), al riparo del¬
l’abitacolo; è uno stuntman,z non un
cowboy , il suo mestiere è fingere, ed è
pure un fìnto stuntman (è un attore ve¬
ro, Kurt Russell), e rimpiange un cine¬
ma tanto “vero” quanto ora assente,
con “veri” incidenti-orgasmi. Lo Ship’s
mast è girato davvero da una stuntwo-
man vera (Zoe Bell). È l’azione, le di¬
namiche e i meccanismi di essa, indi-
pendenti dall’ideologica “autenticità”
che i fanzinari (e Mike) vorrebbero
perduta, che hanno la meglio e con¬
quistano le redini del progetto taranti-
niano. La differenza tra il feticismo
della pellicola e del reperto cinefilo (è
nel segmento feticista che la pellicola è
fintamente danneggiata, graffiata,
sgranata ecc. - lì la T-shirt L'ultimo
buscadero e il poster di Soldato Blu) e la
riproduzione con pellicola “neutra” de¬
gli automatismi forti dell’azione cine¬
matografica (dialogo compreso) senza
alcun ammiccamento (la seconda par¬
te; Punto zero non è ammiccamento, è
parte del plot), è netta. La parabola di¬
segnata dal film va chiaramente nella
seconda direzione contro la prima: Ta¬
rantino riproduce la linfa dell’azione
cinematografica, la sua meccanica, la
sua trasparente sapienza retorico-di¬
scorsiva, la sua solidità tecnica al servi¬
zio della flagranza dell’esperienza
spettatoriale, e non (tanto) la comoda
e classificatoria riconoscibilità delle
sue superfici. E dà una splendida pro¬
va di saper trovare e usare questa linfa.
Marco Grosoli
Note
1 Gilles Deleuze, Il freddo e il crudele , Milano,
SE, 1996.
2 Ibidem, p. 83.
3 Ibidem, pp. 73-74.
4 Ibidem, p. 37.
5 Ibidem , pp. 132-133.
6 Mike stesso aveva detto poco prima che la
macchina era quella di sua mamma.
7 G. Deleuze, op. cit ., p. 81.
8 Ibidem , p. 71.
9 Ibidem, p. 69.
10 Ibidem , p. 74.
Grindhouse - Aprova di morte
11
ULTIMO SPETTACOLO
12
Il cinema di exploitation nell’epo¬
ca della riproducibilità tecnica
Grindhouse (Robert Rodriguez e
Quentin Tarantino, 2007)
Capita sempre meno spesso che un’u¬
scita cinematografica possa diventare
una specie di happening, un evento lo¬
calizzato, irripetibile al di fuori di un
determinato contesto, ora che lofferta
di intrattenimento domestico e di tele¬
visione satellitare ha fatto piazza puli¬
ta delle proiezioni di mezzanotte. Ma
la cosa più impensabile è che ciò possa
accadere al di fuori del confine dei fe¬
stival, per di più all’interno del cinema
mainstream e ad opera di uno studio di
media grandezza che esporta i propri
prodotti oltremare nel pieno rispetto
dell’usuale ciclo sala-home video.
Eppure, è proprio quanto è accaduto
tra la primavera e l’autunno del 2007
con Grindhouse: l’idea iniziale di Ro¬
bert Rodriguez e Quentin Tarantino
era quella di far uscire nelle sale un
normale film horror ad episodi della
durata complessiva di due ore, ma chi
aveva seguito i comunicati stampa nel
corso del 2006 aveva avuto modo di
assistere al progressivo sviluppo di un
ibrido tra un pastiche e un’opera con¬
cettuale, coerentemente con quanto
Tarantino aveva già fatto con Kilt Bill
(2003 e 2004). Da film a episodi
Grindhouse si stava lentamente trasfor¬
mando nell’inedito tentativo di simu¬
lare un’esperienza di visione ben preci¬
sa, inaccessibile alla maggior parte de¬
gli odierni spettatori: i cinema
grindhouse statunitensi sono infatti sa¬
le del centro città in cattivo stato, de¬
classate rispetto ai multisala integrati
negli shopping mali delle zone subur¬
bane, che negli ultimi trent’anni sono
sopravvissute differenziando i propri
spettacoli tanto dal punto di vista del
rapporto qualità/prezzo - riportando
in auge il doublé feature, il doppio spet¬
tacolo al prezzo di un unico biglietto -
quanto da queEo dell’offerta, impron¬
tata al sensazionalismo più immediato
che solo le produzioni di genere euro¬
pee o asiatiche sembravano poter of¬
frire in dosi massicce. Un sottobosco
sconosciuto al pubblico non anglosas¬
sone, in quanto le poche sale rimaste
nel centro delle città europee predili¬
gono il cinema d’essai, e eh e non è in¬
frequente veder celebrato in qualche
prodotto recente: forse chi legge si ri¬
corderà di A morte Hollywood (Cedi B.
Demented, John Waters, 2001), in cui i
protagonisti sfuggivano alla polizia di
Baltimora rifugiandosi in sale che
proiettavano di volta in volta vecchi
film di FuEer o pellicole di kung fu.
Così, il nuovo film di Tarantino e Ro¬
driguez per i fratelli Weinstein (questa
volta sotto l’etichetta Dimension), co¬
minciava a fregiarsi deEo slogan “2
film con un unico biglietto!”, il cui uti¬
lizzo è tanto più ironico in un decen¬
nio in cui E trend prevalente consiste
neEo spezzare in più uscite cinemato¬
grafiche film girati su un unico set, co¬
me quelli dei Wachowski, di Jackson e
più di recente deEo stesso Tarantino.
Inoltre erano state avviate le coEabora-
zioni più disparate per reperire nuovo
materiale utile ad ampHare e variegare
il prodotto finale, sotto forma di falsi
trailer che avrebbero intervaEato i due
lungometraggi. L’accento veniva quin¬
di posto suE’esperienza visiva comples¬
siva, piuttosto che sui singoE fram¬
menti, e l’operazione, neEe intenzioni
dei due registi, doveva essere imme¬
diatamente seriaEzzabile: alcuni dei
falsi traEer sarebbero dovuti diventare
lungometraggi da inserire negli ipote¬
tici capitoE successivi. Uriidea che a
chi scrive ha ricordato gE sfortunati
progetti di John Carpenter produttore,
quando nel 1982, Eberatosi deE’in-
gombrante Micheal Myers nel secon¬
do capitolo di HaEoween (Il signore
della morte, Rick Rosenthal, 1981),
meditava di trasformare la serie in un
contenitore vuoto che a partire da
Halloween III di Tommy Lee WaEace
avrebbe presentato ogni anno un nuo¬
Grindhouse - Planet Terror
vo film horror dì un regista esordiente.
Pertanto la versione di Grindhouse
uscita neEe 2600 sale americane e ca¬
nadesi che l’hanno proiettata a partire
da aprile 2007 presentava questo pa-
Ensesto: E trailer Machete (parodia de-
gE action movie anni Settanta firmata
Rodriguez), il lungometraggio Planet
Terror (Rodriguez), E trailer Werewolf
Women of thè S.S. (pastiche horror-
concentrazionario reaEzzato da Rob
Zombie), la fìnta pubbEcità di un ri¬
storante Tex Mex, E traEer Doni (pa¬
rodia dei film di Mario Bava reaEzza-
ta da Edgar Wright, regista di Shaun of
thè Dead 1 , 2004, e Hot Fuzz, 2007), E
traEer Thanksgiving (parodia di Hal¬
loween, 1978, di Carpenter girata da
EE Roth) e infine E lungo Death Proof
di Tarantino, per un metraggio com¬
plessivo di 191 minuti segnati da graf¬
fi, asincronismi momentanei e rulE
mancanti. A fronte di un budget di 67
miEoni di doEari 2 il film in undici set¬
timane ne ha raggraneEati 25, spin¬
gendo i Weinstein a correre al riparo
dividendo i due lungometraggi, eEmi-
nando i traEer, e presentando E film di
Tarantino a Cannes in un montaggio
più lungo di mezz’ora (il film di Ro¬
driguez è invece identico aEa versione
contenuta in Grindhouse ed è accom¬
pagnato dal trailer di Machete, cosicché
da un punto di vista testuale riproduce
esattamente i primi 100 minuti del
film originale). In tutto questo, la no¬
tizia più sorprendente viene dal fronte
home video, in quanto anche in questo
caso i due film escono divisi e privi dei
fìnti traEer: una cattiva strategia di
marketing e probabEmente un pubbli¬
co poco propenso a stare al gioco han¬
no perciò trasformato l’operazione va¬
gheggiata dai due registi, trasportare
per tre ore le scalcagnate sale del cen¬
tro aE’interno dei multisala, neEa ver¬
sione mainstream di un happening, di
un evento effìmero consegnato aEa
memoria dei pochi spettatori e aEe vi¬
deoregistrazioni ElegaE effettuate in
sala che circolano via Internet. Che si
possa nobiEtarle, per una volta, chia¬
mandole bootleg -?
Francesco Di Chiara
Note
1. In Italia editato per il solo mercato home video
con il titolo L'alba dei morti dementi.
2. Fonte:
http://www.boxofficemojo.com. Per farsi un’idea
si confronti con il budget di 40 milioni di dollari
di Sin City (Robert Rodriguez, 2005) o con i due
Kilt Bill, costati 30 milioni ciascuno.
Terrore tra gli stati membri
Le recenti stagioni del cinema horror
europeo
Il cinema horror in Europa raramente
ha beneficiato di grandi incassi sul
mercato interno, e perciò non ha dato
luogo ad una tradizione duratura. Tut¬
tavia, ancora oggi i cataloghi home vi¬
deo statunitensi recano decine di titoE
ìtahani, francesi o spagnoE prodotti
decine di anni fa, raccolti sotto etichet¬
te come “eurohorror” o “euroshock”,
quasi a significarne l’irriducibile alte¬
rità (riconosciuta principalmente in
più ampie frontiere del visibEe) rispet¬
to aE’equivalente americano.
Oggi, in un decennio che ha visto E
riaffermarsi deE’horror statunitense e
l’effimero boom di queEo asiatico, ci
sembra il momento di provare a tirare
le somme di quanto sta accadendo in
Europa, dedicandovi queE’attenzione
in precedenza riservata al nuovo hor¬
ror americano 1 . Lo spazio a disposi¬
zione ci obbEga però a Emitarci aEe
ultime stagioni, alla distribuzione ita-
Eana e a privEegiare al trattamento dei
singoE film la loro coEocazione aE’in-
temo deEe poEtiche produttrici nazio-
naE e industriaE. Speriamo comunque
che il panorama fornito possa servire
ad individuare una specificità deEa re¬
cente produzione europea e ad aprire
ulteriori discussioni.
Catalogna di sangue
Nel contesto europeo, la Spagna pre¬
senta urianomaEa: è l’unica nazione ad
avere una casa di produzione di media
grandezza dedicata quasi esclusiva-
mente aEa produzione horror. Si tratta
deEa Rimax di BarceEona, i cui pro¬
duttori JuEo Fernàndez e Brian Yuzna
(regista e produttore deE’horror ameri¬
cano anni Novanta) hanno iniziato re¬
clutando registi statunitensi in crisi
(Stuart Gordon), giovani promesse co¬
me l’inglese Brad Anderson ( L'uomo
senza sonno, El Maquinìsta, 2004), ma
soprattutto giovani talenti nazionaE
come Paco Plaza ( Second Name, El se¬
gando nombre, 2002) e Jaume Bala-
guerò ( Darkness, 2002). Quest’ultimo,
cui sono state subito affidate produzio¬
ni di riEevo, è in breve diventato E sim¬
bolo stesso deE’estetica FEmax: valori
di produzione medio-alti, buon profes¬
sionismo del cast locale e internazio¬
nale, comparti tecnici molto curati, E
tutto al servizio di un cinema accade¬
mico, daEa drammaturgia fragile e dal¬
l’impianto fortemente derivativo tanto
sul piano iconografico che su queEo
narrativo, che la FEmax riesce a piazza¬
re ugualmente neEe sale europee e sta¬
tunitensi. L’ultimo Ree, girato in cop¬
pia da Balaguerò e Plaza e presentato
ULTIMO SPETTACOLO
in apertura della LXIV Mostra del Ci¬
nema di Venezia, non fa eccezione:
storia di reporter televisivi bloccati in
un palazzo i cui condomini sono stati
trasformati in zombi cannibali, è gira¬
to interamente in soggettiva dal came¬
raman intradiegetico, cosicché si risol¬
ve in un’applicazione del meccanismo
di The Blair Witch Project (Sànchez,
Myrick, 1999) allo zombie movie, bat¬
tendo sul tempo il nuovo Romero.
Possiede però una sua rozza efficacia e
può essere preso ad esempio dell’ap¬
proccio spagnolo al genere in questo
decennio: film realizzati professional¬
mente che offrono uno spettacolo me¬
dio senza pretese di originalità.
Francia e Inghilterra: nuove leve e fram¬
mentazione produttiva
In occasione della presentazione al fe¬
stival SciencePlusFìction 2 dell’ottimo
Them (. Ils , 2006) di David Moreau e
Xavier Palud, straordinario film di
tensione nel quale una coppia rimane
prigioniera di invisibili assalitori, ave¬
vamo fatto cenno alla situazione fran¬
cese, nella quale a fronte di un sostra¬
to di piccole case attente alla produ¬
zione di genere come la Eskwad
{Them-, Saint Ange, Pascal Laugier,
2004), o la Europa Corp. di Lue Bes-
son (Alta tensione. Haute tension,
Alexandre Aja, 2003) si registra
un’immediata diaspora di talenti: Aja e
il duo di Them sono subito stati pre¬
cettati da Hollywood per i remake di
Le colline hanno gli occhi (Hills Have
Eyes, 2006) e The Eye, a riprova della
difficoltà dell’horror francese a trovare
una stabilità industriale.
Più solida la situazione inglese in cui
case più piccole come la Celador Films
(Descent, Neil Marshall, 2005), la Dan
Films ( Severance , Cristopher Smith,
2006), la Dna Films {28giorni dopo, 28
Days Later, Danny Boyle, 2002) o più
grandi come la Working Tide Films
{L'alba dei morti dementi, Shaun of thè
Dead, Edgar Wright, 2004), supporta¬
te dallo UK Film Council, realizzano
horror nel contesto di una più ampia
strategia che mira alla confezione di
prodotti dì buona tenuta spettacolare e
facilmente esportabili. Come le produ¬
zioni francesi, anche questi film riela¬
borano in maniera originale tematiche
e iconografia dell’horror americano: 28
giorni dopo riprende il filone zombie e
ne condiziona la ripresa commerciale;
Descent rilegge i creature movies inve¬
stendo sulla reinterpretazione dei per-
sonaggi femminili, come aveva già fat¬
to il francese Haute tension con lo sla-
sher, infine Severance, come Them in
Francia, entra nel merito della ridefi¬
nizione dell’est europeo come luogo
del perturbante. Avevamo già rilevato
come, grazie al successo della serie Ho-
stel, l’ex blocco sovietico fosse tornato
ad essere un luogo fantastico e miste¬
rioso dove tutto è possibile: se all’epo¬
ca del cinema classico ciò era dovuto
allo shock della prima guerra mondia¬
le, ora è il vuoto istituzionale lasciato
dal crollo della cortina di ferro, abbi¬
nato a politiche capitaliste particolar¬
mente aggressive, a fare della Slovac¬
chia di Hostel (o dell’Ungheria di Seve¬
rance, della Romania di Them ) un im¬
maginario scenario ideale per vicende
che trasudano violenza e sopraffazio¬
ne. Tuttavia nei due film europei sem¬
bra di rilevare un atteggiamento diver¬
so e più interessante rispetto alla con¬
troparte americana: in Severance un
gruppo di dipendenti di una multina¬
zionale che produce armamenti, in
Ungheria per una ridicola gita motiva¬
zionale, a causa di un errore di percor¬
so diviene preda di un manipolo di fol¬
li reduci del conflitto nella ex-Jugosla-
via; parimenti, Them trae spunto dalla
reale presenza di gruppi di bambini
che vivono nelle fogne di Bucarest. Il
meccanismo di base è perciò quello,
come direbbe Robin Wood, di un ri¬
torno del rimosso che viene a sconvol¬
gere quelle nazioni più sviluppate del¬
l’Unione Europea che nel passato de¬
cennio hanno vissuto da spettatori i
drammi in atto negli stati vicini: un
approccio che restituisce l’immagine
di un horror europeo forse più incline
alla metafora politica di quello ameri¬
cano contemporaneo.
Inoltre Severance partecipa alla ten¬
denza, tutta britannica, a riportare in
voga il legame tra horror e comicità
demenziale, e che lega il film non solo
a Lalba dei morti dementi ma soprat¬
tutto all’umorismo di alcune recenti
serie televisive come The League of
Gentlemen (1999-2002), nella quale gli
ordinari abitanti di una cittadina della
provincia britannica convivono con
una famiglia di serial killer simili per
aspetto a Lon Chaney ne IIfantasma
dell'opera, con un macellaio che con¬
trabbanda carne di origine ignota e
con un folle impresario da circo che
rapisce le mogli altrui.
Severance può essere preso ad esempio
degli spunti più interessanti dell’horror
britannico recente: un dialogo interes¬
sante con i modelli iconografici statu¬
nitensi contemporanei e non, un’atten¬
zione ai prodotti di successo prove¬
nienti da altri media che non si esplica
in forma meramente derivativa, un uso
dell’ironia che differenzia il prodotto
dai concorrenti d’oltreoceano.
Putrii terrori
Potremmo sommariamente dividere la
produzione horror italiana in tre fasce.
Al livello più basso abbiamo un pullu¬
lare di film prodotti a bassissimo bud-
Severance
La terza madre
get, inevitabilmente condannati ai
margini della produzione e confinati al
mercato video nostrano o estero: è 0
caso dell’ultima fase della carriera di
Bruno Mattei, o di progetti più inte¬
ressanti come II mistero di Lovecraft —
Road to L. (Federico Greco e Roberto
Leggio, 2005), che è stato presentato
alla Mostra del Cinema di Venezia,
trasmesso da Studio Universal, e infine
approdato su DVD Rarovideo.
Nello strato intermedio troviamo i
film di due giovani autori che stanno
lentamente tentando di affermarsi al¬
l’interno di produzioni di genere rea¬
lizzate in coproduzione con Spagna e
Inghilterra da case come la Rodeo
Drive o la Cattleya. Alex Infascelli ed
Eros Puglielli fluttuano a livello pro¬
duttivo ed estetico tra la generazione
dei padri dell’horror italiano, cui cerca¬
no di avvicinarsi, e il semi-professioni¬
smo dell’home video, in cui rischiano
di venire risucchiati. Fin dagli esordi
hanno beneficiato di budget medio al¬
ti e di un’attenzione mediatica non in¬
differente, ma i loro due ultimi film
usciti nelle sale, Il siero della vanità
(Infascelli, 2004) e Occhi di cristallo
(Puglielli, 2005) benché realizzati in
compartecipazione con la tv di stato e
presentati in vetrine importanti {Occhi
di cristallo a Venezia, 2004) non hanno
convinto il pubblico con il loro atteg¬
giamento mimetico nei confronti del
giallo anni Settanta. Di qui il tentativo
di rilanciarsi con prodotti distribuiti
direttamente in video come “alternati¬
va” alla circolazione nelle sale, rivendi¬
cando questa scelta con pompose di¬
chiarazioni sulle sue inedite possibilità
autoriali e sperimentali. Ma ADproject
(Puglielli, 2006) e H20dio (Infascelli,
2006), al di là dell’attenzione ricevuta
in virtù dei canali distributivi impiega¬
ti, denunciano nell’estetica, nei modi di
produzione e nei risultati una perico¬
losa parentela con il sottobosco del-
l’horror straight to vìdeo italiano, oltre
ad essere aggravati da pretenziosità
narrativo-linguistiche degne dei peg¬
giori dilettanti.
13
ULTIMO SPETTACOLO
14
Sembra che anche in questo settore
della cinematografia nazionale ci sia
una generazione dei padri troppo in¬
gombrante nei confronti della quale i
figli, soggiogati nell’immaginario e ab¬
bandonati dagli investitori, nulla pos¬
sono. Le uniche produzioni di rilievo
in questa stagione sono infatti quelle
guidate da Argento e Avati. La terza
madre (2007) viene presentato come
chiusura della trilogia iniziata con Su-
spiria (1977) e Inferno (1980), ma il
confronto con il passato del regista è
tanto più crudele quanto più segna lo
zenit della sua inarrestabile discesa ar¬
tistica. Argento evidentemente non ha
nemmeno più voglia di investire sul
piano dell’immagine, e questo sia per
quanto riguarda lo stile di ripresa, ri¬
dotto a una frontalità da fiction tv, che
a livello dell’imbarazzante iconografia
stregonesca; per quanto riguarda la
narrazione, poi, il fatto che tra gli sce¬
neggiatori sia accreditato anche il
montatore del film è un segnale in¬
quietante. Argento ormai funziona
soltanto quando è vincolato da esigen¬
ze produttive altrui e non si può sce¬
gliere i collaboratori: ecco perché i ri¬
sultati più accettabili professionalmen¬
te sono quelli ottenuti con sceneggia¬
ture già scritte e maestranze canadesi
per la serie Masters of Horror. Tuttavia
il suo nome è un brand che vende be¬
ne all’estero, il suo ultimo film è stato
presentato prima a Toronto che a Ro¬
ma ed ha trovato comunque compra¬
tori a scatola chiusa: qualsiasi cosa fac¬
cia, il regista romano sta ancora viven¬
do sul credito conseguito trent’anni fa.
Diversa la situazione di Avati, le cui
parsimoniose incursioni nell’horror
hanno costellato la sua carriera al rit¬
mo di circa un film per decennio. Il
nascondìglio (2007), tratto da un pro¬
prio romanzo uscito poco prima del
film, è una coproduzione in cui rien¬
trano oltre all’onnipresente DueA del
fratello Antonio anche la Rai e l’oscu¬
ra Motion Pictures Midwest (Usa),
per un film che fin dalle ambientazio¬
ni (l’Iowa in luogo dell’Emilia Roma¬
gna) e dal composito cast sembra pun¬
tare alla vendibilità internazionale. Ma
al di sotto della confezione scopriamo,
riproposto con solidità narrativa e stile
di regia assai più incisive delle sue ul¬
time prove autoriali, lo stesso impian¬
to dei più celebri contributi al genere
di Avati: il lungo prologo come in Ze-
der (1983) la provincia ostile che na¬
sconde segreti terrificanti, un senso di
persecuzione che attanaglia il protago¬
nista (La casa dalle finestre che ridono,
1976). Il tutto però aggiornato nell’i¬
conografia, che almeno per quanto ri¬
guarda la figura dell’assassino sembra
riecheggiare recenti suggestioni orien¬
tali.
E uno sviluppo bloccato quello del-
l’horror italiano, indipendentemente
dalla qualità degli esiti: complice pro¬
babilmente la riscoperta cinefila, spes¬
so acritica, dei nostri decenni di mag¬
giore vivacità produttiva, sembra che
né i finanziatori né le nuove leve rie¬
scano a guardare oltre il passato persi¬
no in momenti in cui il genere vive una
nuova giovinezza nel contesto interna¬
zionale.
Francesco Di Chiara
Note
1. Enrico Biasin (a cura di) “Speciale New New
Horror”, Cinergie, n. 12, settembre 2006.
2. Cfr. Cinergie., n. 14, settembre 2007, p. 49.
Da André and Wally B. a Rata-
touiUe. Pixar, una macchina crea¬
trice
L'umanità geme, semischiacciata dal peso
del progresso compiuto.
Non sa abbastanza che il suo avvenire
dipende da lei.
A lei di vedere prima dì tutto se vuole
continuare a vivere;
a lei di domandarsi poi se vuole soltanto
vivere, o fornire anche lo sforzo
perché si compia, anche sul nostro
pianeta refrattario, la funzione
essenziale dell’universo,
che è una macchina destinata a creare
delle divinità.
Henri Bergson 1
È fin troppo banale affermare che la
storia dell’animazione poggia sulla
tecnologia per potersi rendere espres¬
sivamente autonoma. Il cinema di ani¬
mazione digitale non ha fatto altro che
enfatizzare questa tendenza innata.
E soprattutto negli Stati Uniti che la
tecnologia si è affermata come stru¬
mento ricco di possibilità ed in conti¬
nua crescita. A riprova dell’abbondan¬
za di proposte cinematografiche, basti
pensare che soltanto negli ultimi mesi
del 2007, sono stati presentati, dalle
diverse case di animazione concorren¬
ti, titoli come Ratatouille (Brad Bird,
Jan Pinkàva, 2007), Shrek Terzo (Shrek
thè Third, Chris Miller, Raman Hui,
2007), Bee Movie (Steve Hickner, Si¬
mon J. Smith, 2007) e, in 2D, I Sim-
pson - Il Film (The Simpsons Movie,
David Silverman, 2007).
E la Pixar ad aver marchiato il cinema
d’animazione di questo ultimi venti
anni. I risultati della ricerca tecnologi¬
ca, congiunta con la sperimentazione
nei contenuti e nelle forme dell’anima¬
zione, iniziano a trovare espressione
tangibile già a metà anni Ottanta, con
la Divisione Computer della Luca-
sFìlm. L’anno decisivo è il 1984: il cor¬
to The Adventures of André and Wally
B., di Alvy Ray Smith, viene presenta¬
to come progetto dimostrativo per la
SIGGRAPH, festival dedicato alle
nuove tecnologie. Il film è breve e i
personaggi sono costruiti con forme
geometriche elementari, ma lo scena¬
rio bucolico, realizzato con un sistema
particellare che moltiplica elettronica-
mente le foglie degli alberi e la vegeta¬
zione, insieme alla scia del movimento
prodotta dai due protagonisti, offrono
una dinamicità e un ritmo senza pre¬
cedenti. I corti della Pixar 2 rappresen¬
tano la genesi e l’evoluzione dell’ani¬
mazione tridimensionale; una vera e
propria storia del linguaggio generato
attraverso la progettazione di software
capaci rendere vivi oggetti comuni, di
REC
creare spazi tanto dettagliati da diven¬
tare iperreali.
Dopo il successo ottenuto con André
and Wally B., il gruppo di precursori
dell’elaborazione digitale, con il creati¬
vo Lasseter e il fondatore della Apple,
Steve Jobs, danno vita ad una nuova
compagnia, la Pixar, che oggi può esse¬
re definita come la più importante ca¬
sa cinematografica specializzata in
“computer generated imagery”. La
Pixar, realizzatrice di film dal successo
planetario come Toy Story (John Las¬
seter, 1995), Gli Incredibili (The Incre-
dibles, Brad Bird, 2004) e l’ultimo Ra¬
tatouille (2007), non si distingue sola¬
mente per la produzione di lungome¬
traggi animati incomparabili sia sul
piano tecnologico che narrativo, ma
prosegue la sperimentazione attraverso
i corti, che sono a volte degli spin off
dei film, a volte i loro precursori, altre
volte dei lavori autonomi, affidati a
nuovi talenti della computer graphic.
Non è audace pensare che gli autori
guardino anche a quella corrente sfo¬
ciata a partire dalla Pop Art all’inizio
degli anni Settanta chiamata iperreali¬
smo (o fotorealismo), termine che de¬
riva da una tendenza maniacale nel
rappresentare la realtà in modo ancora
più realistico che attraverso il mezzo
fotografico. Se il movimento iperreali¬
sta si è esaurito abbastanza veloce¬
mente, le tecniche usate hanno prima
trovato spazio nell’illustrazione pub¬
blicitaria, per raggiungere poi massima
espressione proprio nell’animazione
grafica tridimensionale.
E il primo corto firmato Pixar, Luxo
Junior (John Lasseter, 1986) si può
considerare, a tutti gli effetti, il simbo¬
lo di tale ricerca estetica, narrativa,
tecnologica 3 . Luxo Jr., realizzato e ani¬
mato da John Lassater, ha per prota-
goniste due lampade da scrivania. Due
oggetti comuni, asettici, banali e ap¬
parentemente privi di ogni possibilità
di espressione, diventano un genitore
premuroso e un figlio esuberante. Ol¬
tre alla riuscita presunzione di dare
carattere ed emotività ad una macchi¬
na, sono l’auto-ombreggiatura della
lampada, resa possibile attraverso lo
studio di un algoritmo matematico, e
la realistica resa dei materiali (il legno,
il metallo) ad aprire la pista ad una
lunga serie di opere che fanno dello
studio sulla luce, sul movimento e sul¬
la superfìcie rappresentata, oltre all’o¬
riginalità dei personaggi (oggetti, es¬
seri umani o animali), il loro punto di
forza.
Il Sogno di Red (Red’s Dream, Ralph
Eggleston, 1987) è il primo corto che
si serve di effetti speciali come la piog¬
gia e presenta il primo modello orga¬
nico: il clown co-protagonista insieme
al monociclo. Ma è con Tin Toy (John
Lasseter, 1988), dove viene usato il
ULTIMO SPETTACOLO
software sperimentale “Renderman”,
che la Pixar comincia a vedere la pos¬
sibilità di realizzare un vero e proprio
film. La storia, che racconta il maltrat¬
tamento di alcuni giocattoli da parte di
un bambino, può considerarsi la prova
generale del primo lungometraggio
firmato Pixar, Toy Story. Il mondo dei
giocattoli in collaborazione con la Walt
Disney Pictures.
Si può notare come Lasseter sia parti¬
colarmente legato al tema dell’oggetto
animato, in particolare del giocattolo,
portatore da sempre di valenze simbo¬
liche ambigue e sinistre come le bam¬
bole raccontate da Rilke 4 o di signifi¬
cati temporali, come scrive Giorgio
Agamben in Infanzia e Storia s . A Toy
Story (1995) segue infatti, a distanza di
qualche anno, Toy Story 2 - Woody e
Buzz alla riscossa (Toy Story 2, John
Lasseter, 1999), poi Cars - Motori rug¬
genti (Cars , John Lasseter, Joe Ranft,
2006), dove le automobili protagoniste
assumono colori e forme che ricorda¬
no da vicino le miniature create per i
bambini, e il terzo capitolo di Toy Story
che è in lavorazione e sarà terminato
entro il 2010.
La nuova fase produttiva di lungome¬
traggi trova nei corti non soltanto un
luogo per cimentarsi con nuove tecni¬
che di animazione, ma anche un pro¬
dotto atto ad arricchire i DVD pensa¬
ti per l’home video. Mike’s New Car
(Pete Docter e Roger Gould, 2002) in¬
fatti vede in campo scene e personaggi
già realizzati per il film Monster’s &
Co. (Monsters Ine., Pete Docter, 2001),
e per la prima volta in un corto Pixar si
fa uso dei dialoghi. Anche Jack-Jack
Attack (Brad Bird, 2005) è uno spin off
del film Gli Incredibili, entrambi diret¬
ti da Brad Bird, nuovo talento nel
campo dell’animazione sia come sce¬
neggiatore che come regista. Bird ha
una lunga esperienza che precede la
sua collaborazione con la Pixar, lavora
insieme a Tim Burton alla Disney, di¬
rige alcuni episodi della serie televisiva
I Simpson e collabora alle versioni oc¬
cidentali dei film d’animazione dello
studio Ghibli di Hayao Miyazaki.
Dopo il geniale lavoro sulla famiglia di
supereroi dagli atteggiamenti non pro¬
prio ortodossi, Brad Bird pensa, scrive
e dirige il suo secondo lungometraggio
realizzato in casa Lasseter, con Jan
Pinkava, Ratatouille (preceduto dal
corto Lifted- in Italia con il titolo Stu.
Anche un alieno può sbagliare, diretto
dall’esordiente Gary Rydstorm). Il film
racconta la storia di Remy, un topo,
anzi un vero e proprio ratto dal muso
affilato, denti aguzzi e pelo arruffato
che, a differenza dei suoi consangui¬
nei, ha sviluppato un gusto ed un ol¬
fatto straordinari e non si accontenta
di nutrirsi di rifiuti. Una serie di disav¬
venture conduce Remy nelle fogne di
Parigi, proprio sotto al ristorante del
famoso chef Auguste Gusteau, suo
idolo. E la brillante carriera di cuoco di
Remy ha inizio con l’aiuto di un gio¬
vane sguattero, Linguini, non senza
difficoltà logistiche dovute soprattutto
alla sua specie d’appartenenza. Con
più di settantamila disegni, il film ha
dettagli straordinariamente verosimili
e movimenti di macchina virtuosi e
spettacolari, soprattutto nelle sequenze
in cui il punto di vista è quello del ro¬
ditore. Bird e Pinkava posizionano in¬
fatti le camere quasi sempre all’altezza
del protagonista e dai suoi occhi ne
scaturisce una visione del mondo in¬
consueta, a volte divertita, altre venata
di amarezza.
A livello estetico Ratatouille costitui¬
sce un nuovo traguardo per gli anima¬
tori della Pixar. Punto di forza è la fi¬
sicità degli attori virtuali. La colonia di
roditori è realizzata in modo molto
realistico, mentre i protagonisti sono
caratterizzati da movenze più umane
(Retny si sforza di essere bipede), pur
nei limiti delle loro sembianze. Oltre
ai topi, modelli mai affrontati prima
dagli animatori Pixar, studiati dal vivo
grazie a dei mammiferi portati all’in¬
terno degli studi d’animazione, estre¬
mamente efficace è risultato anche lo
studio sulla cucina francese, avvenuto
effettivamente all’interno di un rino¬
mato ristorante. Infine texture, pellicce
capelli e abiti, sono il riflesso del mon¬
do reale nei modelli tridimensionali,
così come tutti gli effetti che vedono
in campo fluidi, fuochi ed effetti at¬
mosferici. Non ultimo risultato eccel¬
lente è lo studio sulla scenografia: una
Parigi romantica e caratterizzata da
luci sfavillanti e dettagli che si concen¬
trano non solo sulla verosimiglianza,
ma anche sulla ricerca dell’atmosfera
adatta alla struttura narrativa.
Se ad oggi è ancora difficile attribuire
all’uso di un linguaggio matematico
un valore artistico (ingabbiato all’in¬
terno del concetto di creatività e ma¬
nualità), la visione complessiva dei
corti Pixar (solo alcuni sono stati presi
in considerazione in questo testo) è in¬
vece da considerarsi come una “perso¬
nale” di un grande artista, senza esclu¬
dere i risultati, spesso eccellenti, otte¬
nuti con gli otto lungometraggi creati
dal team di Lasseter. È necessario, in
questo senso, rivolgere un pensiero cri¬
tico a quelle che sono le produzioni
concorrenti (prima su tutte la
Dreamworks, con gli episodi di Shrek
come punta di diamante della casa di
animazione) nel panorama statuniten¬
se, non meno gradite dal pubblico, né
meno sofisticate dal punto di vista tec¬
nico, ma assai più statiche e tradizio¬
nali nello sforzo di coniugare il pro¬
gresso in campo grafico con la ricerca
creativa in ambito narrativo.
Sara Martin
Note
1. Henri Bergson, Le fonti della morale e della reli¬
gione, in Id., Le opere, Milano, Mondadori, 1972,
p. 590.
2. Oggi raccolti, con numerosi extra ed interviste
ai protagonisti della casa di animazione, nel DVD
1 Corti Pixar Collection, Walt Disney Pictures.
3. Non a caso, la lampada da tavolo, protagonista
del corto, è diventata il logo ufficiale della Pixar.
4. Mi riferisco all’analisi di Furio Jesi sul testo
Puppen di Reiner Maria Rilke, in Furio Jesi, Let¬
teratura e mito. Torino, Einaudi, 1968.
5. “Tutto ciò che è vecchio, indipendentemente
dalla sua origine sacrale, è suscettibile di diventa¬
re giocattolo. Di più: la stessa appropriazione e
trasformazione in gioco si può compiere, per
esempio, attraverso la miniaturizzazione - anche
nei confronti di oggetti che ancora appartengono
alla sfera dell’uso: un’automobile, una pistola, una
cucina elettrica si trasformano di colpo, grazie al¬
la miniaturizzazione, in giocattolo. Ma qual è al¬
lora l’essenza del giocattolo? Il carattere del gio¬
cattolo, l'unico, se ben si riflette, che possa distin¬
guerlo dagli altri oggetti, è qualcosa di singolare,
che può essere colto solo nella dimensione tem¬
porale di un ‘una volta’ e di un ‘ora non più’”.
Giorgio Agamben, Infamia e storia. Distruzione
dell'esperienza e origine della storia, Torino, Einau¬
di, 2001, p. 73.
Ratatouille
Ratatouille
15
Quel genere d’attore
L’esplosione degli studi sull’attore e l’in¬
tima immortalità del concetto di genere
Parlare di attori è difficile. Lo si è sem¬
pre detto. Non esiste un genere critico
dedicato alla recitazione cinematografica
e, anche quando le riviste specializzate
cercano di affrontare la sfida, ci si accor¬
ge presto di non avere strumenti efficaci
per una retorica della critica attoriale. Sui
rapporti complessi che intercorrono tra
attorialità e divismo (argomento che in¬
vece ha ottenuto importanti trattati, che
sarebbe stucchevole qui ricordare) era in¬
tervenuto solo Francesco Pitassio - il ti¬
tolo del volume è Attore/Divo, edito da II
Castoro nel 2003.
Ora, invece, la pubblicistica nazionale
sembra aver affilato le armi. In tutti i ca¬
si, a dire il vero, gli autori sono saggisti
esperti, docenti che hanno già affrontato
la questione in passato e, in almeno due
casi, profondi conoscitori del teatro oltre
che del cinema. I riferimenti dei volumi:
Cristina Jandelli, Breve storia del divismo
cinematografico, Venezia, Marsilio, 2007;
Claudio Vicentini, L’arte di guardare gli
attori. Manuale pratico per lo spettatore di
teatro, cinema, televisione, Venezia, Marsi¬
lio, 2007; Gigi Livio, L'attore cinemato¬
grafico. Alcune ipotesi metodologiche e criti¬
che, Arezzo, Editrice Zona, 2007. Nel
primo caso, si tratta di un volume divul¬
gativo - ma non per questo meno inte¬
ressante - che mette a frutto la letteratu¬
ra internazionale sull’argomento per ri¬
compattarla in vista di una storia del di¬
vismo. Lo sguardo sui corpi, sui volti e
sulle figure d’attore/divo è centrato, an¬
che grazie a una buona conoscenza delle
fonti e a una consapevolezza analitica
che permette di inquadrare i fenomeni
nel loro contesto storico e teorico. La
Jandelli si era già occupata di divismo al
femminile durante il cinema muto italia¬
no e non dimentica perciò di indagare i
processi simbolici attraverso i quali il di¬
vo riesce a vivere “fuori” dallo schermo e
dentro i discorsi sociali della sua epoca.
Interessanti, in particolare, le riflessioni
sul cinema contemporaneo e sui rappor¬
ti che intercorrono tra mutamento del-
l’immagine digitale e riflessi che ciò
comporta sul divismo, con acute analisi
delle opere di David Lynch e di II caima¬
no di Nanni Moretti.
Nel caso di Claudio Vicentini, invece, si
mette a frutto la preparazione - amplis¬
sima - in fatto di storia del teatro e del¬
lo spettacolo (materia di cui l’autore è
Professore Ordinario), in stretta connes¬
sione con il cinema, la televisione e per¬
sino la produzione multimediale. In que¬
sto caso, l’approccio è estremamente va¬
riegato. Non è un caso che il sottotitolo
rechi il termine “manuale pratico” ma che
poi vi aggiunga “per lo spettatore”. Sem¬
bra un ossimoro e non lo è. Vicentini,
esperto di tecniche attoriali e recitative,
mostra dunque non solo e banalmente i
trucchi del mestiere, ma una vera e pro¬
pria retorica dei meccanismi dell’arte
dell’attore. Salvo - citando ancora il lun¬
go sottotitolo - che l’arte, in questo caso,
è quella di “guardare” gli attori, e perciò
di saperli vedere, coniugando esperienza
di consumo e innalzamento estetico. Nel
libro, gli esempi sono tantissimi, dal sa¬
cro al profano, dal western all’italiana a
Lawrence Olivier, da Totò a Grace Kel¬
ly, in una scorribanda che, sostenuta da
una scrittura profonda e da un piacere
verso l’argomento giustamente mai cela¬
to, conquista alla prima lettura.
Avvicinandoci sempre più al problema
esposto poco sopra, ovvero alla necessità
di trovare un linguaggio appropriato per
la critica attoriale, troviamo alcune solu¬
zioni nel volume di Gigi Livio. In questo
caso, una serie di saggi separati - ma tra
loro intimamente collegati - ci suggeri¬
scono la possibilità di approdi metodolo¬
gici non casuali a questa materia. L’inda¬
gine è fortemente analitica. Vi si trovano
studi su Cassavetes, dettagliati ragiona¬
menti sui “modi” di abitare il film da par¬
te di Vittorio De Sica e Gary Cooper, ri¬
flessioni intorno a Kazan, all’Actor’s Stu¬
dio e a Marilyn Monroe. In tutti i casi,
materie ampiamente trattate subiscono
una revisione preziosa, che permette di
osservare i fenomeni da un’angolatura
inedita. Le proposte metodologiche di
Livio, che intercettano varie branche del¬
la ricerca e rifiutano ogni impressioni¬
smo, sfociano in un’enfatizzazione dell’a¬
spetto interpretativo da condividere con
forza.
Se questi tre libri, tutti di ottima levatu¬
ra, colmano un vuoto pubblicistico e me¬
todologico importante, ora bisogna assi¬
stere alle ricadute sul piano degli studi
applicativi. Da subito, un critico intelli¬
gente come Sergio Arecco sembra ri¬
spondere da par suo. Rispolverando un
genere assai poco in voga in Italia - la
biofilmografia critica - egli scrive un
monumentale volume su Marion Brando,
edito nel 2007 da Le Mani. Il libro met¬
te insieme una grande quantità di dati e
di notizie, ricostruisce con perizia la vita
di Brando facendosi largo tra mito e
spazzatura, trova rime interne alla bio¬
grafia e alla filmografia dell'attore, dedi¬
ca dettagliate analisi a dialoghi e passag¬
gi (riproposti quasi interi) di ciascun film
girato dall’attore statunitense. L’origina¬
lità del progetto sta proprio nel fare un
bel libro “all’americana”: il critico si
“sporca” le mani con il giornalismo, la
biografìa, la ricerca di fonti, ma non ri¬
nuncia - pur rispettando il genere bio¬
grafico - a letture, interpretazioni, pro¬
poste charificatrici.
Attore, divo e genere, come ci insegnano
FAHRENHEIT 451
gli storici dello stardom, sono termini da
sempre intrecciati. Le categorie dell’at¬
tore e quelle del genere si intrecciano in
complessi terreni di negoziazione delle
attese spettatoriali. Lo comprende bene
un volume apparentemente enciclopedi¬
co e invece straordinariamente brillante
per acutezza critica e amore per l’ogget¬
to di studio. Si tratta di Commedia ame¬
ricana in cento film di Paola Cristalli (Le
Mani Editore), già autrice di pregevoli
testi su Via col vento e sulla Hollywood
classica. In questa lunga trattazione “tra¬
vestita” da elenco di schede, emerge il fi¬
lo rosso che lega la produzione hol¬
lywoodiana dal sonoro a oggi, con i suoi
picchi e le sue cadute, i suoi margini sor¬
prendentemente elastici e le sue norme
immortali, la sua capacità di esaltare vol¬
ti, corpi, parole e la sua schiacciante su¬
periorità rispetto ad altre forme di
espressione popolare. Il volume - lungo
500 pagine dense e appassionanti - si
candida a diventare “opus” extra-accade¬
mico dell’anno per come utilizza gli
strumenti della critica sovrapponendoli
con profonda conoscenza del mestiere a
quelli metodologici o teorici, che pure
l’autrice conosce a fondo. Come per
Arecco, anche per Cristalli la scrittura di
un libro può diventare il luogo di eserci¬
zio dell’intelligenza creativa, dell’ado¬
zione di un mondo cinematografico,
della consuetudine irrinunciabile con ciò
di cui si parla. Ma in entrambi i casi
amore, cinefilia, passione personale
(quasi adesione esistenziale) non tolgo¬
no un grammo di scientificità ai volumi,
anzi ne esaltano loriginale identità.
La casa editrice Le Mani, del resto, con¬
tinua la propria campitura - unica in
Italia - sul cinema classico e post-classi¬
co, e sui generi cinematografici. Lo di¬
mostra il nuovo appuntamento con Ci¬
nema & Generi, datato 2007, pubblica¬
zione annuale a cura di Renato Ventu-
relli che medita sulla situazione e le tra¬
sformazioni dei generi a partire dalla
produzione stagionale e dagli stimoli
storiografici emersi dalle occasioni festi¬
valiere. Anche qui si parla di attori - co¬
me capita nel saggio di Simone Emilia¬
ni: Il corpo e il volto: i nuovi comici statu¬
nitensi, che avvicina alcune delle temati¬
che presenti anche nella Tavola Rotonda
che apre la nostra rivista. Ma poi vi so¬
no articoli su cinema e boxe, sul polar
francese (del massimo esperto italiano
dell’argomento, Mauro Gervasini), sul
cinema politico in Italia, suE’action tai¬
landese, senza dimenticare il luogo per
eccellenza di rielaborazione dei generi,
la nuova fiction tv Usa.
Atteggiamento più lontano e diversifi¬
cato è quello che esprimono i filosofi già
responsabili del volume di analisi su I
Simpson che recensiamo poco oltre. O
meglio, è uno di loro - portavoce del
gruppo newyorkese -, Mark T. Conard,
a curare il libro e a interrogare il noir da
un punto di vista speculativo. Platone
suona sempre due volte — ha filosofia del
noir, edito da Piemme, 2007, attraversa
con ghiotta predisposizione alla materia,
decine di momenti della letteratura e
(soprattutto) del cinema di genere da un
punto di osservazione filosofico. La pre¬
fazione risulta importante per compren¬
dere i vari rivoli in cui si divide il volu¬
me, e la prima parte riesce con esattezza
a ricostruire un reticolo di riferimenti
culturali e sociosemiotici riguardanti na¬
scita e sviluppo del nero. Gli “studi di
caso” sono altalenanti; tra questi spicca
la discussione sul noir e Camus da parte
di Alan Woolfolk. Comunque un volu¬
me da possedere, soprattutto per gli
amanti della teoria del genere e dei suoi
sviluppi eterodossi. Da mettere sullo
scaffale in compagnia del suo gemello
eguale e contrario: L'età del noir. Ombre,
incubi e delitti nel criminale americano
(1940-1960). Si tratta di uno studio dal¬
l’approccio opposto, scritto da Renato
Venturelli (sempre lui) per Einaudi
(2007). Qui il noir è riportato a una fi¬
logenesi le cui pezze d’appoggio sono
difficilmente discutibili. Letteratura,
politica, società, cinema, si stringono
l’un l’altro per chiarire da dove proviene
il noir, che territorio copre, quali figure
privilegia e come comunica dal punto di
vista iconografico e narrativo. L’approc¬
cio più tradizionale alla materia non
nuoce, né si creda che abbia il respiro
corto, poiché infine il risultato appare si¬
mile a quello di Conard: il noir ha con¬
fini più precisi di quanto si creda, eppu¬
re lascia intorno a sé una scia di inter¬
pretazioni, letture, risvolti che non fini¬
scono mai di rilanciarne il senso, fino a
farne - da genere ultra-storicizzato qual
è - un transgenere di riferimento.
Roy Menarmi
17
FAHRENHEIT 451
Recensioni
Lindau
Jacques Aumont, Michel Marie, Di¬
zionario Teorico e Critico del Cinema,
Torino, Lindau, 2007.
Pourpeu qu'on ait rifischi sur la liai¬
son que les de'couvertes ont entrelles,
il est facile de s’appercevoir que les
Sciences et les arts se prétent mutuel-
lement des secours, et quii y a par
conséquent une chaìne qui les unii, il
est souvent diffìcile de réduire à un
petit nombre de règles ou de notions
générales, chaque Science ou chaque
art enparticulier, il ne l'estpas moins
de renfermer en un système qui soit
un, les branches infiniment variées de
la Science humaine.
Jean le Rond d’Alembert 1
Per la collana Saggi della casa editrice
Lindau, nel panorama letterario di
nicchia legato alla settima arte, Jacques
Aumont e Michel Marie ritagliano
una specificità legata alla riflessione
teorica e critica che ha accompagnato
la pratica cinematografica sin dalla sua
comparsa.
Un intento tassonomico-didattico ri¬
volto agli studiosi del settore, ma non
privo di interesse per il lettore cinefilo
o per chiunque è alla ricerca di rispo¬
ste sintetiche e chiare sull’argomento. I
lemmi raccolti nell’opera fissano i car¬
dini su cui si imperniano le diverse
teorie dedicate al cinema da teorici,
studiosi e registi, formulazioni siste¬
matiche mutuate spesso da altre mate¬
rie di studio.
La capacità di questa arte di assorbire
e rielaborare le discipline che l’hanno
preceduta, e che la attraversano e la sua
predisposizione a generare forme de¬
dicate, discorsi critici precipui, lessico
specialistico hanno di sovente bisogno,
per una corretta interpretazione, di
una conoscenza specifica ed approfon¬
dita nei più disparati ambiti culturali e
tecnici o di una guida esperta che illu¬
mini il percorso. Ed è questa la dire¬
zione nella quale si pongono i due stu¬
diosi d’oltralpe. Il loro lavoro non si
conforma come una mera catalogazio¬
ne di definizioni: suggerisce esempi,
propone riferimenti incrociati tra le
varie voci, indica rimandi bibliografici
preziosi. La forte impressione che il
lettore riceve è quella della visione del
cinema come la forma d’arte che, più e
meglio di altre, fagocita tutto lo scibile
e le tecniche umane: dall’estetica alla
semiologia, dalla storia dell’arte alla
sociologia, dalla psicoanalisi alla scien¬
za, ecc. Aumont e Marie offrono uno
strumento di conoscenza semantica ed
etimologica dei termini afferenti al ci¬
nema per una più agevole comprensio¬
ne delle opere e delle considerazioni
degli analisti, attraverso una selezione
delle voci accurata ed una capacità di
sintesi notevole.
La tentazione di denominarla enciclo¬
pedia in miniatura è forte, ma gli stes¬
si autori diffidano il lettore da questa
interpretazione allontanando tale so¬
spetto attraverso l’utilizzo di voci bre¬
vi. Un invito ad allargare ed approfon¬
dire le curiosità attraverso altre ricer¬
che, peraltro ampiamente suggerite.
Provvisto di un indice semantico che
raggruppa le voci ivi presenti in campi
nozionali e disciplinari, posizionando¬
le in più gruppi, il dizionario cerca di
non privilegiare una teoria a scapito di
altre, anche se, naturalmente, alcune di
esse hanno una rilevanza dovuta al se¬
gno che si sono lasciate dietro e godo¬
no del privilegio di uno sviluppo mag¬
giore e di una schematizzazione com-
partimentata. Lo scandaglio della di¬
versificazione degli approcci teorici
proposti in materia di cinematografia
mostra per ogni concetto ognuno dei
significati ad esso ascrivibili ed attesta¬
ti, e si correda di un corposo indice bi¬
bliografico finale.
Nelle parole degli autori: “Questo di¬
zionario vuole testimoniare lo stato at¬
tuale degli studi cinematografici, della
loro ricchezza, ma anche la loro storia
già secolare. Vuole anche testimoniare
il loro carattere internazionale” (p. 6).
Testimonianza del “carattere interna¬
zionale [ occidentale ]” del cinema.
Piera Braione
Note
1. Denis Diderot, Jean le Rond d’Alembert, En-
cyclopédie ou Dictionnaire raisonné des Sciences , des
arts et des métiers , par une société de gens de lettres,
Paris, 1751-1772, introduzione al Tomo I,
http://diderot.alembert.free.fr/.
Free Foundation/Libero
Luisa Arezzo, Gabriella Mecucci, Ci¬
nema, profondo rosso. Come la sinistra ha
costruito Tegemonia sul cinema italiano,
facendone una sprecopoli di celluloide, ca¬
pace dì produrre soltanto film flop, Edi¬
zione speciale per Free Foundation for
research on European Economy/Libe-
ro, 2007.
Questo libro parte da una premessa:
quantità e qualità si corrispondono, un
film trova il suo senso esclusivamente
dalla resa al botteghino. Punto. Segue
supplica di 191 pagine per dire che i
sinistrorsi cattivi mangiano i bambini
del “denaro pubblico” attraverso il ci¬
nema, e la colpa è (quasi) tutta di Vel¬
troni con annessa apologia di cinema -
e politica culturale tutta - del fascismo
(tic!) e Giuliano Urbani, nonché An-
dreotti dei bei tempi, quando da sotto-
segretario contribuiva ad affossare il
neorealismo “troppo avulso dal gusto
popolare”, che però poi non ci si imba¬
razza di vituperare quando si attaccano
le notti bianche e i festival, col solo
scopo di colpire il sindaco di Roma.
Mauro Gervasini ha salutato il libro
quale “scossa” nel panorama sonnolen¬
to del cinema italiano alla quale si do¬
vrebbe rispondere nel merito, giacché i
dati sono dati e non di sinistra o di de¬
stra (ma le interpretazioni dei dati,
quelle sì, sono opinabili e nel libro di
questo si tratta). Sarà anche miope “li¬
quidare le analisi di Cinema, profondo
rosso come sommarie” 1 come ha fatto
Marco Bellocchio ma sommarie lo so¬
no, dunque non si vede perché replica¬
re ad un pamphlet mascherato da testo
scientifico come se fosse una cosa di¬
versa da un qualunque dibattito politi¬
co televisivo (con dati snocciolati da
fonte unica quale premessa veritiera
senza contraddittore in grado di ri¬
spondere sulle medesime fonti), co¬
munque, cerchiamo di essere respon¬
sabili e andiamo al merito.
Anzitutto quantità non è “resa al bot¬
teghino”. Un film non si conclude nel¬
la sola visione di sala. I dati dell’indot¬
to e quelli della distribuzione alterna¬
tiva alla sala, nel testo, misteriosamen¬
te scompaiono, perché “non è possibile
risalirvi” e comunque “si tratta di per¬
centuali irrisorie”. Due problemi, il
primo: è una conclusione non dimo¬
strata e, se non è dimostrabile, darla
per affermazione inoppugnabile è
quantomeno sintomo di scorrettezza
metodologica (ma è ovvio che qui il
metodo è al servizio del merito: se
conviene si è metodologicamente ri¬
gorosi, altrimenti...). Secondo: i nu¬
meri di quanti guardano un film e
quanti pagano il biglietto non sono so¬
vrapponibili: come si misura il file sha¬
ring o il numero di persone davanti ad
un televisore? A meno che il fatto che
il film sia visto non interessi, ma solo il
suo incasso, allora, seguendo questo
criterio per il quale esclusivamente i
film potenzialmente appetibili vanno
finanziati, tanto vale dare i soldi pub¬
blici, tutti quanti, a De Laurentiis, o a
nessuno: muoia Sansone con tutti i fi¬
listei.
Le politiche di gestione della spesa
pubblica della Comunità Europea
hanno definito un concetto di “ecce¬
zione culturale” per il finanziamento
alla cultura, essendo dimostrato come,
in alcuni settori, quali il teatro di pro¬
sa o la lirica, il rientro effettivo dei fi¬
nanziamenti pubblici (ovvero non al
netto dell’indotto) è pressoché impos¬
sibile. Il valore del film o dello spetta¬
colo teatrale è anche un valore imma¬
teriale e se ci scaldiamo altre volte per
difendere valori immateriali quali l’i¬
dentità culturale, non si capisce perché
nel caso della cinematografìa naziona¬
le non si debba fare lo stesso. Detto
questo c’è un problema che pertiene
all’intero sistema industriale italiano
ossia l’accesso al mercato, il lobbismo e
l’assenza di un efficace filtro antitrust:
c’è un costante duopolio distributivo,
da qualche tempo, Medusa/01 (Me-
diaset/Rai) che ovviamente incide sul¬
la resa del film e agisce da vero e pro¬
prio filtro censorio. I film che escono
in tre sale non possono incassare
quanto quelli che escono in cento e il
sistema industriale italiano non è certo
in grado di garantire una concorrenza
effettiva ad un film hollywodiano che
ha un piano di produzione decine di
volte più dispendioso di quello di un
film italiano medio (più investimenti
di denaro pubblico servirebbero, non
meno), né tanto meno si può indicare
il sistema adottato dal coraggioso
esperimento di Vittorio Moroni come
la soluzione, può funzionare una tan¬
tum non costantemente. Infine il Refe-
rence System impedisce l’accesso ai fi¬
nanziamenti pubblici non solo agli
esordienti, come segnala giustamente
Gervasini, ma anche a registi afferma¬
ti che non hanno alle spalle un produt¬
tore noto, ma magari una cooperativa
(si veda il caso disdicevole del manca¬
to finanziamento al film su Puccini di
Paolo Benvenuti 2 ) che non per il solo
fatto di essere tale' è di necessità meno
solida (anzi...).
Federico Giordano
Note
1. Mauro Gervasini, “Qualcosa di destra sul cine¬
ma italiano”, Film Tv, a. 15, n. 23, p. 35.
2. Cfr. Angelo Pizzuto, “Il Caso Paolo Benvenu¬
ti: Puccini negato” e Paolo Benvenuti, “Lettera
aperta al ministro Rutelli”, Cinemasessanta , n.
288, Aprile/Giugno 2006, pp. 15-17.
FAHRENHEIT 451
Bulzoni - Isbn - Sironi
Corrado Peperoni (a cura di), I Sim-
pson. Il ventre onnivoro della tv postmo¬
derna, Roma, Bulzoni, 2007.
William H. Irwin, Mark T. Conard,
Aeon J. Skoble, I Simpson e la filosofia,
Isbn Edizioni, Milano, 2006.
Marco Malaspina, La scienza dei Sim¬
pson. Guida non autorizzata all’Uni-
verso in una ciambella, Milano, Sironi,
2007.
Era inevitabile che gli studi sui Sim¬
pson proliferassero. Caso mai, stupisce
il ritardo di questa fioritura letteraria,
visto che ci avviciniamo ai venti anni
di stagioni televisive e che il primo
lungometraggio - a sua volta lunga¬
mente atteso - ha fatto storia. Co¬
munque sia, i tre libri qui analizzati
mostrano origini differenti. Il primo,
curato da Corrado Peperoni, presenta
una ricca silloge di studi sulla serie più
longeva d’America e lo fa con sguardo
a metà tra la filmologia e lo studio cul¬
turale. Mettendo al lavoro saggisti fre¬
schi e non paludati, Peperoni riesce a
comporre un affresco analitico a tutto
tondo. Spiccano gli scritti su Simpson
e horror ( Chi ha paura dell’uomo giallo'?
di Silvia Moras), spoglio di citazioni e
omaggi; il documentato saggio sulla
traduzione italiana della serie animata
(The Simpsons... Lost in Translation? di
Federica Bologna); l’approfondimento
sulla critica sociale veicolata dal pro¬
dotto {Una famiglia di consumatori ani¬
mati di Massimo Lori). Non mancano,
tuttavia, altri articoli dedicati a ogni
aspetto dell’universo simpsoniano, sia
esso artistico, narrativo o simbolico. La
diversa estrazione dei collaboratori e lo
spirito aperto senza bisogno di giusti¬
ficazioni irrobustiscono l’originalità
del volume, che peraltro fa ben sperare
nella collana che lo ospita (“Grandi se¬
rie televisive americane”, diretta da
Franco Monteleone e Vito Zagarrio,
di cui questo libro è il primo numero).
Assai diverso il discorso per ciò che ri¬
guarda il volume “filosofico”. In questo
caso, si tratta di un testo collettaneo
totalmente improntato all’analisi filo¬
sofica dei Simpson in quanto testi
“portatori” di problemi del pensiero
(come accaduto anche al Dr. House, di
recente). E uno degli approcci più an¬
tichi alla questione, quello di utilizzare
un prodotto popolare per cavarne ri¬
flessioni più ampie. Il problema, spes¬
so, è che si perde di vista l’oggetto: non
è il testo ad essere sollecitato filosofi¬
camente, ma gli elementi filosofici che
il testo sembra suggerire. Dopo di che,
il testo scompare e si ricomincia a par¬
lare di ontologia ed ermeneutica. I fi¬
losofi (analitici) americani qui coin¬
volti sfiorano talvolta il rischio, ma il
più delle volte dimostrano un certo at¬
taccamento all’oggetto che - evidente¬
mente - prendono piuttosto sul serio.
Rimane in ogni caso il fascino di leg¬
gere un approfondimento sulla presen¬
za di Nietzsche negli atteggiamenti di
Bart (o del gioco di parole tra Bart e
Barthes) o individuare elementi
marxiani nel processo relazionale tra i
membri della comunità di Springfield.
Infine, il volume più curioso. La scien¬
za dei Simpson è una vera e propria
monografia scritta da un giornalista
scientifico, che lavora per l’Istituto Na¬
zionale di Astrofisica. Fino ad ora, era¬
vamo abituati a testi di scienziati ap¬
passionati di Sciencefiction, o di sopran¬
naturale, pronti a commentare con cu¬
ra le ipotesi epistemologiche suggerite
dal cinema di genere. Francamente,
mai ci si sarebbe aspettati un lavoro di
questo tipo sui Simpson. E invece ec¬
colo qui, un risultato ottimo e di buo¬
na scrittura, che fa anche invidiare la
competenza umanistica esibita da uno
studioso delle stelle.
Nucleare, ecologia, salute, i temi af¬
frontati dal libro. Il tono è lieve, intel¬
ligente e intelligibile, il passaggio dagli
episodi della serie ai problemi raziona¬
li (e ritorno) si dimostra continuo e
credibile.
Inoltre, contiene una tesi importante:
I Simpson insegna che la scienza è
ovunque, che plasma la vita quotidia¬
na e le relazioni sociali; ma mostra an¬
che che la scienza non è dogma, che
va conosciuta e studiata con la libertà
e quel pizzico di sfrontata creatività
che si trova nella serie creata da Matt
Groening.
Roy Menarini
19
Un sogno lungo un’eternità
Un’altra giovinezza (Youth Without
Youth , Francis Ford Coppola, 2007)
Francis Ford Coppola aveva smesso da
tempo di essere un regista: per dieci
lunghi anni è stato oltre il cinema e ol¬
tre lo spettacolo, coltivando un’auto-
rialità che si esprime più nei progetti
lasciati in sospeso che nelle imprese
effettivamente realizzate. Dirige la sua
compagnia di distribuzione, l’Ameri-
can Zoetrope, è proprietario del vigne¬
to Neibaum-Coppola nella valle di
Napa, in California, e ha creato nel
1997 la rivista letteraria Zoetrope - All
Stories per scoprire e lanciare nuovi ta¬
lenti, per trovare storie inedite da pub¬
blicare e tradurre per lo schermo. L’e¬
norme successo ottenuto con le attività
svolte fuori dal cinema (ristoranti e
aziende vinicole) lo ha messo nella po¬
sizione privilegiata di poter scegliere di
essere libero, di non fare i film che non
ha voglia di fare, di impiegare dieci an¬
ni per sviluppare un progetto, di
emanciparsi dai tempi forzati e dalle
mode dell’industria hollywoodiana, di
scegliere una strategia personale, di
guadagnarsi in prima persona i budget
per realizzare esattamente quello ha
scritto, quello che vuole.
Tra le interminabili digressioni su cibo
e vino, tra la progettazione frenetica e
l’organizzazione culturale, Coppola ha
inserito Megalopolis: un film di finzio¬
ne particolarmente ambizioso che so¬
gnava da tempo e di cui soltanto di re¬
cente è riuscito a portare a termine la
sceneggiatura. Al centro dell’opera ci
sono i concetti filosofici di Tempo e
Coscienza, calati in una grande metro¬
poli della modernità che assomiglia
moltissimo a New York. E a questo
punto della sua vita che Wendy Doni-
ger, la più nota tra le allieve americane
del filosofo e storico delle religioni
Mircea Eliade, suggerisce al regista la
lettura di Urialtra giovinezza, roman¬
zo fantastico dell’autore rumeno scrit¬
to nel 1976 e pubblicato da Gallimard
nel 1980. La potenza del soggetto e il
“miracolo inconoscibile” che colpisce il
protagonista, spalancando lo spazio
del suo inconscio, lo convincono a
rompere un silenzio decennale e a “de¬
buttare” sullo schermo con un film che
è insieme una cosciente messinscena
del tempo e uno strumento di ricerca e
scoperta dell’origine del linguaggio.
Attraverso le pagine di Eliade, Coppo¬
la approda ad una sorta di maturazio¬
ne, ad una coscienza più meditata e
dolorosa del tempo. Messa da parte l’e¬
sperienza accumulata, prova a re-in-
ventare il suo cinema, creando una
struggente epopea di amore, morte e
rinascita, una riflessione sul tempo e
sull’eternità, un saggio sulla natura del
cinema e dell’illusione, che rinnova
con sorprendente abilità le forme visi¬
ve e narrative.
Urialtra giovinezza è la parabola esi¬
stenziale di Dominic Matei, un settan¬
tenne docente di glottologia ossessio¬
nato dal linguaggio e da Laura, amata
in gioventù e morta di parto. Deciso a
togliersi la vita con una dose letale di
stricnina, viene colpito da un fulmine
davanti alla stazione di Bucarest ma la
scarica elettrica invece di ucciderlo in¬
nesca un prodigioso processo rigenera¬
tivo. Sopravvissuto alla Seconda Guer¬
ra Mondiale, alla bomba atomica e al¬
la Guerra Fredda, Matei vuole portare
a termine il suo libro sull’importanza
del linguaggio nell’attribuzione di sen¬
so al tempo. La proroga di vita e rin¬
contro con Veronica, incarnazione del¬
l’amata Laura, diventano la possibilità
per raggiungere l’inarticolato momen¬
to del principio. Il romanzo di Eliade,
fecondo di rimandi a figure e motivi
letterari topici (Faust, Dorian Gray,
Frankenstein), è una riflessione amara
e ironica sulla frustrazione perenne
dello scienziato di poter arrivare nel¬
l’arco di una sola vita a una verità tota¬
lizzante e definitiva. Si può leggere il
libro come una storia faustiana: un uo¬
mo anziano, cancellata l’azione impie¬
tosa del tempo e riconquistata con la
giovinezza la forza intatta delle sue
passioni, ha l’opportunità di portare a
termine la sua opera più ambiziosa e di
amare di nuovo la stessa donna. A
questo amore sacrificherà il raggiungi¬
mento di ogni certezza conoscitiva.
Ma è piuttosto l’implicita contesa sul
senso dell’esistenza dell’uomo nel
mondo a impressionare e ad appassio¬
nare Coppola. Se i libri di Mircea
Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Il sa¬
cro e il profano e Storia delle credenze e
delle idee religiose, costituiscono una
tappa fondamentale nell’ambito dello
studio delle religioni primitive, Urial¬
tra giovinezza risponde invece alle
tante teorie nobili derivanti dall’osses¬
sione, diffusa durante la cosiddetta
“crisi della cultura” nell’Europa colta
della prima metà del Novecento, per il
recupero delle origini mitiche dell’u¬
manità e l’identificazione dell’istante
magico in cui l’infanzia comune del¬
l’uomo protostorico si mutò in matu¬
rità cosciente e differenziata per stirpi
e lingua. Formatosi culturalmente nel¬
la Romania del primo dopo guerra, fi¬
no al soggiorno in India (1928-1931)
che impresse nei suoi interessi di ricer¬
ca una svolta fondamentale verso l’o¬
rientalistica e la storia delle religioni,
Eliade mutuò dallo psichiatra svizzero
Cari Gustav Jung il concetto di “ar¬
chetipi”: definiti dapprima come “im¬
magini universali” e successivamente
come “modelli” di pensiero e quindi di
comportamento, strutture invariabili
CINEMA E LETTERATURA
pre-formali, griglie universali colmabi¬
li di volta in volta con immagini diver¬
se relativamente al contesto storico¬
geografico, socio-culturale o anche
semplicemente individuale. Eliade fa
propria l’idea di sopravvivenze arcai¬
che nell’inconscio dell’uomo moderno,
che porta in sé il paradosso di un’esi¬
stenza vissuta su due piani differenti,
paralleli e fra loro incompatibili: da
una parte, il livello storico, organizzato
secondo uno schema di adeguamento
ad una situazione alienante, e, dall’al¬
tra, il livello mitico, cioè la sua struttu¬
ra psichica profonda, organizzata se¬
condo uno schema simbolico. Come il
cinema di Coppola così la letteratura
di Eliade ci parlano di qualcosa di an¬
tico: “la nostalgia del paradiso”, un’Età
dell’Oro, un Tempo del Sogno, un
“tempo senza tempo” che precede la
storia e che mantiene ancora intatta la
propria perfezione. Un errore rituale o
una colpa ha posto fine a questa con¬
dizione paradisiaca principiando la
storia e il cosiddetto “tempo profano”,
un deserto abbandonato dagli dèi e ca¬
ratterizzato dalla progressiva corruzio 1
ne del mondo. Coppola, narratore ca¬
pace di condurci con sguardo pertur¬
bato nel Tempo perso e ritrovato e di
raccontarci del destino e della meravi¬
glia, traduce il tempo e i sogni nel lin¬
guaggio del cinema. La sua giovinezza
altra, un equilibrio perfetto tra scienza
e magia luminosa, recupera l’incanto
dello spettacolo delle origini fino a
raggiungere il “protolinguaggio” del ci¬
nema: la camera oscura che rovescia
l’immagine del mondo.
Coppola scopre, rilancia e illumina la
prosa di Eliade, sospesa tra scienza
moderna e racconto fantastico, affer¬
mando un’idea di cinema puro, sottrat¬
to all’accidentalità temporale dell’effi¬
mero ed elevato a mezzo privilegiato
di indagine sul senso della vita, sul de¬
stino umano, sull’ossessione della gio¬
vinezza, sul peso dell’esperienza.
Urialtra giovinezza è un “trattato filo¬
sofico” per comprendere meglio il tem¬
po, la coscienza e l’aspetto fantastico
della realtà. Per l’individuo non esiste
una forma di lotta veramente efficace
contro il tempo che scorre ineluttabile,
secondo dopo secondo, anno dopo an¬
no, conducendoci alla morte. Eppure
gli uomini hanno intrapreso questa
lotta contro il tempo anzitutto con l’il¬
lusione. Il principio del piacere, che re¬
gna nel profondo dell’inconscio, igno¬
ra le esigenze temporali e il tempo me¬
desimo. Soltanto quando sogniamo i
nostri desideri si realizzano vincendo
ostacoli spaziali e temporali: stringia¬
mo l’amata tra le braccia, cavalchiamo
il sole e le stelle, siamo eternamente
giovani. Nella finzione favolistica, nei
film, così come nei sogni notturni, il
tempo non è irreversibile ed è possibi¬
le rimontarne il corso. Nella “veglia”, al
contrario, pesantezza, durezza e impe¬
netrabilità della materia d si oppongo¬
no e ci impediscono. Coppola, recupe¬
rando l’attitudine mentale della giovi¬
nezza e desiderando sperimentare e ri¬
schiare, scatena il desiderio e la ten¬
denza incoercibile a sottrarsi alla
realtà, rifugiandosi nella fantasticheria
e nel più splendido di tutti i fantasmi:
il cinema, che come l’immaginazione
che lo produce, è situato fuori dallo
spazio, fuori dal tempo. Uri altra giovi¬
nezza, insieme a Peggy Sue si è sposata
(Peggy Sue Got Married, 1986) e al
successivo Giardini di pietra ( Gardens
ofStone, 1987), ha una tonalità elegia¬
ca: domina il ripiegamento sul passato,
il ricordo, il rimpianto, l’elaborazione
di un amore, di un lutto e dei propri
sogni infranti, nell’ennesimo paralleli¬
smo che Coppola stabilisce tra le pro¬
prie vicende private, la propria avven¬
tura artistica e il destino stesso del ci¬
nema. L’universo che deriva da Urial¬
tra giovinezza non è tragico ma pateti¬
co, perchè le anime lasciate sole (quel¬
le del colonnello Kurtz, di Dracula e di
Matei) vagano smarrite e nostalgiche,
evocando “doppi” e visioni. Il patetico
nel cinema di Coppola, come dice ma¬
gnificamente Renzo Trotta, “presup¬
pone l’esibizione dell’Anima Dolorosa
e il rapporto di coabitazione col Regno
dei Morti. Un rapporto che non parla
di estraneità o di eroica scelta ma di
frequentazione familiare.” 1 Come
Kathleen Turner ritorna nella sua ado¬
lescenza conservando l’aspetto, il com¬
portamento e la sensibilità di un’adul¬
ta, così Dracula girerà per Londra “ve¬
stendo” la giovinezza del giovane prin¬
cipe e Dominic, fulminato, “indosserà”
quella dello studente ambizioso. Si
muovono e vivono in incognito nel
Regno dei Morti, fra le cose che sono
state e non sono più, fra le cose che
potevano essere e non sono state. Ue-
mozione di questi personaggi sta tutta
nelle risonanze che quel mondo per¬
duto (e ritrovato) provoca in loro.
Peggy, il conte Dracula e il professor
Matei fanno l’amore coi loro fantasmi.
Questo è Urialtra giovinezza', una rie¬
vocazione di fantasmi. Per questo è
struggente. Come la terza rosa posata
su una mano invecchiata.
Marzia Gandolfì
Note
1. Renzo Trotta, Francis Ford Coppola , Recco, Le
Mani, 1996, p. 9.
r-
Un 'altra giovinezza
21
CINEMA E LETTERATUR
22
Ne touchezpas à la buche. Sul de¬
mone in Balzac e Rivette
La Duchessa di Langeais {Ne touchez pas
à la hache, Jacques Rivette, 2007)
In filigrana e ad intermittenza, Rivette
ha sempre attinto da quei classici let¬
terari francesi che stima secondo
un’affine e sublime tendenza alla con¬
traffazione del reale, oltre i lumi della
révolution , rasente le ombre dei ro¬
mantici, vicino alla crisi della moder¬
nità. Tuttavia, nelle ultime due decadi,
accanto a suggestioni eterogenee, l’O¬
pera più frequentata sembra essere
proprio quella di Balzac. Fedelissimo
alla sua fonte, La Duchessa di Langeais
costituisce il primo vero e proprio
adattamento, dopo il leit-motif del
quadro che intitola La bella scontrosa
{La Belle noiseuse, 1991), in cui Rivette
s’ispira Uberamente al romanzo Le
Chef-d'oeuvre inconnu (1831), già insi¬
to nell’intrigo di Una recita a quattro
{La Bande des quatre, 1988), sotto for¬
ma del racconto deUrante e mendace
di un agente in cerca di una tela ruba¬
ta, La Belle noiseuse, appunto. Unica ef¬
frazione al testo, per ovvie ragioni di
spazio e di tempo, Rivette deve qui
scorciare i consueti cammei narrativi à
la Balzac, sullo sfondo di una Restau¬
razione assai controversa (1818-23); in
compenso, investe sul personaggio
che, tramite il dialogo, spicca lavorato
a sbalzo sulla trama effimera della re¬
cita amorosa, in perfetta simmetria
con il romanzo.
A lato degb innesti stiUstici (che pun¬
tano sul teatrale), un’altra discrasia ri¬
spetto alla fonte letteraria coincide con
l’epilogo rivisitato. Rivette scegUe di
chiudere con uno scambio di battute
tra Ronquellores e Montriveau citato
in esergo nell’opera di Balzac. E questo
minimo dettagUo a tradire lo sguardo
di Rivette, Bonitzer e Laurent, che ri¬
leggono il romanzo nel Novecento, al¬
la luce di un repertorio ben più ampio,
in cui sembra miscelarsi particolar¬
mente Dostoevskij. Rispetto al Ubro, il
lungometraggio si confronta con tutta
una parabola di trasformazione del ro¬
manzo, nell’arco di oltre 150 anni di
narrativa. In sintesi, il film viene dopo
il rìse and fall del romance attraverso
l’autocritica del roman naturaliste e del
novel. Già a fine Settecento, il roman¬
zo era, infatti, ad un bivio: “L’uomo
poteva cedere alla propria imperfezio¬
ne e asservirsi alla materia, o seguire la
propria vocazione eroica e conformar¬
si all’ideale” 1 . Entro la fine dell’Otto¬
cento, se il romance sembra affetto da
parahsi, fermo al racconto di thè truth
of human heart, il novel (genere che
pure germina dal primo) “zs presumed
to aim at a very minute fideUty” 2 .
Quell’unica forma letteraria del “ro¬
manzo” si spacca, e un suo ramo dal¬
l’immaginoso s’inabissa nel verosimile,
superando la bnea d’ombra del Ro¬
manticismo, verso la nuova sponda del
realismo e oltre, attraverso la tormen¬
tata introspezione di Dostoevskij.
Nel finale del film, quando Ronquello¬
res propone di gettare a mare quella
che era una donna e ora è solo un ca¬
davere, Montriveau consente com¬
mentando secondo la sua vena più ni-
chibsta: “Oui, car ce n’est plus qu’un
poème" 3 . Che cos’era lei per lui? Carne.
Sesso. Un corpo vivo. Una pura sessua¬
lità di corpi che si urtano. Qui Mon¬
triveau, è sì bello e dannato, ma, diver¬
samente dal romanzo, possiede un at¬
tributo aggiunto che rinvia al titano di
Achab in Moby Dick, è zavorrato da
una gamba di legno, sorta di stigmate
divina, e ha vissuto la condizione sel¬
vaggia del naufrago, in più non ha
dubbi morali, e persegue esclusiva-
mente un principio di piacere. Se Bal¬
zac miniaturizza, Rivette, viceversa,
amplifica. Montriveau assurge così ad
eroe negativo, in dissenso con Dio, la
società e perfino se stesso. Sotto il saio
dell’amata, l’amante scopre il corpo
nudo e scarno, e lo profana. A questo
punto, davvero nelle ultimissime bat¬
tute, si svela finalmente il demone di
Montriveau. Non a caso, nell’edizione
del 1839, il romanzo si apriva con una
lunga epigrafe tratta dal Camino de
perfección (1583), in cui Santa Teresa
d’Àvila esalta il perfetto amore spiri¬
tuale che vorrebbe incorrotta l’anima
dell’amato per non esserne separata
nella vita eterna. L’anima di Montri¬
veau si svela infine corrotta. Di contro
la duchessa, affetta dal male dell’idea¬
lismo, fugge per divenire la “soave Suor
Thérèse”, e per sedare l’ennesima ten¬
tazione, si suicida. Da questo punto di
vista (e cioè rispetto al personaggio, tas¬
sello decisivo per la morfologia del ro¬
manzo), Rivette deforma ciò che Bal¬
zac anticipa (e sopprime, come fa con
l’epigrafe). Di fronte a Balzac si schiu¬
de la lunga epoca del novel realista,
forma innovativa che congiunge di se¬
colo in secolo lo scrittore a Rivette.
Ciò che piace a Rivette (come già fu
per Anna Karina o Jean-Pierre Léaud)
è la totalità del corpo, nel piano se¬
quenza, come già ne La religiosa {La
Religieuse, 1966), dove peraltro il corpo
nudo della Béart è dominio del pri¬
missimo piano del pittore Fautrier, cui
interessa la carne, non il corpo: “è dav¬
vero la materia, i suoi ostaggi non so¬
no ritratti, ma carne, con un segno che
indica: ostaggio” 4 . A Montriveau inte¬
ressa il corpo della Duchessa: “Quello
lì, cara duchessa”, ammonisce il visdo-
mino di Pamiers, “è cugino primo del¬
le aquile, non lo addomesticherete mai
e vi porterà nel suo nido, se non state
attenta” 5 .
Inadatto ai salotti di Parigi, Montri¬
veau, alla stregua di un Napoleone, è in
realtà la quintessenza della sua epoca.
Non è proprio un eroe. È storpio, ha il
passo pesante, e questa sua tara fisica
lo segna nel carattere terribilmente
schivo. In fondo, Montriveau è un vin¬
cente. In ciò incarna il personaggio li¬
mite della modernità, ossia colui che
scardina le regole, non tanto per rifon¬
darle, quanto per negarle. Sotto questo
aspetto, il giovane Depardieu si dimo¬
stra perfetto per la parte, assegnandovi
uno spessore sarcastico e mortifero.
Scampato ad un incidente che gli ha
atrofizzato una gamba, e con trascorsi
da tossicodipendente, Depardieu reca i
segni tangibili della dissidenza del suo
personaggio. Montriveau potrebbe
sembrare un eroe romantico quando
appare per la prima volta: figura sola e
possente nella penombra della sua ca¬
mera, con il volto nascosto a tre quarti
da una fronda di lunghi capelli, inve¬
stito da una catastrofe che lo ha con¬
sunto, con la gamba di legno che batte
compulsivamente al suolo. “Nessuno è
più noioso e più tetro di lui, cara, ma è
di moda...” lo descrive una Duchessa
ad Antoinette. Ma non è esattamente
così. Montriveau appartiene, infatti, ad
una specie superiore, nell’ambizioso
disegno fisiologico che Balzac attinge
e ricama dal repertorio di Gali e Lava-
ter. Se Gali analizza il cranio da cui
deriva i caratteri mentali e Lavater si
allarga al fisico nel suo insieme, Balzac
unisce i due, apportandovi del sopran¬
naturale. Emulando poi Rousseau,
Leibniz e Spinoza, l’Autore dona a
Montriveau il talento assai nichilista
dello sguardo di fuoco del fluido vitale
(che irretisce subito la svilita nobil-
donna). Rispetto a Balzac, il Montri¬
veau di Rivette assimila inoltre i tratti
di un altro individuo eccezionale e ma¬
ledetto: Stavrogin, fulcro del romanzo
più disperato della maturità di Do¬
stoevskij. Personaggio cupo e violento,
vero demone tra i Demoni {Besy,
1871), Stavrogin incarna al massimo
grado il tragico della sua epoca, affetta
dal germe dell’ateismo dei figli, nel¬
l’indifferenza dei padri liberali. En¬
trambi i personaggi afferiscono a so¬
cietà segrete (luna di massoni - i fa¬
migerati e cospiratori Tredici, da cui il
titolo del ciclo che racchiude il roman¬
zo —, l’altra di nichilisti incendiari nel¬
la Russia del Terrore), che rappresen¬
tano un’umanità di ossessi, disancorati
da tutti i legami naturali (popolo, Dio,
terra) e sull’orlo di un abisso in cui pre¬
cipitare per risorgere. Entrambi sono
come malati di una totale indifferenza
etica, che parifica il bene e il male, che
li porta a storpiare la vita, per evitare la
noia.
[Stavrogin] si era nascosto in qual¬
che luogo. Si scoprì che viveva in
una certa strana compagnia, che
aveva stretto rapporti con certi ri¬
fiuti della società di Pietroburgo
[...] Era un giovane molto bello,
sui venticinque anni e, lo confesso,
mi colpì. [...] Non era molto lo¬
quace, era elegante senza essere ri¬
cercato, straordinariamente mode¬
sto e nello stesso tempo ardito e si¬
curo di sé, come nessun altro. [...]
sembrava un modello di bellezza,
ma allo stesso tempo era ributtan¬
te. [.. .] Visse da noi circa sei mesi,
fiacco, svogliato e piuttosto cupo;
[...] Ma passarono alcuni mesi e la
belva mostrò ad un tratto i suoi ar¬
tigli 6 .
Balzac seziona la passione, Rivette
unisce qui Balzac a Dostoevskij, Mon-
triveau/Napoleone a Stavrogin/Baku-
nin. Tramite questo suo fascinoso de¬
mone, Rivette sembra estrarre dal Bal¬
zac monarchico del 1832 il più tardo
fourierista vicino al falansterio, imme-
diatemente precedente ai nichifisti
russi di Dostoevskij. Ma in più, come
si confà alla forma disincantata del no¬
vel, i due hanno in comune una certa
La Duchessa di Langeais
CfNEMA E LETTERATURA
inclinazione perversa alla ribellione fi¬
ne a se stessa. E il male che ci attrae a
loro. Ma nel primo, il male è freddo,
razionalmente orientato, unito ad una
costante malinconia che rasenta la tri¬
stezza. Similmente a Montriveau, che
si prostra e poi si beffa, il demone russo
ha la forza di umilarsi con castighi tre¬
mendi, nascosti di ironia (tipo il matri¬
monio che contrae, senza consumarlo,
con la zoppa Mar’ja Timofeevna).
Il Montriveau che Rivette plasma da
Balzac è l’ultimo di una lunga serie di
figure demoniache che scardinano lo
schema del romance , per ancorarlo al
novel, e cioè ad una lucida e devastan¬
te analisi del contemporaneo. Sotto
quest’aspetto, il regista ha introiettato
prima i geni del male di Balzac, poi lo
Stavrogin di Dostoevskij. Con l’episo¬
dio del falso ratto, Montriveau s’inse¬
risce nel filone del romanzo gotico per
demolirlo dall’interno. L’eroe sembra,
infatti, degenerare nel villaim da ani¬
ma bella e innamorata si trasforma in
demone. Ma, secondo quel verosimile
psicologico che unisce il romantico al
naturaliste, ironizzando sul gotico, Ri¬
vette, dietro a Balzac, sfacetta il demo¬
ne in ombre e luci. Montriveau è bello
ma zoppo, circuisce e si ritrae, restaura
la monarchia del Re Cristianissimo,
ma poi assalta il Convento. Pur man¬
tenendo il conflitto individuo/mondo,
si sfata l’idealismo romanzesco. Più
raffinato di Vautrin, spaventoso e se¬
ducente eroe della Comédie humaine,
fratello dei grandi malfattori del ro¬
manzo gotico, del mostro di Franke-
stein, Montriveau glissa abilmente su
diversi stereotipi del romance. In primo
luogo, sebbene incline al male, non
compie alcuna fornicazione o stupro,
azioni che marcano, invece, il romance
di fine Settecento, in quanto particola¬
ri transazioni tra classi. Certo, attua il
rapimento della duchessa, ma non
consuma l’efferato reato. Nel cuore
della notte, la preleva dalla carrozza, la
narcotizza, la lega e l’imprigiona nella
sua misteriosa residenza. Qui allude al
ratto, minacciando di marchiarla a
fuoco sulla fronte con la croce dei ga¬
leotti e tal fine convoca il confratello
chirurgo. Ma poi desiste, ottenendo
l’effetto auspicato. E anche quando la
duchessa cede e si offre, lui si nega e
ricolloca la donna al ballo con tanto di
porta segreta a soffietto (allusione ai
castelli gotici della Radcliffe).
Conforme al canone, Balzac non de¬
scrive l’adulterio, e non sconvolge la
pruderie del suo pubblico borghese.
Ma Rivette, scoprendo i corpi, svela
quel gesto (quasi invisibile, giusto un
sintagma in Balzac) di lei che odora e
inumidisce il sigaro di lui, in segno di
remissione. Tuttavia, l’adulterio non si
compie, tanto meno si evoca. Nel ro¬
mance, invece, l’atto non solo si com¬
pie, ma spesso si scrive, “tradendo
quanto diffusa e perturbante sia la no¬
stra ossessione per l’amore che infran¬
ge la legge. Non è questo il segno che
vogliamo fuggire da un’orribile
realtà?” 7 . In secondo luogo, come acca¬
de solitamente nel romanzo d’adulte¬
rio, Montriveau è uno straniero ospite
in casa che trasgredisce le regole, sedu-
cendo la moglie del duca assente. Ri-
vette evidenzia questo tratto assai mo¬
derno, introducendo gli a parte con la
servitù, cui pertiene quell’intimità do¬
mestica che il generale viola brutal¬
mente. Da quando rigetta le regole di
quella società che lo vorrebbe incorpo¬
rare, lo straniero diventa nemico.
In conclusione, Rivette costruisce il
demone di Montriveau proprio intor¬
no a quella battuta che gli fa recitare e
da cui trae il titolo della versione fran¬
cese Ne touchez pas à la hache'fi (la scu¬
re che troncò il capo a Carlo I nel
1649). Non gettate la maschera: vi co¬
sterà la vita, sottende profeticamente
Montriveau ad Antoinette. Così nel
finale, la mannaia è quella che si au-
toinfligge lei con il suicidio. Parafra¬
sando, a livello di impianto narrativo,
questa stessa mannaia reciderà il ro¬
manzo dal poema, simboleggiato dal
corpo morto, smunto e nudo della Du¬
chessa (non più monaca, palesemente
scoperta nella finzione del suo roman¬
ce interiore). La strategia guerresca di
lui ha funzionato mentre, necessaria¬
mente, il disegno romanzesco di lei si
è dissipato. La recita deve finire, so¬
stiene Balzac; è tempo di spezzare i
vincoli dell 'ancien regime (nel 1830 co¬
mincia il cosiddetto “regno dei ban¬
chieri”) e cambiare genere. Il romanzo
non si chiude quindi con un consolan¬
te andfìnally she got married, alla Jane
Austen. Tramite il demone di Montri¬
veau, interpretando l’innovazione di
Balzac, la messinscena di Rivette de¬
molisce quei cliché letterari di quel ro¬
mance, che spesso alimenta altrettanti
stereotipi nel film di finzione.
Dunja Dogo
Note
1. Thomas Pavel, “Il romanzo alla ricerca di se
stesso. Saggio di morfologia storica”, in Franco
Moretti (a cura di), Il romanzo II. Le forme, Tori¬
no, Einaudi, 2002, p. 47.
2. Nathaniel Hawthorne cit. in James D. Hart,
The Oxford Companion to American Literature,
New York, Oxford University Press, 1948, p. 571.
3. Cit. dal film.
4. Jacques Rivette in Jacques Rivetto. La regie du
jeu , Torino, Museo Nazionale del Cinema di To¬
rino, s.d., p. 15.
5. Honoré De Balzac, “La duchessa di Langeais”,
in La Commedia Umana , voi. I, tomo II, Milano,
Mondadori, 2001, p. 1383.
6. Fedor M. Dostoevskij, I demoni (Besy ), voi. 1,
Milano, Garzanti, 2000, pp. 45-46.
7. Tony Tanner, L’adulterio nel romanzo: contratto e
trasgressione , Genova, Manetti, 1990, p. 102.
8. Ne touchez pas à la hache era il titolo originale
del romanzo (1834).
La Duchessa di Langeais
23
Escursioni nell’inconscio con il
regista Jochen Kuhn
All’ultima Biennale de l’image en
mouvement di Ginevra, conosciuta
nell’ambiente del cinema sperimentale
come Bim (12-20 ottobre 2007), si so¬
no potute rivedere alcune opere del re¬
gista e pittore tedesco Jochen Kuhn,
che attraverso il medium cinema attua
una vera e propria sintesi di linguaggi
artistici diversi: la pittura si muove, è
accompagnata dalla musica e dal testo
letterario.
Da quando adolescente autodidatta ha
iniziato a cimentarsi col super-8, Kuhn
è rimasto fedele al cortometraggio,
trovando nella sua brevità ed essenzia¬
lità la forma più congeniale per le sue
storie inconfondibili.
Alla manifestazione ginevrina il lavoro
dell’artista tedesco deve aver destato
un certo stupore perché elementi pe¬
culiari dei suoi film erano in contro¬
tendenza rispetto all’estetica e all’etica
delle opere degli altri ospiti, che que¬
st’anno sono stati, tra gli altri, Robert
Morin, Joan Jonas, Pedro Costa, Pier¬
re Huyghe, le produzioni belghe di¬
stribuite dallo studio Argos di Bruxel¬
les, molti adepti del cinema degli
Straub-Huillet. Da ricordare anche il
programma in memoria di Thierry
Kuntzel.
Laddove i must della Bim sono la ne¬
gazione della dimensione del racconto
e il “risparmio” o il “calvinismo” delle
immagini e delle intenzioni, Kuhn in¬
vece ha sviscerato i suoi personali sce¬
nari interiori (dipinti) densi di parti¬
colari e la sua voce narrante si è ad¬
dentrata in riflessioni sempre più filo¬
sofiche.
Bassa, sensuale, monotona, roca, dolce,
profonda, quasi che il regista avesse in¬
goiato il microfono in sede di registra¬
zione, la voce di Kuhn è stata fino al
2005 1’appiglio per lo spettatore che
avesse accettato di seguirlo nei sempre
diversi viaggi agli inferi.
Sono atmosfere suggestive quelle in
cui ci portano queste avventure: strade
deserte, austeri caseggiati, vari oggetti
fuori posto come ingranaggi industria-
fi dimenticati, resti di civiltà scompar¬
se, presenze conosciute ma non identi¬
ficate come nei sogni. I film di Kuhn
hanno infatti sempre un qualcosa di
onirico. Molti hanno parlato di Meta¬
fìsica o di Surrealismo, ma anche di
Nuova Oggettività, naturalmente.
La nostalgia è immediata in questi
scenari e quasi lancinante, ma sempre
“propulsiva” perché la storia prosegue
senza dare il tempo ad una sofferenza
compiaciuta di prendere piede. Ci so¬
no passaggi frenetici (e qui entra in
gioco la particolarità della tecnica) nei
quali l’artista distrugge con impietosi
colpi di spugna delle composizioni
pittoriche piene di dettagli alle quali
era arrivato grazie ad un lento lavoro
di precisione. Oppure, viceversa, da
macchie, ritagli e semplici abbozzi la
mano, “ripresa sul fatto”, per così dire,
con pennellate sicure dà forma a figu¬
re umane e a complessi ambienti ar¬
chitettonici.
Il mistero aumenta, le evoluzioni delle
immagini riservano sorprese e spesso
si ha la sensazione di addentrarci in
territori privati. È il protagonista stes¬
so ad abbracciare la prospettiva del
voyeur, oppure con uno stratagemma
più sottile fa assumere a noi quel ruo¬
lo, dato che ci racconta di eventi per¬
sonali, ricordi, desideri.
È straordinario notare come ci si pos¬
sa immergere emotivamente nelle
sempre complesse situazioni di questi
brevi viaggi interiori nonostante l’arti¬
sta si faccia cogliere - volontariamente -
mentre aggiunge del colore o cambia
una tela, decostruendo o smentendo
cioè la finzione.
Al di là della varietà di intrecci che la
sua vasta produzione offre, si può sem¬
pre individuare in questi film il percor¬
so “d’apprendistato” di un personaggio
solitario alle prese con certi temi ricor¬
renti.
I primissimi film, che il regista è restio
a mostrare ai festival perché li conside¬
ra ancora poco professionali, sono ac¬
comunati da una “scontrosità” intri¬
gante: non si lasciano leggere facil¬
mente e sono segnati da una cupezza
esistenziale che tiene au piège i vari ar¬
chitetti, pittori, registi, scrittori, com¬
positori che ne animano le storie. Tut¬
ti infervorati in riflessioni teoriche un
po’ astruse sull’essenza della creazione
artistica, questi giovani uomini perdo¬
no il contatto con la realtà mettendosi
fisicamente in pericolo: l’architetto in
fuga dell’omonimo film del 73 si attar¬
da sul litorale mentre la marea risale; Il
traslocatore (1977) vagabonda per set¬
timane alla ricerca estenuante di una
casa che risponda a tutti i requisiti di
comfort; del filmmaker di “tanti inizi”
(Lauter Anfang, 1975) si perdono le
tracce durante una corsa frenetica ma
la macchina da presa riversa per terra
continuerà a filmare immagini del
mondo alla rovescia.
I film degli anni Ottanta invece sono
decisamente più scoppiettanti ed elet¬
trizzanti perché i loro antieroi sanno
accendersi per uno stivaletto, una boc¬
ca di donna, un braccio guantato. L’e¬
lemento che più movimenta queste
storie è l’eros, il desiderio del corpo
femminile e anche se il rapporto amo¬
roso è solo fantasticato esso accende di
rosso la scala di grigi dell’esistenza (i
colori che Kuhn predilige sono nor¬
malmente il seppia, il grigio, le terre
bruciate) rendendo più allettanti i de-
CINEMA E ARTI VISIVE
serti scenari urbani e domestici all’in¬
terno del quale si dibatte il protagoni¬
sta. Il contenuto dei suoi pensieri ora
invade lo schermo come fuoriuscito da
un balloorv. scritte rosso fuoco, inter¬
mittenti, che si espandono.
La curiosità e l’entusiasmo dell’io nar¬
rante non si spengono di fronte all’en¬
nesima delusione, anzi questa è neces¬
saria affinché nelT’episodio” 1 successi¬
vo una nuova sfida lo aspetti.
Difficile fare graduatorie tra i numero¬
si titoli della sua produzione in questa
fase tutta spinta in avanti. Da ricorda¬
re una rivisitazione personale delle lo¬
calità balneari della costa adriatica:
HotelAcapulco (1987); la vera biografìa
di un uomo mai esistito, Robert Lan-
gner, Biografie (1988), espediente per
riflettere sul concetto di fama; un sag¬
gio appassionato sulla comunicazione
che fallisce è invece Elogio della segre¬
teria telefonica (1989) dove al posto
della donna tanto desiderata ci sono
una cornetta rotta e una ghiera grossa
come un ufo; in La via per il cantiere
(1989) nel generale monocromo si sta¬
glia una marina in tonalità del blu che
ricorda la produzione detta “classica”
di Picasso.
Stilisticamente in questi film regna la
commistione di diverse textures di ma¬
teriali: singoli oggetti reali - tridimen¬
sionali - (un guanto, un telefono, una
maniglia) creano sulla tela dipinta -bi-
dimensionale - uno choc violento
(Makubra il silenzioso , 1980, o Bildnìs
M. , 1976, dove una persona in carne
ed ossa entrava ed usciva dalla tela).
Osservando la filmografia di Kuhn si
nota, poi, che gradualmente gli ele¬
menti eterogenei della materia in uso
dell’artista si amalgamano: in L’ultimo
dell’anno (1992) una stoffa diventa la
cornice del film; le riprese macro col¬
gono la trama e le pieghe di un len¬
zuolo restituendone la sensazione di
morbidezza in tutta la sua intensità;
poco più tardi, all’interno della storia
dipinta, l’autore esplorerà tutte le asso¬
ciazioni sonno-morte.
Ne La confessione (1990) gli oggetti si
scatenano in direzione della satira an¬
che se il regista assicura che Erich Ho-
necker e il papa Giovanni Paolo II,
protagonisti del film, sono trattati sim¬
bolicamente. Ma come non ridere sco¬
prendo sul letto dell’ultimo presidente
della DDR due Wurstel etichettati
Marx e Lenin, oppure quando la ma¬
niglia della porta del paradiso si rom¬
pe e i due anziani sentono intonare al¬
l’organo VIntemazionaleì\ E ormai
chiaro, insomma, che l’ironia è parte
integrante della poetica kuhniana, ma
essa non è da intendersi come critica
rivolta all’esterno, agli altri, quanto co¬
me possibilità - per tutti - di distan¬
ziarsi dai problemi. Il regista, grande
appassionato delle storie di Don Ca¬
millo e Peppone, nel suo film appena
citato accomuna i due rappresentanti
delle opposte fedi sotto il segno della
debolezza fisica e spirituale: Woityla
ed Honecker cessano di essere perso¬
nalità di spicco e incorrono in gajfes e
lapsus così che tutti possono riflettersi
in quelle esistenze e posarvi uno
sguardo condiscendente.
Naturalmente Kuhn ironizza anche
sul suo proprio ruolo e sui temi che af¬
fliggono un artista. Per un regista, per
esempio, è fondamentale trovare un
produttore. In Lettera alla produttrice
(1985) il destino di un cineasta è in¬
trecciato a quello dei superstiti di una
catastrofe nucleare. Ma dato che il
motto dei film di Kuhn sembra essere
“non tutto ciò che sembra tragico è ve¬
ramente senza uscita”, anche se alla fi¬
ne del film il protagonista giunge alla
constatazione che la sua sceneggiatura
non rientra nei canoni del cinema di
successo e quindi egli decide di non
spedire la lettera, il tono non è disfat¬
tista: proprio questa scelta diventa una
dichiarazione di etica di cineasta d’au¬
tore. Il giovane dal ciuffo ribelle e da¬
gli occhiali pasoliniani (interpretato
dallo stesso regista trentenne) mormo¬
ra una parolaccia, raccoglie i suoi fogli
e guarda avanti.
Almeno per la biografìa di Kuhn que¬
sto atteggiamento risulta vincente: se
si prova infatti a considerare la storia
filmata come una sorta di documenta¬
zione sulla vera attività artistica del re¬
gista, che lavorava in solitudine nelle
stanze che fanno da location al film (in
quello che sappiamo essere il “pittore¬
sco” quartiere di San Pauli ad Ambur¬
go) a questa fase, fatta di difficoltà
economiche e di mancanza di risonan¬
za, è poi seguito il riconoscimento uf¬
ficiale: un film per la televisione, la
prestigiosa borsa a Villa Massimo a
Roma, molti premi e nel 1991, anno
della fondazione della Filmakademie
di Ludwigsburg, la nomina a professo¬
re di Filmgestaltung.
Le opere del decennio successivo di¬
mostrano una maturità raggiunta che
non teme più le accuse di verosimi¬
glianza o di realismo; la raffinata iro¬
nia, la musica sempre più sensibile ai
rumori e alle sonorità dissonanti fanno
di questi ultimi film (che dal 1998 al
2005 portano lo stesso titolo con nu¬
mero progressivo Neulich/L’altro giorno
1-5) delle piccole parabole sulle lace¬
ranti contraddizioni dell’individuo:
l’ambizione, l’indipendenza, la solitu¬
dine, la fedeltà...
Se il regista lamenta la disattenzione
del vasto pubblico è pur vero che egli
non si cura affatto di accattivarselo.al¬
meno nella scelta dei temi: la tesi di
Sonntag 1 (2006) è che non ci sia più
nulla di interessante al mondo da no¬
tare; il film attualmente in lavorazione
Exit tematizza lo svincolarsi di un in¬
dividuo dalle “griglie sociali” che lo
hanno finora definito: il ceto, la lingua
e la nazionalità di appartenenza, il la¬
voro, i contatti; il film successivo si
svolgerà in cimiteri storici.
Alla luce di questi orientamenti si può
dire senza pudore che Kuhn è proprio
come i suoi personaggi: sa quali siano
le cose da “non fare” per essere integra¬
to eppure non si nega ciò che lo appas¬
siona. Il protagonista di N5 (2004) sa
bene che andare al bordello “non è
consono al buon gusto” ma ciò nono¬
stante vi si reca; in L'ultimo dell’anno
afferma che la pittura dal vero è obso¬
leta eppure tutto è dipinto virtuoslsti¬
camente: corpi nudi, oggetti, decora¬
zioni complesse; neanche nei film mu¬
ti è concesso fare sentimento, dichiara¬
no le didascalie concettuali di Franz
l’infernale (1986), in realtà il protago¬
nista del film morirà incompreso dalla
donna che ama e la musica espressa-
mente “kitsch-romantica” 2 ne accen¬
tua tutto il pathos; in N3 (2000) l’uo¬
mo alla fermata dell’autobus si dichia¬
ra annoiato dalla conversazione intima
che si sta svolgendo lì a fianco ma in¬
tanto non ne perde un passaggio; e gli
esempi potrebbero continuare...
Kuhn ha imparato insomma ad elude¬
re i divieti (estetici) dell’ambiente arti-
stico-cinematografico.
Si può anche stabilire con precisione il
termine ad quem che sancisce questa
scaltrezza acquisita. È il 1980, con
Makubra il silenzioso , suo primo Pre¬
mio Nazionale Tedesco Bundesfìlm-
preis a 27 anni, il regista debuttante
abbina due approcci apparentemente
antitetici: il concettualismo e il senti¬
mento. L’uno va di moda nella scena
artistica di quegli anni, l’altro “das
kann man nicht mehr machen!”(non
lo si può più fare).
Studente di pittura alla Hochschule
fur Bildende Kunste di Amburgo,
Kuhn aveva anche tentato di adeguar¬
si a questi dogmi, ma la dimensione
narrativa riemergeva sempre dalle sue
tele filmate. In Makubra egli riesce a
“raffreddare” il coinvolgimento nella
storia (un dramma della gelosia e del¬
la vendetta) tramite una lunga rifles¬
sione concettuale sull’abitabilità degli
spazi; la pittura illustra le vicende ma è
anche gesto puro e la parola diventa
segno grafico slegato dal contesto.
Fondamentale per la riuscita di questo
calibrato pastiche di generi e di lin¬
guaggi - che a distanza di molti anni è
un evergreen del catalogo del regista -
è la scelta meditata del vocabolario, il
lavoro di labor limae sul testo, l’atten¬
zione alla qualità sonora della parola.
Le capacità analitiche del regista sono
molto apprezzate nell’ambiente acca¬
demico: non solo gli studenti del pri¬
mo anno di “costruzione del film” im¬
parano con Kuhn a discutere e a con¬
frontarsi intellettualmente sui progetti
prima di passare alla loro realizzazio¬
ne, ma in alcune occasioni al regista è
stato chiesto di calarsi nel ruolo di teo¬
rico e a questo proposito è da ricorda¬
re il brillante saggio sul cortometrag¬
gio commissionatogli dal Festival di
Oberhausen per il cinquantenario del¬
l’evento 3 . I nonsense, i dialoghi sempre
più concisi poi sono stati argomenti di
studio di germanisti, psicoanalisti e di
scuole di scrittura creativa.
Vedere questi film nelle sale tedesche
può riservare sorprese: scoppi di risa
nelle scene più drammatiche quando
sembrerebbe essere un certo sarcasmo
a trionfare. Affinché una battuta ad ef¬
fetto funzioni anche in un’altra lingua
occorrerebbero infatti, delle note per
spiegare ciò che nelle singole parole
che compongono un “incastro poetico”
è un fatto di memoria comune, vissuto
storico-politico, fenomeno di consumo
di un paese, cultura, concezione del
mondo insomma 4 . Ma secondo le mo¬
dalità di traduzione concesse al cinema
- coi sottotitoli o col doppiaggio -
questo non è possibile. Quando il regi¬
sta presenta i film all’estero di solito
Die Beìchte
25
CINEMA E ARTI VISIVE
26
preferisce la modalità della voce over,
che permette di seguire l’evolversi del¬
le immagini recependo anche il testo,
ma in molti festival o nel DVD in
commercio Neulich 1-5 S naturalmente
ci sono i sottotitoli.
Altri ambienti invece guardano l’opera
di Kuhn da altri punti di vista e l’a¬
spetto linguistico e il senso della storia
non sono più in primo piano. Ne è una
dimostrazione la relativamente recente
ma ormai assidua presenza del regista
nelle gallerie d’arte e fiere d’arte con¬
temporanea 6 . In questi luoghi la mo¬
dalità di fruizione delle opere cambia:
in una mostra o ad una biennale la vi¬
cinanza tra installazioni, quadri, video¬
proiezioni induce ad una certa frenesia
ed è consuetudine vedere spettatori,
ma sarebbe il caso di dire “visitatori”,
entrare ed uscire a piacimento dalle sa¬
lette in cui vengono mostrate opere
audiovisive. Generalmente i film sono
proposti in un loop, così chi è interes¬
sato può comunque reiterare la visione
prendendo coscienza delle meta¬
morfosi pittoriche che si susseguono,
avvicinarsi allo schermo e ammirare
un dettaglio. Però non vengono certo
rispettati la durata né lo svolgimento
che per quell’opera l’autore ha stabili¬
to. Lontano dall’essere una visione in
comodità, concentrazione, raccogli¬
mento come nell’esperienza della sala
cinematografica, questa è un’esperien¬
za della frammentarietà e sporadicità
(anche, ben inteso, di un entusiasmo
autentico a giudicare dai bei cataloghi
che ne vengono fuori!).
Al di là di tutto, comunque, la struttu¬
ra dei film di Kuhn, per quelle sue ca¬
ratteristiche fìsiche di lenta immersio¬
ne nel buio della caverna, itinerario
guidato da un’ombra e da una voce,
sessione psicoanalitica, ipnotica, esplo¬
razione di un sogno, sembra essere la
stessa dell’esperienza cinematografica.
Quindi la sede ideale per un approccio
e un approfondimento dell’opera di
Kuhn dovrebbe essere quella della co¬
munità degli studiosi e degli appassio¬
nati di cinema e sicuramente i tempi
sono maturi anche per il pubblico ita¬
liano.
Francesca Esposito
Filmografia di jochen Kuhn
La maledizione dell’architetto (Der Flu-
ch des Architekten, 1973).
Inizio a volume più alto {Lauter Anfang,
1975).
Ritratto di M. (Bildnis M., 1976).
Il traslocatore (Der Umzieher, 1977).
Sovrapittura sul lenzuolo (Bettbezug
Ubermalungen, 1978).
Makubra il silenzioso (Der Lautlose
Makubra, 1980).
L'uovo (Das Ei, 1981).
Immagini al divano (Sofabild, 1982).
Sempre più in là {Immer weiter, 1984).
Lettera alla produttrice (Brief an die
Produzentin, 1985).
Prima della fine (Kurz vor Schluss,
1986).
Franz l’infernale (Der Hóllenfranz,
1986).
HotelAcapulco (1986).
Robert Langner una biografia (Robert
Langner, Biografie, 1988).
La via per il cantiere {Der Weg zur Bau-
stelle, 1989).
Elogio della segreteria telefonica {Lob des
Anrufbeantworters, 1989).
La confessione {Die Beichte, 1990).
Jo-jo (1992).
L’ultimo dell’anno {Silvester, 1992).
L’altro giorno 1 {Neulich 1, 1998).
Discorsi {Fisimatenten, 1999).
L’altro giorno 2 {Neulich 2, 2000).
L’altro giorno 3 {Neulich 3, 2002).
L'altro giorno 4 {Neulich 4, 2003).
L'altro giorno 5 {Neulich 5, 2004).
Domenica 1 {Sonntag 1 , 2005).
Exit (in lavorazione).
Note
1 Benché il regista non abbia mai parlato di epi¬
sodi ma abbia invece differenziato i suoi film con
titoli molto particolari, si potrebbe comunque ve¬
dere l’intera sua produzione cinematografica co¬
me un pellegrinaggio del suo alter-ego nelle “sta-
zioni7situazioni della vita.
2. Questa la definizione del suo creatore che per
questo film compone alla maniera di Rachmani-
nofif-Debussy sapendo che è un’operazione deci¬
samente anacronistica. Nei primi film in super-8,
Kuhn citava senza modificarli brani di Mahler,
Jànaèek, Wagner e Strawinskij. In seguito ha
composto lui stesso la colonna sonora e recente¬
mente lo interessano rielaborazioni al computer
di rumori registrati in situazioni disparate.
3. Jochen Kuhn,“Die Karawane zieht weiter. No-
tizen zu einer nicht gehaltenen Rede”, in Kurz
und Klein. 50 Jahre Internationale Kurzfilmtage
Oberhausen, Ostfildern-Ruit, Hatje Canz Verlag,
2004.
4. Nella battuta: “avere pudore è come spararsi ad¬
dosso”, per esempio, non si coglierebbe l’allusione
alla storia della Germania divisa se non si sapesse
che lo Schussanlage menzionato era un preciso
strumento di controllo della frontiera usato dalla
polizia della DDR. L’immagine è abbastanza
grottesca perchè applicata ad una scena in cui il
protagonista di N5 sta cercando dei validi argo¬
menti per neutralizzare il suo senso di pudore che
gli impedirebbe di andare al bordello, dove invece
egli vuole assolutamente andare. E infatti vi si re¬
ca ma il “controllo dei confini” si fa risentire e l’av¬
ventura è rovinata.
5. Il DVD è distribuito dalla Filmgalerie 451 di
Berlino: http://www.filmgalerie451.de.
6. Sammlung Goetz (Monaco di Baviera), Galle¬
ria Peter Kilchmann (Zurigo), Art Forum (Berli¬
no), ZKM (Karlsruhe), Centre Saint Gervais
pour l’Art Contemporain (Ginevra), Parasol Unit
Foundation (Londra), Kunsthaus (Zurigo).
André Kertész tra fotografìa e ci¬
nema: una prima ricognizione
La recente mostra al Castello di Mon-
talbano Elicona {André Kertész, 25
giugno-19 settembre 2007) è un’occa¬
sione propizia per fare il punto su una
figura di fotografo che, nella sua ope¬
ra, palesa manifeste tangenze con l’ar¬
te cinematografica, ma che solo in mi¬
sura ridotta sono state sottolineate:
André Kertész.
Una mostra è la combinazione di fat¬
tori che non afferiscono esclusivamen¬
te a quanto esposto: anche la presenta¬
zione delle stesse opere, che fa da “pa¬
ratesto”, ne determina la riuscita. Con¬
tenuto e contenitore si fondono nell’u¬
nità estetica che costituisce ciascun
evento-mostra. I corpi dilatati delle
Distorsioni di Kertész trovano sintesi
con gli spazi dilatati del castello, nel lo¬
ro “vuoto” irregolare, sebbene frutto di
una evoluzione naturale e non di una
costruzione ad hoc. Le possenti mura
medievali si “aprono” verso l’esterno
proprio nei punti in cui le fotografie di
Kertész sono affisse, creando spesso un
corto-circuito per il quale l’effetto sot¬
tilmente perturbante di alcune foto¬
grafie si estende alla ponderosità delle
architetture, apparentemente imper¬
meabili. Se ne ha la riprova anzitutto
in Lastra di vetro rotto (1929), nella
quale dal vetro crepato, il quale proiet¬
ta l’immagine della città come superfi¬
cie piana e racchiude in sé i limiti del¬
la fotografia, l’aria sembra penetrare
perforando la parete, ma anche nella
gigantografia del corpo che si “stira”
della Danzatrice burlesca (1926), posta
nel punto in cui lo spazio della sala si
dilata, si “stira” appunto. In questo in¬
scrivere i bordi dell’immagine nei pro¬
cessi di significazione di una foto sta
uno dei principali procedimenti sur¬
realisti 1 , principi ai quali Kertész, sen¬
za aderire al movimento nella sua
Stimmung, comunque si richiama, fa¬
cendo deragliare la natura deviante che
è già alla base del surrealismo verso to¬
nalità che gli sono più proprie - prive
di “teatralizzazioni” 2 -, più vicine ad
un “surrealismo naturalista” 3 .
Dunque il ritegno scenografico, la sin¬
cerità spoglia, la sobrietà della luce e la
semplicità possente delle architetture
sono le stesse che animano lo sguardo
del fotografo ungherese, il quale non
ama attrarre con effetti “tecnici” pro¬
dotti appositamente, come sovente ca¬
pitava a surrealisti e costruttivisti ai
quali pure è stato accostato. Egli vuole
estrarre un senso “altro” dalle cose quo¬
tidiane. Sono esse stesse che virano
morbidamente verso la surrealtà, per
mezzo dell’occhio della Leica che le
coglie in un momento di “grazia” diffi¬
cilmente ripetibile.
Hotel Acapulco
CINEMA E ARTI VISIVE
Per Kertész, ungherese esule che non
imparerà mai ad esprimersi in un flui¬
do francese o inglese, lo sguardo (foto¬
grafico) e la parola si corrispondono,
dunque ai percorsi del visibile che gli
saranno contemporanei o prossimi si
rivolgerà sempre quali mezzi essenzia¬
li della costruzione della propria iden¬
tità e struttura comunicativa. Sarà, in¬
fatti, amico o frequentatore di un gran
numero fra artisti visivi, cineasti, foto¬
grafi - Man Ray, Léger, Ejzenstejn,
Capa, Cartier-Bresson, Moholy-Nagy
fra i più noti - spesso ricostruendo, nei
loro ritratti, l’essenza della loro poetica
artistica mediante gli oggetti che sono
sparsi negli atelier {Un angolo dell’ate¬
lier di Fernand Léger , 1927), o quelli di
uso quotidiano {Gli occhiali e la pipa di
Mondrian , 1926), come quando coglie
la dimensione cosmopolita e meticcia
di Ejzenstejn, sebbene sempre con¬
giunta alle radici orientali, ritraendolo,
volitivo e pensoso in giacca e cravatta,
accovacciato su un tappeto ungherese
{Sergej M. Eisenstein, 1929).
Sebbene Kertész sia fotografo “puro”,
che non nutre nostalgie per le altre ar¬
ti, i paradigmi del visibile lo percorro¬
no ed è in grado di inoculare in quan¬
ti lo circondano delle stille del proprio
stile. In questo senso può essere inqua¬
drata una ricerca delle prossimità col
cinema, in particolare con quello di
avanguardia degli anni Venti e Trenta
- primariamente statunitense e euro¬
peo, Parigi e New York, luoghi dele¬
zione del fotografo ungherese -, col
quale i rapporti sono più diretti (seb¬
bene la sola citazione certa ed esplicita
di una foto dell’artista ungherese in un
film del tempo è nell’opera seminale
dell’avanguardia brasiliana Limite di
Mario Peixoto, 1931). Senza alcuna
pretesa di esaustività, o sistematicità, si
possono individuare due fondamentali
linee di tendenza nelle similitudini ci¬
nema-fotografia kertesiane, che sep¬
pure non provenienti da un’influenza
immediata, risentono di un medesimo
“clima” stilistico. La prima direttrice è
quella che indaga gli ambienti. Dalle
giovanili fotografie rurali ungheresi a
quelle del periodo internazionale, che
osservano gli interstizi delle metropo¬
li, la costante di fondo permane l’uma¬
nesimo: Kertész coglie l’“uomo” nel
suo habitat naturale, spesso compreso
nelle fatiche più gravi o in una condi¬
zione di emarginazione sociale, mai
eroico, spesso sciolto nell’effusione
sentimentale. La seconda riguarda la
composizione dei corpi, la loro predi¬
sposizione ad astrarsi da sé stessi per
mezzo di movimenti ginnici o atletici
e torsioni e deformazioni.
Nella prima classe si possono indicare
come film kertesiani il gruppo delle
“sinfonie metropolitane” e quelli dove
il paesaggio rurale è osservato con un
filtro della nostalgia e del “sentimento
della terra”, retaggio “ungherese” della
poetica kertesiana. Ma egli rigetta l’en¬
tusiasmo per lo spettacolo della vita
moderna, rappresentato dalla “Fanta¬
smagoria della Città” 4 , che permea
molti di questi film {Metropoli, Fritz
Lang, 1927, Chelovek s kino-appara-
tom, Dziga Vertov, 1929, o Berlin, die
Symphonie einer Groàstadt, Walter
Ruttmann, 1927), piuttosto rappre¬
senta una città non caotica né dram¬
matica 5 , “spazio dell’uomo”, aprirsi di
micro-luoghi della collettività, conti¬
nuazione della realtà rurale in un con¬
testo urbano, dove se una “surrealtà” si
manifesta lo fa attraverso l’accosta¬
mento di immagini “realistiche”, come
in Entr'acte (Réné Clair, 1924) 6 , visi¬
vamente riconoscibili. Cosa c’ è di ker-
tesiano in questi film? In Manahatta di
Paul Strand e Charles Sheeler del
1921 tutto è kertesiano: l’attracco al
molo delle navi visto dall’alto (si veda
la foto II porto di New York, 1938, ma
sul soggetto Kertész ritornerà spesso),
i fumi dei comignoli, le riprese dei
grattacieli dall’alto e di quanto occorre
fra le vie sottostanti. Il ricordo va al
Kertész newyorkese 7 degli scatti dalla
propria finestra, e su Washington
Square in particolare, dove si coglie
l’attenzione a intuire, nelle linee dei
tetti e dei circuiti di chi sosta e si muo¬
ve sulle strade sottostanti, un percorso
che si avvia verso l’astrattezza. E kerte¬
siana la sequenza iniziale, quella più
eisensteiniana, e l’intera tonalità emo¬
tiva di Romance sentimentale (1930) di
Ejzenstejn ed Aleksandrov, dove agli
agenti atmosferici scatenati corrispon¬
de una struggente musica orientale,
ma anche la fusione lirica di campagna
e città di Brumes d’automne (1925-26)
di Dimitri Kirsanov. Ma risonanze
kertesiane si possono sorprendere nei
palazzi colti, con uno scorcio molto ac¬
centuato, dal basso, e nel rapido modi¬
ficare e sovrapporsi delle architetture
di Le Coquille et le clergyman (1927) di
Germaine Dulac o nel sentimentali¬
smo e nella tonalità nostalgica di Au-
tumn Fire (1930-31) di Herman G.
Weiberg, storia di due “amanti”, “uo¬
mini comuni”, i quali si ritrovano in un
paesaggio quotidiano che si risolve in
una fuga distorta attraverso le loro
percezioni: gli alberi, le gru, i cancelli
che si frappongono ai corpi, i gratta¬
cieli visti da basso. E ancora Regens
(1929) di Joris Ivens, dove gente co¬
mune si affretta, in spazi delimitati,
per sfuggire la pioggia, e dove tutto è
osservato attraverso riflessi o vetri ba¬
gnati, altra tematica kertesiana. Ma è
anzitutto la gradazione malinconica
alla quale la pioggia tutto sottopone e
il suo riverbero che tendono a rendere
la realtà sottilmente deragliarne, pic¬
cola “surrealtà”, che apparenta questo
Distorsione n. 40
film al fotografo ungherese, come d’al¬
tronde fa con H20 (1929) di Ralph
Steiner, ancora più estremo nel movi¬
mento riflesso d’acqua/astrazione.
A manovre di “aberrazione della visio¬
ne” determinate da condizioni “con¬
trollabili”, e non “ultraterrene” (gli
specchi deformanti) rinviano le “di¬
storsioni” corporali, meccanismi della
falsificazione e della “magia della cir¬
costanza” 8 , in questo, forse, davvero in¬
consciamente metabolizzati dal foto¬
grafo ungherese o trasmessi da questi
ai cineasti, in un gioco di reciproche
influenze. Una rapida carrellata: in La
Retour àia raìson (Man Ray, 1923) i ri¬
flessi sulle ombre che spezzano il torso
nudo; in Le Mysteres du chàteau du Dé
(Man Ray, 1929) la trasformazione
improvvisa di corpi in statue; gli sdop¬
piamenti e gli allungamenti “sadici” dei
corpi atletici in Lot in Sodom (James
Sibley Watson, Melville Webber,
1933); il riflesso della tazza su cui si
proietta l’ambiente circostante e la
soggettiva degli organismi allungati e
precari dopo che il protagonista subi¬
sce il colpo in testa in Uberfalls (1928)
dell’ungherese Ernò Metzner; in Vor-
mittagsspuk (Hans Richter, 1928) gli
uomini che scompaiono “naturalmen¬
te” dietro il lampione e le singole parti
del corpo che si librano indipendenti,
come nei manichini kertesiani; la
“frattura” delle membra attraverso la
percezione dei corpi immersi nell’ac¬
qua, presente nelle foto ungheresi di
Kertész come in Taris (1931) di Vigo;
in L’Étoile de mer (Man Ray, 1928) la
sfocatura che nasconde e sublima le fi¬
gure; gli specchi e prismi deformanti
di Emak-Bakia (Man Ray, 1926) e il
riflesso sulla palla dal movimento a
pendolo in Ballet mécanique (Fernand
Léger, 1924) coi corpi restituiti dal ri¬
verbero accresciuti e allargati con un
effetto del quale le Distorsioni saranno
vera e propria mimesi.
Federico Giordano
Note
1. Rosalind Krauss, “Fotografia e surrealismo”, in
Teoria e storia della fotografia, Milano, Bruno
Mondadori, 2000, pp. 98-100.
2. Jane Livingtone, “Il periodo americano (1936-
1962). L’incomprensione reciproca”, in Pierre
Borhan (a cura ài), André Kertész lo specchio di una
vita, Milano, Federico Motta Editore, 1997, p.
127.
3. Ibidem , p. 128.
4. Paolo Bertetto, "CHAQUE SOIR A MAGIC
CITY , in Antonio Costa, Gian Piero Brunetta
(a cura di), La città che sale. Cinema , avanguardie ,
immaginario urbano, Calliano, Manfrini, 1990,
pp.42-43.
5. P. Borhan, “Lo specchio di una vita”, in P.
Borhan (a cura di), op. cit, p. 23.
6. P. Bertetto, op. cit, pp. 44-45.
7. P. Borhan, op. cit., p. 23.
8. Dominique Baqué, Parigi, Kertész: le affinità
elettive , in P. Borhan (a cura di), op. cit, p. 88. Cfr.
per il simile meccanismo legeriano di controllo
della visione spettatoriale, Standish Lzwder, Il ci¬
nema cubista, Genova, Costa & Nolan, 1984, p.
95.
Prison Break fra ripetizione e tra¬
sformazione
Come gran parte della serialità con¬
temporanea americana, caratterizzata
dalla spiccata tendenza all’accumula¬
zione quantitativa delle fabulae e dal¬
l’elevata frammentazione e serializza¬
zione degli intrecci, anche la prima
stagione di Prison Break , ideata da Paul
Scheuring e composta da ventidue
episodi trasmessi dalla Fox fra l’agosto
2005 e il maggio 2006, si fonda sulla
congiunta declinazione di due assi
narrativi principali (il primo appunta¬
to sui fratelli Michael Scofìeld e Lin¬
coln Burrows, il secondo su Veronica
Donovan e Nick Savrinn) e due se¬
condari (uno dedicato a LJ Burrows,
figlio di Lincoln, l’altro alla Vice Pre¬
sidente Caroline Reynolds).
Il primo asse, tutto giocato svSl'action
carcerario, è incentrato sulle peripezie
di Michael, Lincoln e degli altri abi¬
tanti del Fox River State Pènitentiary,
adiuvanti (come Sucre o Westmore-
land) 0 oppositori (come il capitano
Bellick o Haywire) del progetto di
evasione dei fratelli. Qui la narrazione
si declina soprattutto sulla dimensione
pragmatica 1 : gli attori sono “somatica¬
mente” significanti (il mafioso italoa-
mericano John Abruzzi, lo stupratore
omosessuale T-Bag, ecc.), le azioni
producono trasformazioni fisicamente
evidenti (come l’abbattimento di una
parete), gli oggetti sono entità tesau-
rizzabili o “di consumo” (come la vite
di fissaggio numero di serie
11121147). Su quest’asse, è la trasfor¬
mazione fisica della materia a rappre¬
sentare la principale attività (pragma¬
tica) dei soggetti. Qualunque fattore di
carattere cognitivo 2 (cioè afferente al
“sapere”) è di conseguenza diretta-
mente correlato alla dimensione prag¬
matica. La circolazione delle informa¬
zioni all’interno del penitenziario, e la
loro manipolazione ad opera di Mi¬
chael, non manifesta mai finalità prua-
mente interrelazionali, ma svolge sem¬
pre un ruolo propedeutico al piano di
evasione (si pensi al rapporto amicale
di Michael con il direttore Henry Po¬
pe o a quello amoroso con la dottores¬
sa Tancredi). Al Fox River, anche la
comunicazione è strumento di fuga.
D’altro canto, uno degli elementi di
maggior interesse della stagione sta
nella logica scientifica con cui viene
ideato il progetto di evasione: vero e
proprio ingegnere levi-straussiano,
Michael non entra al Fox River per
“improvvisare” la liberazione del fra¬
tello (come avrebbe fatto il Jack Bauer
di 24), ma “costruisce l’evento per
mezzo di una struttura” 3 , subordinan¬
do la realizzazione del compito prefis¬
sato “al possesso di materie prime e ar¬
nesi, concepiti e procurati espressa-
mente per la sua realizzazione” 4 , a par¬
tire dalla planimetria del penitenziario
che si fa tatuare addosso, ma anche
dallo studio accurato delle psicologie
dei galeotti più in vista. A ben vedere,
una delle angolazioni con cui può es¬
sere interpretato questo asse narrativo
è quello della progressiva dissoluzione
(a causa dell’imprevedibile irruzione
del caso) della logica ingegneristica
che sottende l’operato iniziale di Mi¬
chael, costretto nel corso della narra¬
zione a trasformarsi suo malgrado in
bricoleur, adattando il suo progetto agli
strumenti di cui dispone al momento
(e non viceversa) 5 .
Il secondo asse narrativo, correiabile
all’alveo del legai thriller, è dedicato al¬
l’opera di detection posta in essere fra
Chicago e Washington da Veronica
Donovan (amica di infanzia di
Michael e Lincoln e loro avvocato) e
Nick Savrinn, che tentano di scoprire
la verità sull’omicidio di Terence
Steadman, per cui Lincoln è stato in¬
castrato, scontrandosi contro il muro
della cospirazione politica imbastita
dalla Vice Presidente Reynolds e dai
suoi scherani (gli agenti dei Servizi
Segreti Paul Kellerman e Danny Hale,
poi affiancati da Quinn). All’opposto
di quanto avviene sul versante carcer¬
ario, qui la dimensione pragmatica
passa in secondo piano, ed è invece
quella cognitiva ad essere preminente:
per reperire il sapere necessario a scon¬
giurare l’esecuzione di Lincoln, Veron¬
ica e Nick intraprendono un percorso
che li porta ad avventurarsi in universi
cognitivi dall’incerto statuto veriditti-
vo, in cui il confine fra verità e men¬
zogna è difficile da tracciare - come
nel caso del video dell’uccisione di
Steadman, che a primo acchito sembra
inchiodare Lincoln, salvo poi essere ri¬
conosciuto come falso - e in cui è pro¬
nunciata la discrepanza fra l’essere e
l’apparire (nel finale di stagione
Veronica incontra uno Steadman vivo
e vegeto in una villa a Blackfoot nel
Montana). Su quest’asse, è dunque
l’interpretazione del sapere a rappre¬
sentare la principale attività (cogniti¬
va) dei soggetti. Le azioni pragmatiche
sono qui direttamente causate da
quanto accade a livello cognitivo: non
a caso, ogni scoperta di nuove infor¬
mazioni da parte di Veronica e Nick è
pragmaticamente sanzionata dal¬
l’azione violenta dei Servizi Segreti (si
pensi alla sparizione di Leticia,
preziosa custode di scottanti infor¬
mazioni, all’attentato dinamitardo a
casa di Veronica, al ferimento di Nick
da parte di Quinn).
Gli assi narratici secondari (relativi al¬
la “persecuzione” di LJ e alla scalata
politica di Caroline Reynolds) si affi¬
ancano a quelli principali, a cui del
illlilili
resto sono strettamente intrecciati. Le
peripezie vissute da LJ - che come il
padre viene incastrato dai Servizi
Segreti per un omicidio che non ha
commesso, si dà alla fuga, per finire
poi in carcere - sono il portato della
strategia messa in atto dalla Vice
Presidente Reynolds per bloccare il
tentativo di Veronica di riaprire il
processo di Lincoln, che non a caso
riceve in carcere la visita di una “gior¬
nalista” che gli intima di mettere un
freno all’avvocato, pena la vita di LJ.
D’altro canto, è proprio l’inve¬
stigazione di Veronica a spingere la
Reynolds ad affrettare i tempi del¬
l’esecuzione di Lincoln e a mettere
sulla propria lista paga il governatore
Tancredi, che infatti gli nega la grazia.
La prima stagione di Prison Break col¬
pisce per la perizia con cui coniuga
aspetti ripetitivi e aspetti trasformati¬
vi: i primi rendono conto delTomeo-
stasi seriale”, vale a dire della capacità
della serie, intesa come sistema te¬
stuale, di mantenere in stato di equili¬
brio, episodio dopo episodio, le pro¬
prie caratteristiche interne; i secondi,
all’opposto, si riferiscono all’attitudine
dei singoli episodi di incidere sulla co¬
stituzione “genetica” del sistema e di
produrre perciò la sua evoluzione 6 .
L’omeostasi seriale, basata sulla pre¬
senza di invarianti sistemiche, cioè di
isotopie intertestuali 7 comuni all’inte¬
ro corpus episodico, fonda l’immedia¬
ta riconoscibilità della serie sia in ter¬
mini semiotici (come macrodiscorso
recepito da un soggetto spettatore)
che in termini commerciali (come
brand acquistato da un soggetto com¬
pratore). La trasformazione, basata al
contrario sulla presenza di varianti
episodiche, relative al singolo episodio
o a gruppi ristretti di episodi, gestisce
l’innovazione della serie, concepita
come un processo in dinamico svolgi¬
mento, secondo una scansione ritmica
vertiginosa. Le varianti episodiche
non sono espulse dal sistema seriale a
fine puntata ma entrano a farne parte
e si stratificano al suo interno (si pen¬
si al costante aumento dei partecipan¬
ti all’evasione), producendo così la
perpetua rigenerazione del discorso
dei singoli episodi e la continua ri¬
strutturazione degli orizzonti d’attesa
spettatoriali.
Le isotopie intertestuali vanno distin¬
te in tematico-narrative e figurative.
Le prime si fanno carico di due fatto¬
ri: un investimento semantico astrat¬
to, riassumibile nel valore “libertà”, e
una configurazione discorsiva profon¬
da, riassumibile nel tema “evasione”,
che si declina nel corso della serie se¬
condo una varietà di percorsi figurati¬
vi (reperire la vite 11121147, svitare il
lavandino della cella numero 40, sca¬
vare una buca nel locale delle guardie,
ecc.), concatenati in schema discorsivo
unico. Ogni episodio attualizza speci¬
fici programmi narrativi “d’uso” attra¬
verso percorsi figurativi afferenti alla
stessa tematica. Ciò permette alla serie
di coniugare la brève durata di uno
schema episodico ricorsivo (in ogni
puntata Michael ha un obiettivo speci¬
fico che deve raggiungere per fare
avanzare il suo piano di evasione), alla
lunga o lunghissima durata dell’arco
narrativo globale (coincidente con il
programma narrativo “di base”). Il che
ha una conseguenza rilevante a livello
delle tipologie di fruizione, in quanto è
tendenzialmente soddisfatta sia la vi¬
sione occasionale e discontinua, che si
appunta al programma narrativo d’uso
del singolo episodio, sia la visione assi¬
dua e continua, che è interessata anche
alla posizione occupata dall’episodio
all’interno dell’edificio seriale.
Le isotopie intertestuali figurative, in¬
vece, sottendono la struttura sintattica
dei ventidue episodi della stagione,
permettendo la loro iscrizione in un
mondo possibile unico fondato sulle
stesse coordinate spazio-temporali.
NeEo specifico, esse gestiscono: 1) la
localizzazione spaziale e temporale de¬
gli episodi, da cui deriva l’identità sin¬
tattica della stagione (Penitenziario di
Fox River, Stati Uniti d’America,
2005); 2) la programmazione spaziale
e temporale che, sulla base delle loca¬
lizzazioni, organizza in insiemi conca¬
tenati e consecutivi sia gli spazi (per
esempio, le diverse celle che compon¬
gono il Penitenziario), che i tempi (se¬
condo il conto alla rovescia impostato
dalla data dell’esecuzione di Lincoln);
3) la distribuzione attoriale, che stabi¬
lisce la presenza costante dei perso¬
naggi nell’universo rappresentato (Mi¬
chael, Lincoln, Sucre, ecc.).
Le isotopie intertestuali non solo pro¬
ducono l’aggregazione dei ventidue
episodi in un’entità testuale unica (la
stagione, appunto) dotata di coerenza
narrativa e autonomia discorsiva, ma
permettono anche alla serie, in quanto
prodotto culturale high concept, di
“sciogliersi” nel circuito dello sfrutta¬
mento economico postindustriale 8 . In
altri termini, le isotopie intertestuali
rappresentano ciò che di seriale per¬
mane sia nel passaggio da un episodio
all’altro che nel passaggio da un me¬
dium all’altro, e permettono dunque ai
numerosi tie-ins della serie 9 di costi¬
tuire una rete discorsiva eteroclita ma
organica e “integrata”.
La prima stagione di Prison Break è un
esempio emblematico di come la se¬
rialità televisiva americana, ristruttu¬
rando il proprio meccanismo di fun¬
zionamento, sia andata producendo
negli ultimi due lustri una sorta di ce¬
sura “epistemica” nel panorama audio¬
visivo contemporaneo, lavorando at¬
torno a quello che Michel Foucault, ri¬
ferendosi alla letteratura “premoder¬
na”, definiva “E piacere di raccontare e
di ascoltare, che era centrato sul rac¬
conto eroico o meraviglioso deEe ‘pro¬
ve’di bravura o di santità” 10 . Questo ri¬
lancio del piacere narrativo che la se¬
rialità più evoluta sta impostando, av¬
viene attraverso modalità narrative
molto raffinate, capaci non solo di as¬
sociare ripetizione e trasformazione,
circolarità e vettoriaEtà, ritorno del
vecchio (e dunque fedeltà e famigha-
rità) e irruzione del nuovo (e quindi
sorpresa e suspense), ma anche di im¬
postare una sorta di fusione struttura¬
le fra queste dimensioni. Questa seria-
Età sembra operare neE’alveo di un ap¬
parente paradosso Enguistico, dal mo¬
mento che non si accontenta di reite¬
rare, episodio dopo episodio, una ma¬
trice discorsiva preformata, da attua-
Ezzare nel corso deEa serie con minimi
sEttamenti figurativi, ma tende a fare
deEa trasformazione narrativa E con¬
tenuto stesso deEa propria ripetizione.
Ecco dunque che la serie non si pre¬
senta più come la sempEce sommato¬
ria di monadi testuaE chiuse in se stes¬
se, tenute assieme da un’intertestuaEtà
“esteriore”, più pragmatica che seman¬
tica, ma come un dispositivo “auto-
poietico”, motore di una indefinita
moltipEcazione testuale, in cui ogni
episodio riscrive e si inscrive neE’altro,
tasseEo di un mosaico di mirabile
complessità narrativa.
Federico Zecca
Prison Break
Il cast dì Prison Break
29
TV FILES
30
Note
1. Cfr. Algirdas J. Greimas, Joseph Courtés, Se¬
miotica. Dizionario ragionato della teoria del lin¬
guaggio, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 248.
2. Ibidem , pp. 33-36.
3. Claude Lévi-Strauss, Il pernierò selvaggio , Mila¬
no, il Saggiatore, 1964, p. 35.
4. Ibidem , p. 30.
5. Ivi.
due minuti ciascuno, intitolato Prison Break: Proof
oflnnocence.
10. Michel Foucault, La volontà di sapere , Milano,
Feltrinelli, 1978, p. 55. Cfr. anche, a proposito del
“primato dell’eroe” nelle serie televisive contem¬
poranee, Roy Menarini, “Heroes for one day”, Se-
gnocinema , n. 148, novembre-dicembre 2007, pp.
8 - 10 .
6. Cfr. Omar Calabrese, L’età neobarocca , Roma-
Bari, Laterza, 1987, pp. 32-39.
7. Cfr. Nicola Dusi, Lucio Spaziante, “Introdu¬
zione”, in Id., (a cura di), Remix-Remake. Pratiche
di replicabilità , Roma, Meltemi, 2006.
8. Cfr. P. David Marshall, “The New Intermedia-
lity Commodity”, in Dan Harries (a cura di), The
New Media Book, Londra, BFI, 2002.
9. A seguito dell’immediato successo della prima
stagione, il concept della serie è migrato in un
videogame on-line, una rivista ufficiale, un ro¬
manzo, un’attrazione di Luna Park e uno spin-off
mobisode (cioè realizzato per essere visionato con
telofoni cellulari) composto da ventisei episodi di
L’inanità dd linguaggio e la vi¬
sione impossibile
Amleto di Carmelo Bene (da Shakespeare
a Laforgue) (Carmelo Bene, 1974)
“Solo l’indicibile si può dire”. Questo
aforisma paradossale potrebbe prestar¬
si a sintetizzare il lascito dell’esperien¬
za creativa di Carmelo Bene.
La contraddizione della frase è appa¬
rente: per “dire” bisogna “essere detti”,
perché, se si cerca di dire, si finisce nel
detto (l’autoreferenzialità della parola)
e mai nel dire. Cioè il dire, il fatto lin¬
guistico, è qualcosa che l’uomo non è
in grado di definire, dato che, se ten¬
tasse di farlo, cadrebbe nell 'impasse ir¬
risolvibile di dover descrivere la natura
del linguaggio con il linguaggio stesso.
Quando infatti si tenta di possederlo,
ci si accorge di non riuscire a comuni¬
care quel che si intende, che è filtrato
dalla mediazione della convenzione
linguistica. Quindi l’uomo, prigioniero
del linguaggio, può esprimere sola¬
mente l’evento del linguaggio, che è in
sé indicibile, cioè inesplicabile e inco¬
municabile.
Alla luce dell’inanità di ogni codice se¬
mantico la macchina attoriale beniana
diviene espressione di un “anti-lin-
guaggio”, che impedisce allo spettato¬
re ogni azione fatica; anzi lo costringe
a non vedere e a non capire razional¬
mente. Qualsiasi sforzo interpretativo
è reso vano dal ricorso alla tecnica del
depistaggio, in primis sul piano testua¬
le e su quello narrativo: se nel labirin¬
to delTintertestualità non mancano ri¬
mandi a fonti inesistenti, citazioni fa¬
sulle e anacronismi, il dipanarsi del
racconto è di continuo interrotto dal
rifiuto dei personaggi di recitare il pro¬
prio ruolo. Il processo è finalizzato ad
estirpare dall’osservatore l’abitudine
alla ricerca perpetua di mappe cogniti¬
ve di riferimento.
Di conseguenza, nelle opere televisive
sono asservite allo scopo suddetto an¬
che le tecniche audiovisive, sfruttate
per smantellare il linguaggio del video.
Così, in Amleto di Carmelo Bene (da
Shakespeare a Laforgue), Bene innanzi¬
tutto espunge l’elemento di mediazio¬
ne della percezione visiva, il grigio, e
l’elemento di mediazione della sintassi
cinematografìco-televisiva, il piano
medio.
Il film è infatti in un bianco e nero ati¬
pico, dai contrasti esasperati, che abo¬
liscono la profondità. I due colori, resi
puri e saturi dalla totale mancanza del
grigio, abbagliano lo sguardo fin dalle
prime inquadrature, cosicché si è cata¬
pultati in un universo allucinato, che
spoglia l’immagine di ogni elemento
decorativo, proponendola nella rarefa¬
zione dell’essenzialità bicromatica.
Prison Break
Ad accentuare il disagio dell’osservato¬
re televisivo, serve poi la mancanza del
piano medio, tipico elemento sintatti¬
co del linguaggio televisivo, a cui lo
sguardo assuefatto dell’osservatore è
abituato. Al suo posto piani lunghissi¬
mi si alternano per stacchi improvvisi
ai primi piani dei volti dei personaggi.
Per far questo il regista ricorre all’uso
frequente dello zoom e in particolare
del blow-up, la tecnica straniante del¬
l’ingrandimento a tutto schermo del
dettaglio.
Il fine di tale amplificazione visiva è di
forzare lo spettatore ad una visione de¬
stabilizzante e di indurlo ad esperire
come all’estremo avvicinamento del¬
l’oggetto non corrisponda affatto un
miglioramento della visione e della co¬
noscenza della struttura dello stesso; al
contrario l’oggetto si deforma e diven¬
ta irriconoscibile e non identificabile.
Perciò anche l’esperienza puramente
visiva insegna l’impossibilità della
comprensione e la latitanza di una si¬
gnificazione finale e decisiva.
Per intendere come ciò avvenga, è cru¬
ciale valutare altri aspetti tecnici che
contribuiscono a scardinare il linguag¬
gio televisivo e i suoi cliché, costrin¬
gendo lo sguardo spettatoriale alla dit¬
tatura dell’occhio esplorativo e dis¬
umano della telecamera.
Innanzi tutto il montaggio, paratattico
e operante per stacchi netti, infrange
puntualmente i codici convenzionali
del découpage classico (la regola dello
spazio a 180°, quella del raccordo sul¬
l’asse e la regola dei 30°), alterando la
percezione dello spazio filmico. In più
è frequente la rottura del punto di vi¬
sta, grazie all’utilizzo delle “soggettive
senza soggetto”, false soggettive che
traggono in inganno l’operazione di
raccordo dello sguardo.
Oggetto della progressiva distruzione
della rappresentazione è perfino l’im¬
magine televisiva, che diviene il “non
luogo” dell’irrappresentabile. I volti
fluttuanti nel nero completo dello
sfondo incidono fortemente sulla spa¬
zialità e la sua percezione: è una di¬
mensione irreale e spaesante, dove vige
la mancanza di contorni e di qualsivo¬
glia unità scalare. I volumi sono ap¬
piattiti e la densità visiva dello sfondo
monocromo satura lo spazio schermi-
co, affogando nell’oscurità le figure.
Capita anche che lo schermo nero
venga eroso da “pennellate” di bianco:
rimangono solo i corpi attoriali neri,
circondati dall’invadenza del colore
opposto, che minaccia la loro risibile
visibilità. Essi titubano, si guardano
intorno inquieti, per poi riprendere il
loro incerto e svogliato frasario. Ma,
sul finire delle scene, pennellate stavol¬
ta nere ricoprono e cancellano le figu¬
re, e con loro l’intero schermo, restitui¬
to al suo colore d’origine.
TV FILES
Le immagini del quadro televisivo so¬
no ormai talmente deteriorate, da ri¬
sultare non visibili: la telecamera offre
la visione dell’inguardabile, autorifles¬
siva, di certo preclusa ad un occhio
umano.
A tal proposito è emblematica e rivela¬
trice la maschera tragica di Amleto-
Bene: con lo sguardo perso nell’oblio,
riflette nei suoi occhi lucidi l’assenza,
che in lui si specchia e lo possiede, di¬
mentico di sé e della propria umanità.
L’identificazione dello spettatore è
quindi doppiamente vanificata: non
solo a livello narrativo i personaggi
inesorabilmente si ribellano riottosi al¬
l’idea di ricoprire una qualsiasi parte;
ma a livello scopico è stata elisa ogni
corrispondenza tra le immagini propo¬
ste sul video all’osservatore e le diege-
tiche esperienze ottiche dei protagoni¬
sti. La camera fissa non è più interfac¬
cia statica tra mondo diegetico e spet¬
tatore, ma tramite le operazioni di
composizione diventa occhio sperso¬
nalizzato, che non filma una realtà,
non registra immagini preesistenti, ma
dà l’impressione di crearle da sé. I sog¬
getti non sono protagonisti della visio¬
ne, ma vittime di un processo di ogget¬
tivazione completa, concettuale e visi¬
va.
Il tema dello sguardo possiede un ruo¬
lo decisivo nella strutturazione del¬
l’immagine e pone la questione della
valenza significante del materiale fil¬
mico.
La presenza delle false soggettive, pri¬
ma citate, bandisce l’identificazione
secondaria dello spettatore con i perso¬
naggi e le loro emozioni. Ne deriva che
l’unica identificazione possibile è quel¬
la con la prospettiva della telecamera,
ovvero con il punto di vista dell’istan¬
za a-personale di enunciazione. Si trat¬
ta di un punto di vista atipico, in quan¬
to multiplo, plurimo, che richiama il
concetto del non luogo, l’altrove che
secondo l’autore consustanzia la vera
creazione artistica. Lo sguardo dei cor¬
pi attoriali, apparentemente vólto in
camera, cerca qualcosa al di là dello
spazio fìsico, un’originarietà mai stata.
Allora, quando nel film le campiture di
nero e di bianco sfaldano le forme e
Fimmagine tout court, è come se il vuo¬
to, dopo aver costretto i corpi attoriali
e le immagini che li contengono alla
progressiva e inevitabile sparizione,
espandesse la propria invisibilità spec¬
chiandosi nel teleschermo e invadesse
gli occhi dello spettatore.
Pertanto il vuoto è l’istanza di enun¬
ciazione che si palesa, come pretende
l’intrinseca essenza del lavoro beniano
sulle potenzialità comunicative dell’au¬
diovisivo: lo scopo è creare all’interno
del film, tramite la de-costruzione, la
condicio sine qua non per dar vita all’in¬
comunicabilità. Ne consegue che nel
testo audiovisivo avviene un’inedita
sovrapposizione tra il piano delle mar¬
che stilistiche ora rintracciate e il pia¬
no delle marche di enunciazione.
Del resto il teorico Christian Metz pa¬
venta questa possibilità, quando so¬
stiene che il gioco delle marche enun¬
ciative si traduce talvolta in un tratto
stilistico vero e proprio, alla stregua
degli altri.
Il problema del rapporto tra sguardo
ed enunciazione emerge nella sua
complessità e appare di non facile riso¬
luzione. Per esempio, la griglia inter¬
pretativa della “fecalizzazione”, con cui
lo strutturalista Gérard Genette inda¬
ga i rapporti di sapere tra istanza nar¬
rante, personaggi e spettatore, è infi¬
ciata dal fatto che nel testo audiovisivo
di Amleto non ce narrazione alcuna ed
esiste solo il racconto nel suo indeci¬
frabile farsi.
Piuttosto risulta d’aiuto lo studio sui
punti di vista prospettico-cognitivi
compiuto da Francesco Casetti, il qua¬
le identifica quattro modalità di sguar¬
do: foggettiva, l’interpellazione, la sog¬
gettiva e Foggettiva irreale. L’ultima è
quella che sembra riguardare F Amleto.
La struttura dell’oggettiva irreale in¬
fatti si riassume nella frase: “sono pro¬
prio io che guardo e proprio a te per¬
metto di vedere”, dove per “io” si in¬
tende l’enunciatore, l’istanza enuncia-
trice del film, e con “tu” si indica l’e-
nunciatario, ossia un’istanza assimila¬
bile ad una sorta di spettatore ideale
che è sempre presupposto alla creazio¬
ne audiovisiva.
Dalla proposizione si evince che gli
occultati rapporti sotterranei tra enun¬
ciatore ed enunciatario in questa tipo¬
logia di sguardo vengono confessati ed
esplicitati: “tu vedi, grazie a me”. Si de¬
termina qui una singolare correità tra
le due istanze.
Nell’opera televisiva di Bene l’istanza
di enunciazione è, come detto, il vuo¬
to. Esso si specchia nell’immagine che
ha prodotto, cancella i personaggi,
esclusi in tal modo dal gioco enuncia-
zionale, e rimbalza indecifrabile fuori
dallo schermo, verso l’enunciatario. La
frase che effigia Foggettiva irreale be-
niana potrebbe suonare così: “sono
proprio io che mi guardo e proprio te
acceco con il mio riflesso”. E ancora:
“tu non vedi che il nulla, a causa mia”.
Casetti osserva inoltre che nelle ogget¬
tive irreali l’enunciatore può suggerire
all’altra istanza la possibilità di un’in-
terscambiabilità dei posti. In Amleto, in
effetti, lo sguardo si svincola dalle li¬
mitazioni della visione classica, con¬
nessa ad un personaggio o alla narra¬
zione, e vive il brivido della visione so¬
vrana, onnipotente: lo sguardo però si
perde e si fonde fino all’indiscernibi-
lità con Fimmagine del vuoto sullo
schermo. La marca autoriflessiva chia¬
: l' farjpe & -a KAwf t (a Ifo vjfa Cvfì fa
Amleto di Carmelo Bene (da Shakespeare a Laforgue), collage di immagini
ma allora lo spettatore ad una visione
impossibile. È il tema dell’amplifica¬
zione scopica, precedentemente intro¬
dotto: quanto più ci si avvicina ad un
oggetto e l’esperienza ottica si fa estre¬
ma, tanto più la cecità incombe. Ecco
che la massima visibilità dell’immagi¬
ne coincide con il buio dello sguardo,
con l’ottenebrarsi della vista.
Si è realizzata la sovrapposizione teo¬
rizzata da Metz, per cui la marca
enunciazionale e quella stilistica si
compenetrano, e insieme fanno affio¬
rare la xpicnl; ( chrìsis ) del linguaggio
comunicativo, sgretolato dai suoi bu¬
chi neri.
Il video di Bene è dunque un clau-
strofobico labirinto per la pratica di
codifica logica che, come in una casa di
specchi, si contempla nella propria au-
toreferenzialità, senza mai trovare la
via del significato, beffardamente ri¬
lanciato all’infinito dai continui slitta¬
menti di senso.
La frantumazione del senso, come ci¬
fra essenziale del cinema beniano, è il
frutto di una poetica che sottende a li¬
vello teoretico la filosofìa dell’assenza
di Schopenhauer: se l’esistenza si è
scoperta senza certezze e ogni investi¬
gazione di un fine ultimo che la tra¬
scenda si dimostra vana, la sola attività
estetica plausibile è la traduzione arti¬
stica di tale condizione esistenziale.
È possibile interpretare in questa chia¬
ve la conclusione dell’opera televisiva.
Nello schermo, invaso da una campi¬
tura di bianco, compare l’armatura
vuota di Fortebraccio, intenta ad auto-
incoronarsi: è il simbolo della mancan¬
za, di un’assenza che, perentoria, atte¬
sta la sua presenza. In primo piano so¬
noro, un canto funebre del Tannhàuser
di Wagner celebra la morte e l’auto-
emarginazione della “forma” artistica, e
insieme il trionfo di un vuoto cosmico,
invisibile ma indelebile traccia di un
“oltre” inconoscibile.
Francesco Chillemi
Francesco Casetti, Dentro lo sguardo. Il
film e il suo spettatore, Milano, Bompia¬
ni, 2001 (5* ed.).
Gérard Genette, Figure III. Discorso del
racconto , Torino, Einaudi, 1976.
Christian Metz, L'Enonciation imper-
sonelle ou le site du film, Paris, Klinck-
sieck, 1991.
Cosetta G. Saba, Carmelo Bene, Mila¬
no, Il Castoro, 1999.
Arthur Schopenhauer, Il mondo come
volontà e rappresentazione, Milano,
Mondadori, 1992.
SOTTO ANALISI
Il Museo postmoderno
Introduzione. La querelle des postmo-
dernes
Non è possibile oggi utilizzare il ter¬
mine postmoderno senza provare un
certo imbarazzo. Una sensazione di di¬
sagio, di incertezza, di sofferta incapa¬
cità nel maneggiare una parola che è
passata, non indenne, attraverso una
moltitudine di sfumature, applicazio¬
ni, estensioni a ogni campo disciplina-
re e pratica del sapere, finendo quasi
per spogliarsi di significato.
L’espressione “postmoderno”, infatti,
per sua natura etimologica, possiede
uno statuto incerto, ondivago, oscillan¬
te, a partire dalla sua stessa definizione.
“postmoderno” denuncia subito la
natura sfuggente, ambigua e inde¬
finita del fenomeno a cui si riferi¬
sce. Il prefisso post suggerisce l’i¬
dea di un qualcosa che viene co¬
munque dopo qualcos’altro. Ma
questo qualcos’altro è - come per
una sorta di paradosso etimologico
- proprio ciò che sta avvenendo
ora, in questo istante: modernum,
dall’avverbio latino modo (che si¬
gnifica “ora, in quest’attimo, at¬
tualmente”) 1 .
L’ampiezza delle accezioni (storiche,
sociali, filosofiche, letterarie, estetiche,
e anche cinematografiche) in cui è sta¬
ta implicata la visione postmoderna
come modo di intendere la contempo¬
raneità ha contribuito a sviscerare il
concetto in ogni suo aspetto, ma lo ha
anche esposto al rischio di fragilità e
di scivolamento nella tautologia. Se la
postmodernità, proprio per la sua es¬
senza connaturalmente contradditto¬
ria, proprio per questo suo essere “l’i¬
dentico che sfocia nel differente men¬
tre a sua volta dal differente riaffiora
comunque l’identico” 2 , è riconducibile
a una gamma potenzialmente infinita
di tratti distintivi, c’è pericolo che si fi¬
nisca per sfuggire a ogni possibilità di
riconoscimento, delimitazione e indi¬
viduazione scientifica del fenomeno.
Perché, allora, continuare a usare una
parola così scomoda? Intanto per l’in¬
capacità di trovare una valida alterna¬
tiva. Se il dibattito scientifico si è are¬
nato sul postmoderno, forse, è perché
non è stato ancora possibile andare ol¬
tre. Gli altri termini proposti per defi¬
nire l’essenza della contemporaneità,
sia in campo cinematografico sia filo¬
sofico, (“età neobarocca” 3 , “società tra¬
sparente” 4 , solo per citarne alcuni) non
sembrano risolvere la questione. Al di
là di mere diatribe nominalistiche, il
problema fondamentale sta nell’inca¬
pacità di ritrarre con nitidezza il tem¬
po presente, forse anche perché lo
stesso presente non è giunto ancora a
una svolta tale da giustificare l’elimi¬
nazione di quel “post”.
Ma se si continua a utilizzare quest’e¬
spressione, nonostante il relativismo
definitorio, magari è perché il post¬
moderno non si è ancora svalutato del
tutto di senso. A un livello meramen¬
te empirico, né esaustivo né sistemati¬
co, è possibile in ogni caso rintraccia¬
re nei testi, negli atteggiamenti e nel¬
le modalità di pensiero della contem¬
poraneità alcuni tratti distintivi tipici
della nostra epoca. Si pensi ai fattori
individuati da Gianni Canova sulla
scorta delle riflessioni di Fredric Ja-
meson: Ibridismo, Frammentarietà,
Superficialità, Euforia, Omogeneizza¬
zione dello spazio, Presentifìcazione del
tempo 5 . Ciò vale tanto per il cinema,
quanto per le altre manifestazioni ar¬
tistiche e storico-sociali. A questi ele¬
menti è possibile aggiungere anche
aspetti che di solito si associano al po¬
stmoderno cinematografico in manie¬
ra più superficiale nel dibattito gior¬
nalistico, ma che non è escluso possa¬
no essere oggetto di studi teorici com¬
plessi, come autoriflessività, interte¬
stualità, citazionismo, approccio ludi¬
co, regressione infantile, “cartoonizza-
zione”, “cosizzazione”, e molti altri.
Ripercorrere tutte le tappe che hanno
segnato l’evoluzione e lo .sviluppo del
discorso intorno alla postmodernità,
sia in ambito generico sia in campo
cinematografico, a partire dai teorici
più autorevoli, da Jean-Fan 90 is Lyo¬
tard 6 a Fredric Jameson 7 , da Alberto
Negri 8 a Gianni Canova 9 , da Laurent
Jullier 10 a Vincenzo Buccheri 11 , è un
compito che esula dalla portata fimi-
tata di questo studio.
Date le circostanze, l’unico approccio
possibile non può che essere tangen¬
ziale. Ovvero, partire dalle particola¬
rità e dalle idiosincrasie di un singolo
testo per cercare di dedurne e astrarne
tratti caratterizzanti che possano
esemplificare una realtà più vasta.
Meglio ancora, poi, se il testo esami¬
nato è un’opera decisamente margina¬
le e senza manifeste pretese di rifles¬
sione teorica e intellettuale. Si potrà
verificare, in questo caso, come certe
istanze e certi atteggiamenti siano tal¬
mente presenti nell’atmosfera cultura¬
le contemporanea da circolare, magari
in maniera inconsapevole e non medi¬
tata, anche nelle produzioni commer¬
ciali di più ampio e facile consumo.
Il testo in questione è Una notte al
museo (Night at thè Museum, Shawn
Levy, 2006), uno dei blockbuster di più
grande successo della stagione natali¬
zia americana 2006. E i tratti di post¬
modernità che è possibile rinvenire al
suo interno sono soprattutto due: la
dimensione metacinematografica e la
componente antistorica.
Sia chiaro sin da subito che, durante
l’analisi, sarà messo da parte qualunque
giudizio di valore estetico sull’oggetto
esaminato, anche perché del tutto irri¬
levante ai fini della prospettiva scelta.
Che il film di Shaw Levy sia poca co¬
sa, infatti, è faccenda parecchio sconta¬
ta, talmente autoevidente che non vale
a nulla elencarne le mostruose defi¬
cienze e le trovate deficienti (princi¬
palmente tutte imputabili al regista
Levy, totalmente privo di verve, creati¬
vità e gusto estetico, che l’anno prece¬
dente aveva già fatto scempio del mito
della Pantera rosa). Neanche la bravura
di Ben Stiller (attore oltremodo sotto¬
stimato) e dei suoi comprimari (su tut¬
ti Owen Wilson in una deliziosa “par-
ticìna-ina-ina”) riesce a salvare una
narrazione costituzionalmente fiacca,
che non risparmia agli spettatori nep¬
pure 1 ’edutainment forzato e la sdolci-
neria familiare più conservatrice.
Ma tutto ciò è, almeno da un certo
punto di vista, irrilevante. Serve solo a
confermare come anche un prodotto
che non possa dirsi certamente riusci¬
to, riesca a manifestare, a un livello
sintomatico e vorrei dire quasi subco¬
sciente, una serie di tendenze del cine¬
ma, e soprattutto del blockbuster, con¬
temporaneo.
Il Museo metacinematografico 12
Vista l’apparente inconsistenza del
film, non stupisce che Una notte al mu¬
seo non sia stato oggetto di nessuno
studio di tipo critico. Anzi, a voler es¬
sere precisi, si dovrebbe più giusta¬
mente dire che l’ultima fatica di Levy
è stata totalmente ignorata dalle riviste
specializzate. La maggior parte delle
testate non si sono nemmeno premu¬
rate di recensire il film. Le uniche ec¬
cezioni sono costituite da un breve tra¬
filetto intristito di Antoine Thirion
nei Cahiers du Cinéma lì , dal pezzo sar¬
castico e pungente di Andrew
Osmond su Sight & Sound 14 e da
un’interessante riflessione sull’“appros-
simazione e la genericità del sapere
storiografico” di Alessandro Bertani
per Cineforum 15 .
Un discorso a parte merita la critica
quotidianista, che ha coperto ampia¬
mente Una notte al museo, ma si è limi¬
tata prevalentemente a liquidarlo co¬
me un “filmetto ultra convenzionale,
tutto ovvio e privo di una minima sor¬
presa” 16 , rivolto prevalentemente a un
target di età scolare, e a lodarne al più
l’intento didattico o i propositi di ri¬
conciliazione familiare. L’unico a ten¬
tare un’analisi più approfondita è stato
Paolo Mereghetti 17 , che si è focalizza¬
to sul valore dell ’exemplum paterno co¬
me ossessione pedagogica della cultu¬
ra americana, connessa però sempre
con la sfera del successo economico e
professionale.
SOTTO ANALISI
Una notte al museo
Comunque stiano le cose, stupisce che
nessuno dei critici e dei recensori si sia
soffermato sulla forte componente ri¬
flessiva che riecheggia per tutto il film
di Shawn Levy. È fuor di dubbio, in¬
fatti, che Una notte al museo sia (anche)
una gigantesca e baracconesca metafo¬
ra metacinematografìca 18 .
Ogni attrazione del museo appare co¬
me uno specifico archetipo dei generi
spettacolari della Hollywood classica
(a partire, appunto, dai cosiddetti spec-
taculars degli anni Cinquanta), che
prendono vita durante la notte (ovvero
quando “cala il buio in sala”).
L’immagine che inaugura il film è em¬
blematica: la facciata del museo di sto¬
ria naturale è inquadrata in maniera
prospettica e scintilla proprio come i
loghi storici delle major , in particolare
quello della Twenty Century Fox che
gli spettatori hanno avuto modo di ve¬
dere appena qualche secondo prima. Si
tratta di un vero e proprio titolo diege-
tico di secondo grado: serve ad annun¬
ciare al pubblico che “il film nel film”
sta per cominciare.
Le portentose virtù magiche del mu¬
seo fanno letteralmente “resuscitare”
vecchi filoni cinematografici, alcuni
ormai abbandonati o in declino: we¬
stern (il diorama dei cowboy), kolossal
e peplum (le miniature dell’esercito ro¬
mano), affresco storico (Cristoforo
Colombo e Gengis Khan) e storico¬
patriottico (Teddy Roosvelt e Sa-
cajawea), horror classico (la mummia),
esotico (la giungla africana con leoni e
scimmietta, la testa dell’isola di Pa¬
squa) 19 e big monster movie (il mam¬
mut e lo scheletro di T-Rex, che è na¬
turalmente anche un omaggio diretto
al primo blockbuster dell’era digitale:
Jurassic Park , Steven Spielberg,
1993) 20 .
Il fatto, poi, che due generi “spaziosi” e
grandiosi come western e kolossal, al¬
l’epoca del Cinemascope i più apprez¬
zati e diffusi, siano adesso rimpiccioli¬
ti e ridotti all’impotenza è senz’altro
un’intuizione brillante (anche se i due
“soldatini” dimostreranno nel corso del
film di essere particolarmente resisten¬
ti e alla-fine esclameranno: “Non ci si
libera di noi tanto facilmente!”).
Come se non bastasse, a svolgere una
funzione quasi testamentaria, figurano
perfino vere e proprie “testimonianze
viventi” di quell’epoca, quali il terzetto
d’attori composto da Dick Van Dyke
(“invecchiare non è divertente”, di¬
chiara inequivocabilmente), Bill
Cobbs, e Yhighlander Mickey Rooney
(classe 1920).
Ecco che forse anche il fastidioso mes¬
saggio educativo, il “più si sa del passa¬
to, più si sa del futuro”, acquista una
connotazione di stampo autoriflessivo.
La Hollywood di oggi, per uscire dalla
crisi identitaria e creativa che la perse¬
guita, dovrebbe volgersi ai fasti del
passato, tentando di rinnovarli e “rivi¬
vificarli”.
Ma, a ben guardare, i personaggi che
popolano il film rimangono costitu¬
zionalmente manichini, spettri del
passato, “mummie da museo” appunto,
che bisticciano tra loro per tutto il
tempo e non sanno organizzare le pro¬
prie azioni in maniera coerente. Sono
solo suggestioni senza vita, ormai in¬
capaci di emozionare lo smaliziato
spettatore contemporaneo: il museo di
storia naturale, infatti, è sull’orlo del
fallimento perché le nuove generazio¬
ni preferiscono la PlayStation agli ani¬
mali imbalsamati e alle statue di cera.
Quando, di notte, questi fantasmi di
celluloide tornano in vita lo fanno nel¬
l’unico modo che è ancora possibile,
quello del blockbuster dell’era postmo¬
derna. Tutte le attrazioni si confondo¬
no e si mescolano in un magma anar¬
chico che disintegra le distanze spa¬
zio-temporali e rende semplicemente
priva di senso la nozione di coerenza.
I visitatori del museo, infatti, sono
contenti solo così: ritornano a far le fi¬
le alle casse soltanto dopo aver visto gli
uomini primitivi uscire per strada e
aver scorto sull’asfalto innevato le im¬
pronte del Tyrannosaurus Rex (esatta¬
mente come nel film di Spielberg).
II museo by night di Levy diventa, in¬
somma, uno strano microcosmo in cui
si riassumono e si sincretizzano tutti i
caratteri dell’attuale high-concept mo¬
vie 21 : implosione e mescolamento dei
generi, cinema delle attrazioni deriva¬
to dai parchi di divertimento o da luo¬
ghi affini, emulazione della narratività
videoludica.
Ed è così che la riflessività di Una not¬
te al museo non si limita soltanto al
contesto cinematografico, ma si esten¬
de per un raggio mediale ben più am¬
pio 22 , che ingloba anche nuove tecno¬
logie comunicative come Internet, la
realtà virtuale e i videogame. Dimostra¬
zione di come la Settima arte flirti
sempre di più con le nuove modalità
espressive del digitale, non solo come
risorsa tecnica da investire nel campo
degli effetti speciali, ma come linguag¬
gio da emulare e da cui trarre ispira¬
zione stilistica e formale.
Il personaggio interpretato da Ben
S filler, in fondo, non è altri che un
player, termine volutamente plurise-
mantico, che si trova catapultato den¬
tro un videogioco. Siccome perde le
istruzioni che gli consentirebbero di
vincere la partita, si documenta sul
web per trovare soluzioni alternative
agli enigmi da risolvere: quasi sempre
indovinelli elementari, del tipo “dai
l’osso al dinosauro”, che rimandano al¬
le avventure grafiche fino a qualche
tempo fa molto in voga.
Il film si conclude con un’immagine
fiduciosa e ottimista: il pubblico ades¬
so va al museo di storia naturale e si
diverte. Ma siamo sicuri che questo
stato di cose durerà a lungo? In fin dei
conti si tratta pur sempre di manichini
e cadaveri imbalsamati riesumati con
la forza. Hollywood dovrebbe impara¬
re a costruirsi nuovi miti (magari co¬
piando dai nevi mediò) anziché imbel¬
lettare vecchi zombie.
Una notte al museo è in fondo
l’ennesimo film sugli zombi, altri
morti viventi (questa volta d’epo¬
ca) che risorgono ed affollano uno
spazio apparentemente senza via
d’uscita. Il museo diventa una
trappola dove i non-morti ripeto¬
no all’infinito i propri ruoli più o
meno strategici nella storia, come
marionette o personaggi pirandel¬
liani che si agitano convulsamente,
che reiterano il proprio cliché. [...]
Anche gli zombie di Romero, pe¬
raltro, mimano se stessi da vivi: in¬
scenano la caricatura dei propri
ruoli sociali in vita. Perdono l’u¬
manità ma non perdono l’impiego,
si direbbe. 23
Oltre Joker
La sequenza filmica che propongo
ci mostra il delirante volto di Joker
durante una sua incursione nello
spazio della tradizione artistica e
dell’esperienza educativa, i luoghi
in cui gli artefatti umani si fanno
monumento e la loro catalogazio¬
ne ed esposizione si fa memoria e
trasmissione del sapere: il museo.
Il grande cinema [...] enumera
una lunga gamma di emblemati¬
che situazioni in cui i “demoni”
della cultura di massa invadono e
sconvolgono la razionalità sociale
[...]. In molti film dunque gli spa¬
zi tradizionali del sapere (teatri,
biblioteche, scuole, ecc.) vengono
sconvolte da Fantasmi, Mostri,
Bestie, Assassini.
Comincia così il saggio di Alberto
Abruzzese “Sfigurare il moderno;
Joker visita il museo”, che fa da apertu¬
ra al volume L'occhio di JakeP^. Il socio¬
logo delle comunicazioni di massa si
riferisce a una delle scene più suggesti¬
ve di Batman (Tim Burton, 1989),
quella in cui Joker “nel pieno della sua
incontenibile creatività assassina, si di¬
verte a ‘vandalizzare’ le opere d’arte del
museo, sculture infrante, quadri im¬
brattati, capolavori deturpati” 25 . Una
scena davvero emblematica, che figu-
rativizza con perfezione icastica la
messa a soqquadro del senso dell’Or¬
dine, della Storia, del Sapere raziona¬
lizzato da parte delle entità carnascia¬
lesche postmoderne.
In effetti, basta eseguire una rapida ri¬
cerca sul sito Intenet Movie Databa¬
se 26 per accorgersi di come una larga
fetta degli ultimi blockbuster hi-tech
preveda almeno una scena ambientata
al museo. Solo per citare alcuni titoli a
partire dai più recenti: TMNT, il nuo¬
vo film sulle Tartarughe Ninja (Kevin
Munroe, 2007), The Fountain (Darren
Aronofsky, 2006), Missione Impossible
III (J.J. Abrams, 2006), Il codice Da
Vìnci (The Da Vinci Code, Ron
Howard, 2006), Curioso come George
(Curious George, Matthew O’Calla-
ghan, 2006), La maschera dì cera {Hou¬
se ofWax, Jaume Collet-Serra, 2005), Il
mistero dei templari {National Treasure,
Jon Turteltaub, 2004), Hellboy (Guil-
lermo del Toro, 2004), Scooby Doo 2\
mostri scatenati {Scooby Doo 2: Monsters
Unleashed, Raja Gosnell, 2004). E, più
indietro, ancora La mummia {The
Mummy, Stephen Sommers, 1999), La
mummia: il ritorno {The Mummy Re-
turns , Stephen Sommers, 2001), Star-
SOTTO ANALISI
34 gate (Roland Emmerich, 1994), lo
stesso Jurassic Park. Per non parlare di
film precedenti che contengono se¬
quenze girate proprio nello stesso Mu¬
seo di storia naturale di New York, co¬
me Men in Black II (Barry Sonnenfeld,
2002) e Scoprendo Forrester (Finding
Forrester, Gus Van Sant, 2000). Si trat¬
ta indubbiamente di una presenza
simbolica, che testimonia l’ossessione
di un contatto diretto con il Passato,
ma anche di una sua radicale rielabo¬
razione.
La suggestiva descrizione di Alberto
Abruzzese potrebbe valere anche per
Una notte al museo , a patto di apportare
alcune modifiche. Nel film di Levy, in¬
fatti, non esiste alcuna istanza irrazio¬
nale esterna deputata a sconquassare la
secolare immutabilità del sapere mu¬
seale. L’incantesimo che vivifica le at¬
trazioni proviene dall’interno, per la
precisione dalla sezione egizia, in cui si
trova il magico amuleto del faraone
Ahkmenrah. Non è più necessario nes¬
sun dualismo Batman-Joker, nessuna
contrapposizione bipolare tra Raziona¬
lità ed Emotività, tra Ordine e Caos.
Ormai anche le istituzioni tradizionali
incaricate di trasmettere la conoscenza
sono connaturalmente e ontologica¬
mente postmoderne, non possono che
fondersi e scombinarsi in maniera di¬
sordinata, senza il minimo criterio cro¬
nologico o filologico. Joker poteva an¬
cora incutere paura, le bestie virtuali di
Una notte al museo ormai fanno solo
sorridere e divertire i bambini.
Del resto, si tratta di una trasformazio¬
ne che stanno subendo anche gli enti
museali reali, soprattutto negli Stati
Uniti d’America, dove vige una gestio¬
ne di tipo privato votata al profitto.
Nati come organizzazioni il cui
scopo era quello di salvaguar¬
dare la cultura e tramandare le
conoscenze di una società, [i
musei] hanno via via assunto
funzioni sempre più ampie.
[...] Al ruolo istituzionale va
affiancandosi con sempre mag¬
giore forza la concezione del
museo come impresa che offre
un prodotto sia culturale sia di
intrattenimento. Questa nuova
concezione fa del museo una
istituzione che si trova a con¬
correre su nuovi mercati con
aziende e prodotti che operano
nel campo dell 'entertainment e
del tempo Ùbero 27 .
Ciò vale in primis per l’American Mu-
seum of Naturai History di New York,
che è riuscito a risanare il suo deficit
economico proprio grazie alla pubblicità
del film di Levy, in un perfetto cortocir¬
cuito che sovrappone inesorabilmente
l’effetto mediatico all’efFetto reale.
Mentre il museo come istituzione sto¬
rica aveva l’obiettivo di classificare e
contestuafizzare il sapere (e lo faceva
in una certa misura anche la vecchia
Hollywood intrattenitrice, mescolan¬
do però Storia a Mito), il nuovo parco
giochi high teck descritto dal film di
Levy fa dell’ibridazione e della fusione
degli opposti non razionalizzata né
mediata la sua ragion d’essere. E que¬
sto è ormai l’unico modo per intratte¬
nere i giovani visitatori (e spettatori):
adottare il loro linguaggio e i loro pro¬
cessi cognitivi. Da una parte sviluppa¬
re un approccio ludico, interattivo, im-
mersivo, mutuato dai nuovi media di¬
gitali. Dall’altra far propria una conce¬
zione epistemologica fondata sulla
presentificazione del tempo.
Per Jameson, “il postmoderno can¬
cella la storia”. Nasce, cioè, da un
radicale indebolimento della no¬
zione di storicità e si dispiega in
una dimensione sincronica più che
diacronica. Le categorie moderne
della temporalità, della memoria e
della durata subiscono un brusco
declino a favore di un emergere di
un eterno presente che - come ha
scritto Remo Ceserani - “cancella
dall’attenzione del soggetto il pas¬
sato storico e il futuro, sia nella sua
forma utopica sia in quella apoca¬
littica e catastrofica”. Il passato di¬
venta così un grande serbatoio di
immagini da ripescare di volta in
volta con un atteggiamento no¬
stalgico o ludico 28 .
Conclusioni. Fine della Storia
In questa sede non è possibile spinger¬
si oltre nell’indagare il concetto post¬
moderno di “fine della Storia” e le sue
conseguenze nel campo del cinema
americano 29 . L’interesse di quest'anali¬
si era semplicemente di focalizzarsi su
un case study rappresentativo non per la
sua eccezionalità - a riguardo avevano
già detto di più e meglio alcuni film-
manifesto come Jurassic Park e Jumanji
(Joe Johnston, 1995) —, ma proprio per
il suo carattere ordinario, che implica
ormai una assimilazione e routinizza-
zione di temi e stili riconducibili alla
postmodernità anche nelle produzioni
di Hollywood meno esemplari e signi¬
ficative.
Mi sono incentrato principalmente su
due aspetti che, a mio parere, emergo¬
no in Una notte al museo con maggior
evidenza e forza: da una parte la di¬
mensione metahnguistica e riflessiva,
dall’altra la concezione del divenire
storico non come traiettoria progressi¬
va e lineare, bensì come amalgama adi¬
mensionale e anacronica.
Ma si sarebbe potuto indagare con
maggiore attenzione altri tratti carat¬
teristici del blockbuster postmoderno,
presenti ugualmente nel film di Shawn
Levy. Si pensi, ad esempio, alla perdita
di una narratività forte, di quella coe¬
renza e coesione dell’intreccio che era
tipica del cinema classico 30 . La presen¬
za di una narrazione debole, frammen¬
tata e “modulare”, su cui prevale un ap¬
proccio più emotivo e immersivo, è
strettamente connessa con l’emulazio¬
ne dello stile dei new media oggi più in
voga, dalle attrazioni interattive dei
parchi a tema, ai videogiochi.
Più che all’American Museum of Na¬
turai History di New York, il film di
Levy sembra ambientato a Di-
sneyworld, o in un analogo theme park
ad alta tecnologia, ricolmo di amma¬
ttonici e dispositivi di realtà virtua¬
le 32 . Ma forse i confini tra musei e par¬
chi di divertimento si stanno assotti¬
gliando anche nel mondo reale, e Una
notte al museo rappresenta piuttosto
uno specchio fedele delle trasforma¬
zioni in seno all ’edutainment (america¬
no e non solo).
Per quanto riguarda l’assimilazione di
aspetti formali e tematici provenienti
dall’estetica del videogame, si è già ac¬
cennato in precedenza allo statuto del
personaggio interpretato da Ben Stil-
ler, più simile a un avatar virtuale che
agisce in base al principio cibernetico
di azione e reazione, input e output,
piuttosto che a un round character dal¬
la complessità narrativa.
Si pensi, ancora, alla componente in¬
tertestuale e intermediale, al citazioni-
smo 33 , all’approccio prettamente ludi¬
co e infantile, all’evocazione del magi¬
co e del meraviglioso: tutti caratteri ri¬
correnti del blockbuster contempora¬
neo, che non mancano naturalmente
nel film di Levy.
Una notte al museo
Magari Una notte al museo si limita
semplicemente ad assorbire acritica¬
mente e “per contagio” istanze teoriche
ed estetiche che ormai da decenni cir¬
colano nell’aria. Magari le ingloba
esternamente, senza rielaborarle e svi¬
lupparle nel senso della profondità.
Ma anche questo è postmoderno: le
trasformazioni e gli sconvolgimenti, a
volte, intaccano solo la bolla superfi¬
ciale dell’immaginario.
Dite, però: cosa c’è di più sconvolgen¬
te per il nostro immaginario storico di
un cowboy e un soldato dell’antica Ro¬
ma che corrono insieme su un’auto
sportiva 34 , inseguiti da un dinosauro,
da un’orda di cavernicoli e dall’esercito
unno di Attila?
Roberto Castrogiovanni
SOTTO ANALISI
Note
Il presente saggio' è stato selezionato alla 27“ edi¬
zione del Premio Adelio Ferrerò 2007.
1. Gianni Canova, L'alieno e ilpipistrello, Milano,
Bompiani, 2000, p. 5.
2. Ibidem, p. 15.
3. Omar Calabrese, L’età neobarocca , Bari, Laterza,
1987.
4. Gianni Vattimo, La società trasparente , Milano,
Garzanti, 1989.
5. G. Canova, op. cit., pp. 9-13.
6. Jean-Francis Lyotard, La condizione postmo¬
derna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli,
1981.
7. Fredric Jameson, Il postmoderno o la logica cultu¬
rale del tardo capitalismo , Milano, Garzanti, 1989.
8. Alberto Negri, Ludici disincanti. Forme e strate¬
gie del cinema postmoderno, Roma, Bulzoni, 1996.
9. G. Canova, op. cit.
10. Laurent Jullier, Il cinema postmoderno, Torino,
Kaplan, 2006.
11. Vincenzo Buccheri, Sguardi sul postmoderno: il
cinema contemporaneo , Milano, ISU, 2000.
12. Lo spunto per questa riflessione è nato da una
chiacchierata con Lorenzo Nacci (http://murda-
moviez.blogspot.com), che desidero ringraziare.
13. “La destruction n’a aujourd’hui plus rien d’eu-
phorique. Le dino poursouit ici toute la nuit une
voiture téléguidée et, à l’aube, regagne gentiment
sa niche. Le numérique a tallement retiré la joie
du mouvement aux acteurs qu’on ne leur offre ici
que de piteuses reconversions”. Antoine Thirion,
“La Nuit au musée”, Cahiers du Cinema, n. 620,
2007, p. 62.
14. “Despite all thè computer effects on display,
Night at thè Museum is practically a museum place
itself, as antiquated as thè presence of Dick Van
Dyke and Mickey Rooney in thè cast would sug-
gest”. Cfr. Andrew Osmond, “Night at thè Muse¬
um”, Sight & Sound , n. 3,2007, p. 66.
15. Alessandro Bertani, “Una notte al museo”, Ci-
neforum , n.426, marzo 2007, p. 76.
16. Paolo D’Agostini, “Una notte al museo”, La
Repubblica , 2 febbraio 2007.
17. Paolo Mereghetti, “Una notte al museo”, Il
Corriere della Sera , 2 febbraio 2007.
18. E chiaro che in questa sede si fa riferimento ai
concetti di autoriflessività e metalinguismo in
maniera radicalmente diversa dalle accezioni im¬
piegate per interpretare la cinematografìa moder¬
na (e soprattutto la Nouvelle Vague). Nel cinema
postmoderno la dimensione metacinematografica
è del tutto esente da implicazioni di destruttura¬
zione narrativa e di denuncia ideologica.
19. Che, fra l’altro, rimanda intertestualmente in
maniera esplicita a un classico del blockbuster con¬
temporaneo, Rapa Nui (Kevin Reynolds, 1994).
20. Va da sé che il numero di citazioni e riferi¬
menti più o meno diretti vada ben oltre quelli che
si è riusciti a elencare in questa pagina. Per fare
solo un altro esempio, ad un certo punto il prota¬
gonista ascolta il tema musicale di Rocky (John G.
Avildsen, 1976).
21. Cfr. Justin Wyatt, High Concept: Movies and
Marketing in Hollywood.\ Austin, University of
Texas Press, 1994.
22. A. Negri, op. cit p. 27, parla di "metaudiovisi-
vo”, “perché ad essere coinvolto nella riflessione
meta non è solo il cinema, ma i media in genera¬
le”. In questo caso si potrebbe parlare di “metavi-
deoludico”.
23. Bertani Alessandro, “Una notte al museo”, Ci-
neforum, n. 426, marzo 2007, p. 76.
24. Alberto Abruzzese, L'occhio di Joker: cinema e
modernità , Roma, Carocci, 2006, p. 13.
25. Ivi.
26. Usando la parola chiave “museum”: http://ita-
lian.imdb.com/keyword/museum/?sort=date.
27. Carlo Amenta, “I siti internet dei musei.
Un’applicazione della teoria multidimensionale
della comunicazione”, in Stefano Martelli (a cu¬
ra), Comunicazione multidimensionale: i siti inter¬
net di istituzioni pubbliche e imprese , Milano, Fran¬
co Angeli, 2002.
28. G. Canova, op. cit., p. 12. Il testo citato è trat¬
to da: Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno,
Torino, Bollati Boringhieri, 1997.
29. A riguardo cfr. Fadda Michele, “Inside and
Outside of History(ies): ‘ritorno ostinato delle
non-immagini?”, in Franco La Polla (a cura), The
Body Vanishes. La crisi dell'identità e del soggetto nel
cinema americano contemporaneo, Torino, Lindau,
2000. Cfr. anche Franco La Polla, “Storia e fanta-
storia: la diversità americana” e “Fiction e realtà
storica al cinema, ovvero: guardiamo la tv”, in Id.,
L'età dell'occhio, Torino, 1999.
30. Cfr. David Bordwell, Janet Staiger, Kristin
Thompson, The Classical Hollywood Cinema: Film
Style & Mode of Production to 1960, London,
Routledge, 1988.
31. L 'animatronics è un “sofisticato congegno co¬
mandato elettronicamente che simula i movi¬
menti di un essere umano, di un animale o di una
qualsiasi creatura ideata dai maestri degli effetti
speciali”. Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Glos-
sario_cinematografìco#A.
32. Sui blockbuster come parchi di divertimento
cfr. Geoff King, “Ride-films and fìlms as rides in
thè contemporary Hollywood cinema of attrac-
tions”, CineAction, n. 51,2000, pp.2-9.
33. Fra l’altro, secondo Negri, anche l’impiego
della citazione concorre a una “presentificazione
dell’immaginario collettivo”. “Il reperto del passa¬
to viene attualizzato in un presente astorico. La
dimensione dello spostamento provoca un allon¬
tanamento dal passato e paradossalmente deter¬
mina una deriva della storia”.
A. Negri, op. cit., p. 89.
34. Sequenza che, fra l’altro, rimanda intertestual¬
mente allo Starsky & Hutch (Todd Phillips,
2004) della premiata coppia Stiller-Wilson.
Chi si vuole conservare si perde.
Tempo e spazio barocco nel ci¬
nema di Max Ophuls
Il barocco è un’arte del movimen¬
to e, di conseguenza, un’arte del
momento, dell’istante colto nella
sua instabilità transitoria, un’arte
già “cinematica” che postula il fat¬
tore temporale [...].
Jean Rousset 1
Superficiale sì, ma solo in superfìcie.
da Madame de...
Il nome di Max Ophuls è stato da
sempre inserito, accanto a quello di ci¬
neasti quali Sternberg, Welles, Wajda
e finanche di Kubrick, all’interno di
una speciale sezione dedicata ai registi
definiti “barocchi”.
Un’appartenenza che Ophuls non ha
mai negato del tutto, pur esprimendo
un certo scetticismo in merito duran¬
te una nota intervista con Rivette e
Truffaut: “Per me, ‘barocco’ significa
un’epoca in architettura, di cui mi è
difficile dire quando inizia o finisce
[...]. Ma non so esattamente cosa vo¬
glia dire quando viene usato per i
film”, e poi aggiunge, in seguito alle
sollecitazioni dei suoi interlocutori:
“sarebbe anche un complimento... un
complimento che mi fa anche un po’
paura!” 2 .
In effetti, “La parola ‘barocco’, oltre
indicare un preciso momento della
storia delle arti, si configura come un
termine passe-partouf e risulta co¬
stantemente applicata “a tutto ciò che
eccede, che sfugge alla regola, e che,
attraverso questo scarto, provoca stu¬
pore” 3 . Anche ogni riferimento ad un
preteso barocco cinematografico non
è esente da contraddizioni definitorie
che altro non fanno che rendere com¬
plessa ogni riflessione in proposito.
Nell’ampia letteratura relativa al ba¬
rocco, non manca chi come Eugenio
D’Ors 4 ha individuato in tale caratte¬
re una costante presente in tutta la ci¬
viltà occidentale, sin dai greci, o chi,
come Panofsky, propone con forza di
parlare di barocco solo per le manife¬
stazioni estetiche e sociali del XVII
secolo 5 . Pur tuttavia, una serie notevo¬
le di riflessioni si sono concentrate sul
barocco individuando in esso un ele¬
mento moderno per antonomasia,
rintracciabile tanto in arte quanto in
letteratura: José Antonio Maravall
scrisse chiaramente che “occorre rico¬
noscere nel barocco le origini della
modernità” 6 . E Walter Benjamin ha
posto in relazione barocco e letteratu¬
ra novecentesca nel suo II dramma ba¬
rocco tedesco , scrivendo: “in nessun pe¬
riodo [...] il sentimento artistico è
stato tanto vicino alla letteratura ba¬
rocca del diciassettesimo secolo, tutta
intenta alla ricerca di un suo stile,
quanto il sentimento artistico dei gior¬
ni nostri” 7 .
Tornando ad Ophuls, Truffaut “esclu¬
se che la componente barocca del suo
stile (stigma assai frequentato dalla
critica) fosse il puro e semplice virtuo¬
sismo di un cineasta decorativo” 8 , e in
maniera altrettanto pertinente, Gior¬
gio Tinazzi si domanda: “Ophuls au¬
tore barocco? Tutto il formulario criti¬
co che si è usato ha quasi sempre di¬
mostrato la sua esilità; occorre pertan¬
to uscire dalla generalità di tale defini¬
zione, cominciando con l’analizzare le
ragioni di quella originale messa in
scena dello spazio che è la caratteristi¬
ca primaria del cinema ophulsiano” 9 . È
quello che tenteremo di fare, mostran¬
do quanto lo spazio dei film di Ophuls
sia diretta emanazione del tempo, vera
figura chiave dell’universo del cineasta,
nonché elemento centrale del pensiero
sul barocco. Ed è proprio a molta ri¬
flessione teorica sul barocco e sulla sua
temporalità - in particolare nella “de¬
clinazione” benjaminiana 10 - che ri¬
condurremo riferimenti legati al cine¬
ma ophulsiano, notando come i tratti
di pertinenza vadano ben al di là della
semplice vulgata cui spesso molta cri¬
tica si è stancamente rifatta.
E stato notato come “Gran parte della
filmografia di Ophuls è legata al pas¬
sato già come ossessione dei suoi si¬
gnificanti feticizzabili [...]. Lo statuto
della memoria e del ricordo informa e
sostiene comunque la sua messa in
scena, anche quando di ricordo o di
memoria in senso stretto non si trat¬
ta” 11 . La complessa concezione tempo¬
rale nei film ophulsiani ha spinto De¬
leuze ad affermare che “Le immagini
di Ophuls sono dei cristalli perfetti” 12 ,
evidenziando la loro capacità di rende¬
re indiscernibile presente e passato,
reale e immaginario, attuale e virtuale.
Il filosofo ha esplicitato: “l’immagine
attuale e l’immagine virtuale coesisto¬
no e si cristallizzano, entrano in un cir¬
cuito che ci riporta costantemente dal-
l’una all’alta, formano una sola e stessa
‘scena’ in cui i personaggi appartengo¬
no al reale e tuttavia recitano un ruolo.
Tutto il reale insomma, la vita interio¬
re, è diventata spettacolo” 13 .
Così, l’immagine del suo cinema si dà
in una scena imperfettamente presen¬
te 14 , in quanto il suo concetto di tem¬
po non è affatto cronologico e sequen¬
ziale. Lo spazio labirintico, curvo, che
ricade su se stesso, è il segno della
“pazzia del mondo” teorizzata dal ba¬
rocco, della crisi, della rottura di ogni
pretesa armonia classica. Il presuppo¬
sto dell’armonia e della classicità è una
vettorialità spazio-temporale: ma nei
film di Ophuls non esiste alcuna vet-
SOTTO ANALISI
36
Igioielli di Madame de...
tonalità. Infatti, come vedremo, il tem¬
po nel suo cinema è strettamente de-
leuziano, un tempo non più cronologi¬
co bensì cronico. Deleuze, che nella
rappresentazione diretta del tempo ri¬
leva il segno del cinema moderno, si
domanda: “Cosa si vede nel cristallo
perfetto? Il tempo, ma che si è già ar¬
rotolato, arrotondato, mentre si scin¬
deva” 15 .
La compresenza dei tempi è chiara in
tutto il cinema di Ophuls, come de¬
nuncia una battuta pronunciata dal
meneur de jeu de La Ronde (1950):
“Siamo nel passato. Io adoro il passato,
è tanto più riposante del presente e
tanto più sicuro dell’avvenire”.
In questa frase, il riferimento alla di¬
mensione temporale del già trascorso
potrebbe apparire in contraddizione
con il principio della compresenza
temporale. È vero, il meneur de jeu
prende in considerazione un solo
aspetto del tempo, il passato, appunto,
ma si tratta di un passato concepito
come dimensione “bloccata”, “cristal¬
lizzata”, dunque non collocata in una
vettorialità, non posta all’interno di un
divenire temporale. Il passato è pre¬
sente e viceversa: le due dimensioni
hanno lo stesso valore 16 . Il film ophul-
siano che forse più di ogni altro postu¬
la la nozione di tempo “bloccato” (so¬
prattutto a livello diegetico) è Letter
from an Unknown Woman (Lettera da
una sconosciuta, 1949): qui Lisa, la pro¬
tagonista, è come se vivesse un eterno
presente, anche se già adulta è come se
fosse sempre adolescente; e lo stesso
dicasi di Stefan, l’uomo da lei amato, il
quale arriva ad affermare: “Per quanto
mi riguarda tutti gli orologi sono fer¬
mi”. Si può sostenere che in quest’ope¬
ra “è reale e presente il flash del passa¬
to e che le immagini di Stefan, adesso-
qui, sono invece ‘passato’, o quanto
meno appaiono come sospese nel tem¬
po, fuori da ogni registro cronologico.
Non a caso Stefan non si accorge del
tempo che passa” 17 .
Ovviamente, una delle figure relative
al trattamento temporale da sempre
elevate a stilemi chiave dell’opera
ophulsiana è il flash-back. I suoi film ne
sono apparentemente pieni, ma in
realtà dubitiamo si possa correttamen¬
te parlare di flash-back. Affrontando
Lola Montès (1955), Philip Colin con¬
stata che essi:
non sono delle semplici negazioni
del presente, non essendo il pre¬
sente stesso che un episodio in più
che collega Lola al suo passato, co¬
me le linee collegano gli uni agli
altri i punti di una fuga geometri¬
ca complessa, una stella dalle in¬
numerevoli punte, un cristallo di
brina tendente al cerchio, che è
proprio la figura madre del lin¬
guaggio ophulsiano. Questa gravi¬
tazione insieme centrifuga e cen¬
tripeta dei personaggi e degli avve¬
nimenti in rapporto all’eroina tro¬
va la sua espressione fìsica ideale a
ogni stadio della messa in scena 18 .
Ha scritto Deleuze:
Lola Montès, basterebbe questo
film a confermare, se fosse neces¬
sario, a qual punto il flash-back sia
un procedimento secondario, vali¬
do solo al servizio di un modo di
procedere più profondo. Quel che
conta infatti non è il legame tra
l’attuale e miserabile presente (il
circo) e l’immagine-ricordo di an¬
tichi, magnifici presenti. L’evoca¬
zione esiste, certo; ciò che rivela,
più in profondità, è lo sdoppia¬
mento del tempo, che fa passare
tutti i presenti e li fa tendere verso
il circo come verso il loro avvenire,
ma che conserva anche tutti i pas¬
sati e li mette nel circo come al¬
trettante immagini virtuali o ricor¬
di puri. La stessa Lola Montès
prova la vertigine di questo sdop¬
piamento quando, ebbra e febbri-
citante, sta per gettarsi dall’alto del
tendone neEa minuscola rete che
l’aspetta in basso 19 .
I flash-back, dunque, perdono la loro
connotazione abituale, che consiste nel
presentare tempo passato connetten¬
dolo ad un presente di cui siamo con¬
sapevoli. In Ophuls il flash-back, o quel
che ne resta, è la dilazione di una serie
infinita di istanti presenti, la cui coEo-
cazione sulla tavola del tempo lineare
non ha posizione certa. Lo stesso con¬
cetto di presente tende a scomparire: è
il tempo in sé e per sé che consuma lo
spazio attraverso una rappresentazione
che lo svela nella sua purezza e, in fon¬
do, nel suo cannibalismo.
Ha scritto Tinazzi:
Ophuls arriva a radicalizzare que¬
sto tema dell’irrecuperabilità del
tempo, fino a fare un film ( Lola
Montès ) sulla messa in scena del ri¬
cordo, dove - come dice lo scudie¬
ro - storia e invenzione si mesco¬
lano. Accanto al ricordo c’è perciò
la perdita, la vita non ricomincia
più, afferma Evelyne in Sans lende-
main, Tutto finisce all’alba, 1939; e
la lettera della sconosciuta giun¬
gerà a destinazione solo a morte
avvenuta 20 .
I personaggi ophulsiani cercano in
ogni modo (e con loro E regista me¬
diante la messa in scena) di inseguire E
tempo, nel tentativo di “conservarsi”.
Un tentativo vano, in quanto E tempo è
inattingibEe in quanto irrecuperabEe.
Secondo l’estetica barocca, il tentativo
di recuperare il tempo, di esorcizzare
l’ossessione del vuoto, passa attraverso
E riempimento deEo spazio. Anche nei
film di Ophuls assistiamo ad un riem¬
pimento eccessivo deEa scena: gli og¬
getti si moltiplicano, gli orpelli satura¬
no stanze di palazzi e strade di città
interamente costruite in studio. In Le
Plaisir [Ilpiacere, 1952), per esempio,
“il décor del teatro è il trionfo deE’ap-
parenza euforica e delirante (lampadi¬
ne dappertutto, disegni déco smeriglia¬
ti su vetrate, bizzarre aperture ovoidali
neEe balaustre, luccichii cangianti del¬
le pietrine che rivestono le colonne...
E tutto volentieri sbEanciato da inqua¬
drature oblique)” 21 . E l’intero Madame
de... (1953), che ruota intorno a mo¬
nili di ogni sorta - si pensi agli orec¬
chini che rappresentano il leitmotiv
narrativo, i quali altro non sono che E
corrispettivo del proliferare degli ag¬
gettivi tipico del barocco, di quei “frut¬
ti deEa terra”, per dirla con Benjamin 22
- è un mondo fatto di apparenze, un
mondo di superfici, come testimonia il
personaggio di Louise, frivola e super¬
ficiale, per l’appunto. E la superficialità
deU’effimero, deH’epidermico, che de¬
nuncia E conflitto di una realtà inat¬
tingibEe, provvisoria. Non è certo ca¬
suale che Ophuls scelga sovente come
ambito deU’azione gli spazi dedicati
aEo spettacolo, come teatri, cabaret, sa¬
le da baHo (è una opzione che il cinea¬
sta persegue sin dai suoi inizi, si pensi
a Die verkaufte Braut [La sposa vendu¬
ta, 1932), tratto daH’opera di Smetana,
che è un melodramma musicale con
attori girovaghi). Egli, che ha ricono¬
sciuto in acrobati e clown i maestri del
suo mestiere, non solo presenta E cine¬
ma sotto forma di metaspettacolo, ma
più in generale sottolinea quanto il
luogo deEo spettacolo sia per antono¬
masia il luogo del provvisorio.
Il senso deE’accumulo succitato non è
solo visivo, ma anche sonoro: infatti, è
riscontrabEe anche neEe ripetizioni,
negH echi deEa colonna sonora, intesa
sia come colonna musicale, sia come
parlato e rumore (e ancora una volta
Lola Montès ecceEe in questa direzio¬
ne). La ripetizione, sia essa visiva o
uditiva, sancisce E vuoto: si veda in
questo senso l’intero Letter from an
Unknown Woman. Qui Lisa riprende E
filo deEa sua intera esistenza, evocata
daEa lettera inviata a Stefan. La donna
toma sui luoghi dei suoi trascorsi (per
esempio, Lisa adolescente si reca, poco
prima deEa partenza che la porterà via
da Vienna per molto tempo, suEe stes¬
se scale in cui ha visto per la prima vol¬
ta l’amato), e la celebre sequenza am¬
bientata al luna park è interamente
dominata daEa figura deEa ripetizione.
I due protagonisti, infatti, salgono a
bordo di un fìnto vagone ferroviario,
sui quaE finestrini scorrono le imma¬
gini di luoghi turistici famosi ripro¬
dotti grossolanamente. Terminato il
primo “giro”, ne domandano un altro e
un altro ancora: iterazione e iEusione
che presagiscono E nuEa a venire.
Madame de... presenta due segmenti
costituiti interamente daEa riproposi¬
zione del medesimo atto: neEa gioiel¬
leria dove Madame de... vende i suoi
orecchini, E giovane garzone di botte¬
ga ripete più volte il movimento di di¬
scesa e salita deEa scala che conduce
daE’ufficio del proprietario al piano di
sotto e aE’uscita. Più avanti, E genera¬
le André de..., neEa ricerca degH orec¬
chini che la moglie finge di aver per¬
duti, si sposta continuamente da un
palco aE’altro deE’Opera, in un movi¬
mento iterato e a vuoto. Ne La Ronde,
E segmento di raccordo tra gli episodi
è spesso rappresentato dal meneur de
jeu che fa ruotare una giostra su cui si
avvicendano i protagonisti (“Je méne
la ronde”, dice aE’inizio): Benjamin, in
SOTTO ANALISI
Le Plaisir
barocco: la melanconia (su cui si sof- 37
ferma diffusamente anche Benja¬
min) 34 . L’immenso amore per la vita e
la percezione dell’incapacità di essere
“in tempo”, si declina in una melanco¬
nia che, per usare le parole di
Berthomé “si nutre della morte per
condurre un incitamento a vivere più
intensamente” 35 . Si pensi, in questo
senso, ad un intero film come Sans len-
demain.
Il barocco, nel momento in cui nega la
morte, afferma la sua ineluttabilità.
Morte che aleggia ovunque nel cinema
di Ophuls, e che si riconnette fatal¬
mente al problema della concezione
temporale: “La morte è [...] l’immagi¬
ne cristallo virtuale e mai attuale (tem¬
po infìlmabile perché sempre in fuga,
sempre scisso), è il passato del presen¬
te, è il presente reso opaco dalla virtua¬
lità di una morte che verrà o che è già
venuta, è l’inizio che contiene già la
sua fine” 36 . Quest’affermazione è la
sintesi perfetta non solo di Letterfrom
an Unknown Woman (del cui “tempo
bloccato” abbiamo detto in preceden¬
za), ma di tutto il senso dell’opera
ophulsiana.
Quando Lisa dichiara: “Ora so che
mai niente accade per caso. Ogni
istante ha il suo peso, fino a che anche
la morte appartiene al passato” non
esprime solo la sua opinione e la sua
condizione, ma anche quella di tutti i
personaggi di Ophuls.
Infanzia berlinese , curiosamente evoca
proprio la giostra quale figura mitica
della ripetizione.
Ancora, nei film di Ophuls la ripeti¬
zione segna l’ineluttabilità degli even¬
ti: è il caso del doppio matrimonio in
La Tenére ennemie {La nostra compa¬
gna, 1936); delle storie che si specchia¬
no l’una nell’altra in Liebelei {Amanti
folli, 1932); nonché, nel terzo episodio
de Le Plaisir (intitolato La Mod'ele ),
della scala che vede il primo incontro
dei due protagonisti, e che si ritrova
anche pochi istanti prima del tentato
suicidio della giovane modella 23 .
Tutto nel cinema di Ophuls, come nella
migliore tradizione barocca, tende a co¬
prire, a celare non solo lo spazio vuoto,
ma anche il tempo che appare morto. Il
regista lo fa mediante il ricorso continuo
a cerimonie, riti, come il caso dei duelli di
Liebelei, de La signora di tutti (1934), e di
Letterfrom an Unknovm Womam tutto al
fine di celare l’immanente senso del
provvisorio.
La questione della ripetizione si colle¬
ga direttamente - anzi, si integra - con
il tema del movimento.
Benjamin notò come l’arte barocca
tenda alla “ricerca di uno stile estrema-
mente elaborato nel linguaggio, di uno
stile atto a farlo apparire all’altezza del
tumulto degli eventi del mondo” 24 e
come il dramma barocco si svolga nel
continuum dello spazio.
Ophuls dichiarò: “Un spectacle... pour
mòi c’est le mouvement!” 25 . Afferma¬
zione confermata da quella di Lola
Montès, secondo la quale “la vita è il
movimento”. Significativamente, nel
suo “Baroque et esthétique du mouve¬
ment” 26 Marcel Brion, esponendo i
nodi estetici del pensiero barocco, in¬
dividua proprio nel movimento il
principio stesso della vita: da qui l’i¬
narrestabile mobilità dell’architettura
barocca, che trasporta lo spettatore al
suo interno e lo coinvolge. Nei film di
Ophuls assistiamo ad una vera osses¬
sione del movimento: “Il piano fisso
gli doveva sembrare distante dalla vita,
da una realtà sempre increspata e im¬
prendibile” 27 . Tutto il suo cinema sem¬
bra potersi allegorizzare nelle sequen¬
ze dei balli che affollano i suoi film sin
da Liebelei, La signora di tutti e Werther
(1938), fino a giungere ai valzer senza
fine di Madame de..., valzer nei quali
l’osservatore si trova visivamente coin¬
volto e partecipe di quel “tumulto” cui
si riferiva anche Benjamin.
Ma il movimento, come il tentativo
stesso di riempire lo spazio, è destina¬
to allo scacco, in quanto tenta di con¬
durre ad una razionalizzazione impos¬
sibile. Ha scritto Fornara: “È nel pe¬
renne movimento che sta per Ophuls
la verità di una condizione umana fra¬
gile e fatalmente destinata a una con¬
clusione tragica” 28 .
Anche una sola sequenza de Le Plaisir
mostra quanto detto. Si tratta del pas¬
saggio in cui un personaggio parte alla
ricerca del medico per soccorrere la
masque (protagonista del primo e
omonimo segmento del film): i suoi
movimenti all’interno del Palais de la
Danse, lunghi e articolati, seguiti con
evoluzioni complesse della macchina
da presa (per le quali Noèl Burch ha
parlato di “arabeschi febbrili e arbitra¬
ri”) 29 , finiscono per annullarsi trovan¬
dosi in definitiva al punto di parten¬
za 30 . Più in generale, è l’intero Le Plai¬
sir a confermare come ogni movimen¬
to risulti prostrato. La ronde ophulsia¬
na mette in scena, attraverso il percor¬
so circolare, la forza del movimento il¬
lusionistico: è il caso de la masque che
si copre il viso con un mascherone di
cera ogni sera per lanciarsi in sfrenati
baili nel tentativo di esorcizzare la vec¬
chiaia. Ancora una volta, dunque, un
personaggio che tenta di conservarsi.
In questa direzione, tutti gli atti, i ten¬
tativi di ricostruzione delle loro vicen¬
de da parte dei protagonisti ophulsia-
ni sono prostrati e prostranti per defi¬
nizione. La circolarità del loro agire
(la macchina da presa gira in tondo,
circolarmente, allegorizzando visiva¬
mente l’obbligo della coazione a ripe¬
tere, e non a caso si è individuato nel¬
la forma del cerchio, nonché, in misu¬
ra inferiore, della retta e della spirale,
uno dei motivi ricorrenti in Ophuls:
ne La ronde il meneur dejeu dichiara di
“vedere” en rond), e il conseguente
spostamento della macchina da presa
che li asseconda sono il segno visivo di
una danza di morte 31 che si sviluppa
non solo orizzontalmente (l’uso del
Cinemascope permette di lavorare
proficuamente in questo senso), ma
anche e significativamente in vertica¬
le: il circo, le sue piattaforme sospese,
le scale fatte di corde, i trapezi, rap¬
presentano il tentativo di possedere -
seppur vanamente - in ogni direzione
lo spazio. Se volessimo trovare una
definizione sintetica e ad effetto per
cogliere le dinamiche e la condizione
esistenziale dei personaggi ophulsiani,
forse la seguente può essere efficace:
non è il tempo a non bastare loro, sono
loro a non bastare al tempo.
Quanto afferma Lisa in Letterfrom an
Unknown Woman : “Ho molto da dirti,
e, forse, troppo poco tempo”, è da ro¬
vesciarsi nel senso da noi indicato: è
lei a non essere sufficiente, non il tem¬
po. È lei “in difetto”, in costante “ri¬
tardo”. Significativamente, in tutto il
cinema di Ophuls ricorrono battute in
tale direzione. In Sans lendemain,
Evelyne esordisce dicendo: “Mi sento
mancare”, e in effetti, “sembra, già
dalla sua prima apparizione, una mor¬
ta in vita” 32 , e lo stesso si può dire an¬
che di Lola Montès. Ha ragione
Claude Beylie, quando afferma che
“per gli effimeri amanti de La Ronde è
sempre troppo presto o troppo tar¬
di” 33 . In effetti, i personaggi ophulsia¬
ni sono sempre in una situazione di
décalage temporale. In Werther, per
esempio, assistiamo ad un dialogo
estremamente esemplificativo: duran¬
te la sequenza del “gioco della cucca¬
gna” nella taverna del paese, Werther e
Charlotte restano soli in una stanza
adiacente alla sala principale del loca¬
le. La gente in sala conterà sino a die¬
ci, nel frattempo, loro potranno ba¬
ciarsi (è questo lo scopo del “gioco”).
Trascorsi i dieci secondi, i due non si
sono quasi avvicinati l’uno all’altra.
Dunque, Charlotte esclama: “Troppo
tardi...”, e Werther, stupendola, di¬
chiara: “Neanche se fossero arrivati a
venti vi avrei baciata...”. Allorché lei
domanda: “Perché?”. “Troppo pre¬
sto...”, ribatte l’uomo, concludendo il
dialogo e la sequenza.
Questa costante del décalage fi con¬
danna ad un altro tratto tipicamente
Il concetto di tempo non cronologico,
la conseguente organizzazione spazia¬
le tendente al riempimento della scena
e al percorrimento della medesima
mediante movimenti lunghi ed elabo¬
rati della macchina da presa; la provvi¬
sorietà esistenziale dei personaggi nel
costatante tentativo di conservarsi,
cercando di fugare l’inellutabilità della
morte. Queste, in estrema sintesi, le
caratteristiche del cinema di ophulsia-
no che abbiamo tentato di segnalare e
di porre in relazione con la “questione
barocca”.
Crediamo di poter affermare, insieme
a Berthomé, che “Barocco, Ophuls lo è
senza dubbio” 37 . E crediamo di aver
mostrato a quale accezione del baroc¬
co sia utile riferirsi per comprendere al
meglio l’opera del cineasta. Un’opera
evidentemente proteiforme (raramen¬
te tale espressione appare così perti¬
nente), in grado di evocare non solo la
propria individuale singolarità, quanto
anche di parlare dell’arte in cui essa si
inscrive. Infatti, ogni film di Ophuls,
apparentemente “superficiale” e fatto
di “apparenze”, parla del cinema tout
court, della sua natura profonda, della
sua essenza: il tempo, lo spazio, il mo¬
vimento. Abbiamo detto con Lola
Montès che “la vita è il movimento”.
L’opera di Ophuls insegna come quel
SOTTO ANALISI
movimento che noi designiamo con
l’espressione “vita” sia in costante dia¬
lettica con il tempo.
“Chi si vuole conservare si perde”,
scrisse Todorov a proposito della lettu¬
ra che Bachtin diede dei personaggi
dostoevskijani 38 : i protagonisti ophul-
siani, nel loro costante peregrinare per
le pieghe temporali, mostrano come
forse, per conservarsi, sia necessario
perdersi.
Claudio Di Minno
Note
Il presente saggio è stato selezionato alla 27 a edi¬
zione del Premio Adelio Ferrerò 2007.
1. Jean Rousset, La Littérature de l'àge baroque en
France, Paris, Corti, 1954; trad. it. La letteratura
dell'età barocca in Francia, Bologna, Il Mulino,
1985, p. 93.
2. Jacques Rivette, Francois Truffaut, “Intervista a
Max Ophuls”, Cabiers du Cinema, n. 72, giugno
1957; trad. it. in Giovanni Spagnoletti (a cura di),
Il cinema di Max Ophuls , Parma, Incontri cinema¬
tografici di Monticelli Terme, 1978, p. 19.
3. Giaime Alonge, “Il monolito e il geroglifico.
Ipotesi per uno studio delle interrelazioni tra ci¬
nema e barocco a partire da 2001: Odissea nello
spazio", in Giulia Cariuccio, Federica Villa (a cu¬
ra di), Il corpo del film. Scritture, contesti, stile, emo¬
zioni, Roma, Carocci, 2006, p. 63.
4. Eugenio D’Ors, Del barocco , Milano, SE, 1999.
5. Erwin Panofsky, Che cos'è il barocco , in Tre saggi
sullo stile. Il barocco, il cinema, la Rolls-Royce, Mila¬
no, Electa, 1996.
6. José Antonio Maravall, La cultura del Barocco.
Analisi di una struttura storica, Bologna, Il Muli¬
no, 1985, p. 156.
7. Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco,To¬
rma, Einaudi, 1971, p. 39.
8. Luciano De Giusti, “Eleganza e malinconia”, in
Luciano De Giusti, Luca Giuliani (a cura di), Il
piacere e il disincanto nel cinema di Max Ophuls ,
Milano-Pordenone, Il Castoro-Lo sguardo dei
maestri, 2003, p. 9.
9. Giorgio Tinazzi, “La ricchezza della superfì¬
cie”, in Id. (a cura di), Dossier Max Ophuls, La Val¬
le dell'Eden , n. 7, maggio-agosto 2001, p. 11.
10. Peter Vòn Bagh definisce enpassant Benjamin
“fratello in filosofìa” di Ophuls. P. Von Bagh, “Le
prigioni del moderno: celebrità, divismo, pubbli¬
cità”, in L. De Giusti, L. Giuliani (a cura di), op.
cit., p. 125.
11. Michele Mancini, Max Ophuls, Firenze, La
Nuova Italia, 1978, p. 12.
12. Gilles Deleuze, L'ìmage-temps, Paris, Les Edi-
tions de Minuit, 1985; trad. it. L'immagine-tempo,
Milano, Ubulibri, 1989, p. 97.
13. Ibidem, p. 98.
14. La felice formula è di Mancini, op. cit, p. 13.
15. G. Deleuze, op. cit., p. 99. Il filosofo riprende,
proprio applicandole ad Ophuls, quelle suggestio¬
ni che svilupperà in Le Pii. Leibniz et le Baroque,
Paris, Les Editions de Minuit, 1988; trad. it. La
piega. Leibniz e il barocco, Torino, Einaudi, 1990,
in cui affermerà: “Il barocco [...] non smette mai
di fare pieghe” (p. 6). Definizione assai pertinente
anche per il cinema ophulsiano.
16. Analogamente e a più riprese, a Benjamin è
stata mossa un’obiezione similare. Ma spiega En¬
rico Guglielminetti: “Non che Benjamin rim¬
pianga il bel tempo andato: presente e passato -
non sono l’uno migliore dell’altro. Il passato fu
anch'esso presente. E come il presente attuale,
quel presente-passato escluse del pari il proprio
passato” (in Walter Benjamin: tempo, ripetizione,
equivocità, Milano, Mursia, 1990, p. 23). Ne La
Ronde il passato assume la stessa funzione che ri¬
troviamo nel présente barocco, in quanto i tempi
vengono concepiti: “come punti che giacciano su
un unico piano, il quale tutti li unisce in un nesso
simultaneo [...]. Il tempo non è più pensabile co¬
me semplice flusso”, e ancora, “Lessenza del ba¬
rocco è la contemporaneità delle sue azioni” {Ibi¬
dem, p. 75 e p. 85).
17. M. Mancini, op. cit., p. 80.
18. Philip Colin, “D’une mise en scène baroque”,
in Baroque et cinema, Etudes cinématographiques, n.
1-2,1960, p. 92.
19. G. Deleuze, op. cit, p. 99.
20. G. Tinazzi, “La ricchezza della superficie”,
cit., p. 13.
21. M. Mancini, op. cit., p. 107.
22. W. Benjamin, op. cit, p. 41.
23. Molti anni prima dell’apparizione di sistema¬
tiche speculazioni sull’argomento Jacques Rivette
notò come i film di Ophuls siano costituiti “dal¬
l’accumulazione di azioni secondarie, di false pi¬
ste, di ripetizioni e di ritardi” ( J. Rivette, “Le Ma-
sque”, Cahiers du cinéma, n. 28, novembre 1953).
24. W. Benjamin, op. cit., pp. 39-40.
25. Citato in Georges Annenkov, Max Ophuls,
Paris, Le Terrain Vague, 1962, p. 17.
26. Contenuto in Baroque et cinéma , Etudes ciné¬
matographiques, cit., p. 60.
27. Bruno Fornara, Geografia del cinema. Viaggi
nella messinscena, Milano, Bur, 2001, p. 184.
28. Ibidem, p. 185.
29. Noèl Burch, Praxis du cinéma, Paris, Galli¬
mard, 1969; trad. it. Prassi del cinema, Parma, Pra¬
tiche, 1980, p. 79.
30. Nelle sequenze ambientate al Palais, il décor e
il movimento sprigionano un’energia destinata a
disperdersi nella sua totale inutilità. Sul tema del¬
lo “spreco barocco”, si veda W. Benjamin, op. cit.,
pp.150-151.
31. Di danse macabre parla Jean-Pierre Berthomé
nel suo Le Plaisir, Paris, Nathan, 1997, pp. 67-70.
32. Silvio Alovisio, “Tutto finisce all’alba. Liturgie
della morte e immagini della fine nel cinema di
Ophuls”, in G. Tinazzi (a cura di), Dossier Max
Ophuls, La Valle dell'Eden, cit., p. 33. Alovisio ha
aggiunto, riprendendo un’espressione di Sartre,
che Evelyne è “il necrologio di se stessa”.
33. Claude Beylie, “De l’amour de l’art à i’art de
l’amour”, L'Avant Scène Cinéma, n. 25, aprile
1963.
34. “La parentela fra lutto e ostentazione, che il
linguaggio barocco attesta in modo così grandio¬
so [...j è uno spettacolo che può certo premiare lo
sguardo attento con la scoperta dei suoi significa¬
ti nascosti, ma il cui infinito ripetersi non fa che
promuovere lo sconsolato dominio di un tempe¬
ramento melanconico” (W. Benjamin, op. cit, p.
67).
35. J.-P. Berthomé, op. cit, p. 97.
36. S. Alovisio, op. cit, p. 36. In una nota apparsa
su France-Soir nel dicembre 1955, Francois Ro¬
che richiama la “logica dei ricordi dei malati in
punto di morte” a proposito del tempo ophulsia¬
no. E un’osservazione pregnante, nonché un’ulte¬
riore conferma che per i personaggi di Ophuls
non può esserci avvenire proprio perché presente
e passato si mescolano in maniera indiscernibile.
37 J.-P. Berthomé, op. cit, p. 93.
38 Tzvetan Todorov, Mikhail Bakhtine. Le princi¬
pe dialogique suivi de Ecrits du Cercle de Bakhtine ,
Paris, Seuil, 1981; trad. it. Michail Bachtin. Il prin¬
cipio dìalogico, Torino, Einaudi, p. 132.
LXIV Mostra Internazionale
d’Arte Cinematografica
Venezia, 29 agosto-10 settembre 2007
Archeologie western a Venezia
Coerentemente con una timida ripresa
d’interesse da parte del mercato (il re¬
make di Quel treno per Yuma ad opera
di James Mangold è uscito poche set¬
timane più tardi), quest’edizione della
: Mostra di Venezia è stata contraddi-
stinta da un’inedita offerta western:
ben: due film in concorso, senza conta¬
re le rassegne dedicate rispettivamente
al western italiano e a cinque capola-
vou della maturità di Budd Boetticher.
Un’offerta assai variegata che del gene-
te western, fantasma che si aggira per
buona parte delle produzioni cinema¬
tografiche contemporanee senza abi¬
tarle esplìcitamente, restituisce un’im¬
magine entusiastica e contraddittoria
•d tempo stesso. Una problematicità:
che si esprime innanzitutto nel rap¬
porto che con il genere intrattengono i
film inediti: da almeno venticinque
attui, è conte se il western si fosse dis-
solto in prodotti che o reinvestono le
sue strutture in altri tipi di contesti e
narrazioni (e stato il caso di Carpenter,
per esempio), oppure utilizzano la sua
iconografìa all’interno di strutture me¬
lodrammatiche (Brokeback Mountain,
Ang: Lee, 2005, Down in thè Valley,
David Jacobson, 2005). In questo con¬
testo realizzare un film esplicitamente
appai tenente al genere significa alme¬
no: in parte compiere un’operazione in¬
tertestuale: se non si sta già effettuan¬
do un remake, si tratta di connettersi
ad una memoria cinematografica stra¬
tificata. Lassassimo di Jesse James per
mano del codardo Robert Ford (The As-
sassìnationof Jesse James by thè Cornard
Robert Ford, Andrew Dominik, 2007),
ad esempio, a fronte di una messa in
Siena pedantemente mimetica nei
confronti della regia di Malick, si ri-
collega invece nella struttura ad un an¬
tecedente ben preciso, Pat Garrett &
BìllyKid{ Sam Peckinpah, 1972). L’in¬
tera vicenda, infatti, è incorniciata tra
un’iniziale sequenza dazione violenta
e l’annunciato omicidio finale, in mez¬
zo ai quali si snocciola un’interminabi¬
le attesa nella quale acquista un’impor¬
tanza maggiore la configurazione pas¬
sionale dei personaggi (nel film di Do¬
minik si tratta dell’inadeguatezza alle
proprie ambizioni e della paura come
motori del tradimento di Ford, nonché
del mal di vivere c dell’angoscia come
cause ddla rassegnazione finale di Ja¬
mes) piuttosto delie sue conseguenze
sul piano dell’azione. Il legame tra i
due film è rafforzato dai comuni pro¬
blemi produttivi, in quanto anche il
film di Dommìk è stato interamente
rimontato dalla produzione: come il
suo modello, che conta tre edizioni
differenti nessuna delle quali rispec¬
chia le effettive intenzioni di Peckin¬
pah, anche questo film sembra tra¬
smettere alla forma l’irresolutezza dei
suoi protagonisti.
Sukiyaki Western Django di Takashi
Miike (come Searchers 2.0 di Alex
Cox, presente nella sezione Orizzonti)
si ricollega invece al western italiano,
che rilegge con la massima astrazione
possibile e sotto il segno dell’ironia: si
tratta di uno pseudo remake-prequel
di Django (Sergio Corbucci, 1966) re¬
citato in inglese da attori nipponici
(persino Tarantino, unico occidentale
in un ruolo minore, parla con accento
orientale) e la cui trama è in realtà un
pastiche di elementi derivanti da capi¬
saldi dello spaghetti western. D’altra
parte, l’approccio nostrano ai genere
nelle sue prime fasi era pesantemente
debitore nei confronti del cinema di
samurai: in questo senso l’estremo sin¬
cretismo scenografico del film, che
mescola pagode e saloon e offre tra¬
monti disegnati da teatro Kabuki, è
quello contemporaneamente di una
riappropriazione e del riconoscimento
di una parentela. Gli elementi temati¬
ci dello spaghetti western, come quel¬
lo dell’eroe che fa il doppio gioco tra
due fazioni, sono poi ingigantiti nella
loro evidenza, cosicché i due fronti in
lotta sono identificati da divise mono¬
crome rosse e bianche, come fossero
pedine degli scacchi.
Per quanto vigorosamente rifiutato
dalla maggior parte della critica pre¬
sente al Lido, il film di Miike ha il me¬
rito di offrire una rilettura del suo mo¬
dello molto più godibile e chiara di
quanto non facesse la retrospettiva che
lo ha accompagnato, quella quarta edi¬
zione della “Storia segreta del cinema
italiano”, curata da Giusti e Gomara-
sca, che sembrava voler ripercorrere i
fasti della prima del 2004. Ma mentre
quest’uitima era felicemente riuscita,
sia nel suo intento iconoclasta (intro¬
durre disordinatamente e rumorosa¬
mente film disparati, accomunati dalla
marginalizzazione critica e dalla re¬
cente riscoperta cinefila), sia nella co¬
pertura mediatica, in questo caso ci si
trova di fronte a un corpus di film che
di per sé era già riuscito a mantenere
una buona dose di attenzione critica: le
rassegne recentemente dedicate a
Leone, o al limite a Soliima, non si
contano. Perciò, non si è trattato più di
introdurre l’orinatoio nell’edificio mu¬
seale, come è avvenuto quattro anni fa,
bensì di allargare il pantheon degli au¬
tori di una stagione del cinema italia¬
no che tutti sentono già, bene o male,
di conoscere. Il problema è proprio
questo: che se dal gesto di rottura si
intende passare all’approfondimento
di un genere, sarebbe il caso di andare:
oltre le forme più smaccatamente ve-
terocinefile. E invece, a fronte di una
programmazione improntata eviden¬
temente all’accumulazione (in luogo di
un catalogo della rassegna c’era infatti
un dizionario curato da Giusti), le
proiezioni erano precedute dalle solite
interviste al regista del film (qualora
ancora in vita), secondo il triste sche¬
ma “presentazione-aneddoto sugli at¬
tori-aneddoto sul produttore cialtro¬
ne-sanzione positiva del cineasta auto¬
re/ artigiano-pari sanzione negativa dei
critici dell’epoca che non erano in gra¬
do di apprezzare”. Piuttosto che le
preoccupazioni cinefilo-rivaìutative
sarebbe stato più interessante un ten- :
tativo di ricostruzione, seppur parziale,
del contesto produttivo dell’epoca, an¬
che perché buona parte dei film non
era affatto malese si sarebbe volentieri
fatto a meno di curiosità come La ta¬
glia è tua, l’uomo he ammazzo io
(Eduardo Mulargia, 1969), il cui effì¬
mero merito consiste nell’essere il pri¬
mo film con bacio gay tra cowboy.
L’esito è stato ulteriormente inficiato
dalla concomitante rassegna che pre¬
sentava cinque capolavori restaurati di
Boetticher, da I tre banditi (The TallT,
1957) a La valle dei Mohicani ( Coman¬
che Station, 1960): fondati quasi tutti
su di un identico nucleo narrativo,
questi film fanno collidere tutti gli ele¬
menti in gioco in maniera sempre di¬
versa, e con l’invidiabile concisione di
una durata che si attesta sempre attor¬
no ai 70 minuti. In altre parole, punta¬
re alla rivalutazione in blocco degli esi¬
ti più diseguali del western italiano
non giova granché neanche a quello
stesso cinema, soprattutto se nella sala
di fianco vengono presentati concor¬
renti di cristallina perfezione; piutto¬
sto, si sente il bisogno di un recupero
fondato su di una ricognizione siste¬
matica del genere, e non su anacroni¬
stiche categorie autoriali in dissolvi¬
mento.
Il ritratto dell’approccio contempora¬
neo al western, così come traspare nel
palinsesto dell’ultima edizione della
Biennale Cinema, appare improntato
al confusionario entusiasmo, che spe¬
riamo sfoci in successive più meditate
iniziative.
Francesco Di Chiara
LE CITTA DEL CINEMA
40
Trompe-l’oeil
Gli amori di Astrea e .Céladon (Les
Amours dAstrée et de Céladon, Eric
Rohmer, 2007)
Gallia, V sec. Dopo il tentato suicidio
perché Astrée non lo vuole più vedere,
e prima di poterla riavvicinare e ricon¬
quistare travestendosi da donna, Céla¬
don è soccorso da una ninfa, che gli
scopre indosso un medaglione col ri¬
tratto di Astrée.
Non db freeze frame o ingrandimento
che tenga. Non c’è verso di sapere, tan¬
to la corrispondenza è precisa, se il ri¬
tratto nel medaglione è una pittura as¬
sai somigliante all’originale, o una foto
ritoccata per sembrare dipinta. Un no¬
do inestricabile, ricorda bazinianamen-
te Pascal Bonitzer, lega trompe-l'-oeil e
cinema: l’uno sfuma il quadro nella
realtà, l’altro non potendo che costrin¬
gere la realtà in un’inquadratura rende
l’immagine inevitabilmente parziale,
rivelandola mendace nel momento
stesso in cui gli aderisce con la più stre¬
nua fedeltà. La realtà fa velo a se stes¬
sa, il cinema non ha a che fare con lei
se non come pittura automatica.
È la parzialità del punto di vista ad in¬
nescare il conflitto, come spesso in
Rohmer. Lei vede Céladon con una
donna che in realtà frequenta solo per
compiacere i genitori; pensando che
facciano sul serio, lo lascia. La loro se¬
parazione è quella tra la “realtà” e la
“finzione”. Tra la natura nello splendo¬
re della sua apparenza, e l’alienazione
primordiale da essa che è il linguaggio.
Astrée è la superfìcie del visibile (il
punto di vista), il paesaggio bucolico
(il suo volto sovrimpresso alle vallate
durante l’intermezzo musical), la natu¬
ra “vera” che fa da sfondo al suo dolo¬
re. Céladon sta in mezzo a curatissimi
giardini, a quadri e stanze (il castello
della ninfa), si traveste da donna, si¬
mula un falso flirt: la “finzione”.
Ma il travestimento, con cui Céladon
si avvicina ad Astrée per convincerla
con la verità del suo contatto fisico, è
solo l’altra faccia del medaglione “iper¬
realista” in cui Astrée è ritratta con ve¬
rosimiglianza fotografica a dir poco
perturbante (meglio: fittizia) per il
XVII sec. La riconciliazione è necessa¬
ria, inevitabile, strutturale. La citata
dialettica bonitzeriana si prolunga al¬
l’infinito: un druido ci rivela che i due
si conobbero anni prima in una ceri¬
monia che riproduceva (come il dipin¬
to che il druido ci mostra nel frattem¬
po) Paride che dona la mela a Venere;
ebbene, essendo questo rito rigorosa¬
mente inscenato da sole donne (Paride
compreso), Céladon si travestì da ra¬
gazza per poter impersonare Paride.
Insomma: il quadro (di Paride e Vene¬
re) viene inscenato nella realtà trave¬
stendo la realtà non da finzione bensì
da quello che effettivamente è: Céladon
si traveste da donna per poter indossa¬
re panni maschili, i suoi. I due piani
sono metafìsicamente inestricabili.
Cosa riunirà i due? Cosa farà riabbrac¬
ciare realtà e finzione, natura e lin¬
guaggio? Saranno le radici stesse del¬
l’arte rohmeriana: lo spazio, la geome¬
tria, la parola. È la parola (che nel film
è, di nuovo, presa in un ibrido tra col¬
loquialità e artificio poetico, prosa e ri¬
ma, rispetto dell’opera originale e at-
tualizzazione) a innescare la concate¬
nazione geometrica che sbalzerà Céla¬
don fuori dalla sua inerzia autodistrut¬
tiva. Si inanellano colloqui da Céladon
alla ninfa, dalla ninfa a Leonida, da
Leonida al druido, dal druido a Céla¬
don: solo così Céladon può rivedere
Astrée. Ma soprattutto lo spazio, il
tempietto all’amore che il druido fa
costruire, in cui Astrée si riconoscerà
in un dipinto. Un tempietto di legno
in mezzo ai boschi in cui mallarmea-
namente rien rìaura eu lieu que le lieu,
come sottolinea una breve, stupenda
scena in cui una folla di officianti sem¬
plicemente entra dentro il tempio ap¬
pena prima di una dissolvenza in nero.
Rien n'aura eu lieu que le lieu : in effetti
Rohmer qui si lascia più che mai an¬
dare alla geometria, alla scienza esatta
delle traiettorie di sguardi e movimen¬
ti, incrociando (riconoscendoli come
una cosa sola) senso drammaturgico e
integrazione personaggio-ambiente.
Dopo aver attraversato tutte le ma¬
schere artistiche (pittura, musica, poe¬
sia...) della Storia ( Perceval , La nobil-
donna e il duca, Agente segreto...), ora
torna alle radici stesse di essa, ovvero
alla scissione tra natura e linguaggio,
come già fece La marchesa von..., ma in
modo meno sfumato, scavando più
nettamente la scissione. Chiude il di¬
scorso sulle arti (e il film poi le convo¬
ca tutte) nello straordinario sermone
del druido sul monoteismo che inglo¬
ba in sé il politeismo (il cinema anco¬
ra bazinianamente sintesi delle arti in¬
separabile dalla religione) e prosciuga
tutto fino al confronto puro, frontale,
tra una natura incontaminata e un gio¬
co di linee e vettori che vi si fondono
alla perfezione, come la poesia inta¬
gliata nell’albero che Céladon lascia
per Astrée.
Il playboy canterino che schiamazza,
saltella e corre per credersi libero, ha
un bel dimenarsi: non si scappa dallo
spazio. Le sue movenze scomposte e le
fughe scoordinate sono re-inghiottite
nella circolarità: quando scappa fuori
dal tempietto, egli non scappa da nes¬
suna parte, ma si limita a correre intor¬
no alla pianta circolare dell’edificio.
Crede di poter venir meno alla legge
enunciata da Lycidas: l’amore è tal¬
mente grande che può cercare solo se
Gli amori di Astrea e Céladon
stesso, l’amante vede nell’amato se
stesso e specularmente si scopre amato
- davanti alla semplice grandezza di
quest’inversione, cambiare mille don¬
ne come il menestrello è semplice-
mente mancare il punto. Sarà ironica¬
mente lui a corteggiare il suo “più si¬
mile di quanto non creda”: Céladon en
travesti.
Ma nel frattempo Astrée e Céladon si
ritrovano, parlando ognuno di sé in
terza persona (ancora il “discorso iper-
diretto” come nei “Racconti morali”
tutti costruiti sull’intrecciarsi tra la
prima persona e la terza del discorso):
amante e amato sfumano l’uno nell’al¬
tro (Céladon non solo si finge donna
ma indossa i vestiti di Astrée), l’amore
cerca eternamente se stesso.
Non c’è risposta migliore per chi accu¬
sa i vecchi grandi autori di autoreferen-
zialità.
Marco Grosoli
LE CITTÀ DEL CINEMA
Poi comincia la polvere 4i
Orizzonti Doc
I-Tube: un iake-reality show dal¬
la guerra d’Iraq
Redacted (Brian De Palma, 2007)
Ad un anno dalla proiezione di Inland
Empire (2006) di David Lynch alla
mostra di Venezia, Brian De Palma ha
presentato il suo ultimo lavoro, Redac¬
ted, sugli stessi schermi. L’accostamen¬
to di questi due eventi è apparente¬
mente arbitrario, privo di pertinenza.
Da una parte abbiamo una deriva, l’on¬
divaga macchina digitale di Lynch che
comprime e dilata uno spazio sconnes¬
so fra il set cinematografico e l’incon¬
scio. Dall’altra, un’opera realizzata con
“tecnica mista”, che fa del disordine vi¬
sivo di un diario filmato (molto vicino
ad un reality show) il fulcro di una
puntuale riflessione sulla nuova galas¬
sia multimedievale orbitante intorno
alla guerra in Iraq.
' Il film di De Palma è sì un film politi¬
co, un atto di denuncia. Che l’obietti¬
vo dell’autore sia però la violenza per¬
petrata dalla macchina da guerra ame¬
ricana sul popolo iracheno, non cer¬
cheremo di argomentarlo, né di confu¬
tarlo. La riflessione di Redacted è pri¬
ma di tutto quella sui media, sui sup¬
porti e, come sempre, più che mai, sul
cinema. Può apparire curioso, se non
paradossale, che siano stati due Auto¬
ri, di una generazione la cui voce sem¬
bra non risuonare più così forte nel ru¬
more del dibattito contemporaneo, ad
aggiungere due tasselli fondamentali
al percorso di assimilazione dei nuovi
linguaggi nel film. Il merito di Inland
Empire, come abbiamo già avuto occa¬
sione di rimarcare, stava nell’usare il
digitale, forse per la prima volta nel ci¬
nema americano, consapevolmente e
“ontologicamente”. La novità di Re¬
dacted, sta nel mostrare del linguaggio
digitale e delle sue declinazioni, i limi¬
ti, le difformità, la parzialità. Redacted
si presenta subito come un’opera origi¬
nale: diversi piani narrativi vengono
sovrapposti e poi intrecciati, e al con¬
tempo differenti formati vengono al¬
ternati e amalgamati, dall’inizio alla
fine, in un astutissimo gioco dialettico
fra vero e falso. A succedersi sullo
schermo sono in ordine sparso: un fal¬
so film-documentario francese, il cui
lirismo patinato richiama direttamen¬
te un certo tipo di prodotto europeo¬
umanitario che potremmo vedere su
Arte, o all 'Espace Saint-Michel di Pari¬
gi, il video-diario di un militare ame¬
ricano col sogno di essere cineasta, le
immagini in pellicola “oggettive” sul
contesto in cui muove il conflitto, ed
alcuni filmati online e televisivi. Due
considerazioni: in primo luogo, il ca¬
rattere eterogeneo di questo film, ri¬
chiama da vicino le opere del primo
De Palma, quello sperimentale e irri¬
verente di Greetings (1968) o HiMom!
(1.970). In secondo luogo, la varietà di
media prediletta dall’autore, persegui¬
ta con grande coerenza e distacco a fi¬
ni critici e rivendicatori, ci mostra per
contrasto tutta la pochezza di un cer¬
to cinema di denuncia in gran voga in
America, che ha come capofila il fiac¬
co, sempre più blando Michael Moore
(si pensi a Fahrenheit 9/11, 2004, ma
soprattutto all’ultimo Sidio, 2007) ap¬
piattito su un uso dei linguaggi media¬
tici banale, quando non addirittura
compiaciuto e conformista. Redacted
svela invece la smaccata autoconsape¬
volezza dell’intero baraccone america¬
no in Medio Oriente. Se la linea nar¬
rativa principale tracciata dai perso¬
naggi risulta parallela a quella di Vitti¬
me di Guerra (1989), ciò che cambia è
proprio la consapevolezza dei prota¬
gonisti: non vi è una reale partecipa¬
zione, cade ogni conflitto morale e
primordiale, la violenza sessuale, la
brutalità in sé, viene vissuta come in
un reality. Paradosso dei paradossi: De
Palma ci svela come non vi sia nulla di
più fìnto e “spettacolare” della realtà,
quando questa viene riportata sullo
schermo. Al contempo, il regista ci
mostra come il formato amatoriale per
eccellenza, quello della realtà nuda e
cruda, dei filmati sui telefonini, di
quelli caricati su YouTube, sia il più in¬
gannevole in assoluto.
Redigibile, plasmabile, deformabile (si
pensi alla quantità di informazioni di¬
storte piovuta in rete dall’Iraq: le false
esecuzioni, le false rivendicazioni),
soggettivo e parziale esattamente come
la pellicola, forse ancora di più data la
sua natura non foto-chimica e imma¬
teriale, il digitale gode comunque pres¬
so il pubblico di un’aura di realismo e
di naturalezza, di un’oggettività rara¬
mente messa in discussione. De Palma
con un colpo di mano, o meglio con un
colpo d’autore, con la sua presenza im¬
manente su tutto il film, percepibile
persino in un sottile quanto spietato
gusto voyeuristico nel filmare il clou del¬
la violenza sessuale, ci mostra come
dietro alla macchina ci sia sempre e co¬
munque un Autore. Un autore che sce¬
glie, che redige, che omette e mostra,
con compiacimento o indignazione, i
dettagli di un massacro. Redacted è per¬
ciò, più di ogni suo predecessore, un
film consapevole delle regole del gioco
mediatico, americano sullbscenità del
conflitto iracheno. Il film dice chia¬
ramente quanto suggerito da Sla-
voj Zìfck in Welcome to thè Desert of thè
American (sub)cultureR: la teatralità
delle umilianti torture inflitte dalle
forze di occupazione in Iraq, non sa¬
rebbe altro che un’“iniziazione” al lato
osceno della cultura americana, un
“supplemento necessario” e nascosto ai
valori “democratici” d’oltreoceano.
Maurizio Buquicchio
1. Slavoj Zizek, Welcome to thè Desert of thè Ameri¬
can (subculture! An Essay onAbu Ghraìb and Reta¬
te! Topics, trad. it. di Lorenzo Chiesa, Verona,
Ombre Corte, 2005.
Siamo io e te appoggiati su queste sedie
io e te su queste sedie ad aspettare...
Massimo Volume,
Il tempo scorre lungo i bordi, 1995
Il capolavoro di Hartmut Bitomsky,
blasonato documentarista docente al
California Institute ed attuale diretto¬
re della DFFB (Deutsche Film und
Fernsehakademie Berlin), è andato in
programma agli orizzonti (Doc) del
Lido: Dust (Staub, 2007). Difficile ri¬
correre ad una scrittura “ecfrastica” per
un film, scusate il paradosso, che va so¬
prattutto visto. Secondo cartella stam¬
pa si tratta di uno “studio analitico del¬
la polvere”. Le radiose immagini di Bi-
tosmky, magnificamente montate, a
tratti sontuose e visionarie come un
Godfrey Reggio, affrontano l’infilma-
bile inseguendo la fascinazione di una
presenza discreta quanto ineludibile, e
traghettano in maniera “bachelardia-
na” lo spettatore attraverso le varie
possibili declinazioni di un elemento
che si svela nel fascio di luce che solca
una stanza in penombra ed influenza il
clima, l’andamento della radioattività e
la salute umana.
Polvere. Dal “gatto”, il grumo di polve¬
re che si nasconde sotto il mobile, alla
materia residuale che formano i soli
esplodendo. La polvere che è stata
consegnata al nostro corpo, ed a cui
siamo destinati, tornerà a rutilare nel
vuoto assoluto da cui proviene in atte¬
sa del prossimo Big Bang. Il film inse¬
gue il filo conduttore della polvere e
della sua onnipresenza mostrando una
progressione socio-tecnologica ed an¬
tropologica attraverso vari siparietti
tragicomici. Come la maniaca della
pulizia che si prodiga per vivere in un
ambiente completamente asettico, pa¬
tetica incarnazione di una fatica di Si¬
sifo rivolta contro agenti elementari
destinati a sopraffare l’effimera soler¬
zia umana. Seguono gli studiosi della
polvere che ne analizzano la composi¬
zione, ricostruiscono il passato che
nella polvere lascia tracce, preservano
dalla polvere l’andamento di compli¬
cati processi industriali, o impediscono
a minuscoli detriti velenosi di raggiun¬
gere i polmoni dei lavoratori oppure,
nel caso dei creatori di filtri per le ore¬
ficerie, impediscono ad un certo pulvi¬
scolo di raggiungere... le tasche dei la¬
voratori! Ci sono gli ingegneri infor¬
matici, che lavorano in stanze affonda¬
te nel puro bianco per creare il cuore
interno, ossia il cervello, di un compu¬
ter in un ambiente impermeabile a
tutto, cioè alla polvere. Abbiamo an¬
che, immancabilmente, l’artista della
polvere che ne incastona l’arruffio in
cristalli di plastica, ricavandone scara-
Redacted
42
The Darjeeling Limited
bocchi ibernati, veri e propri fossili di
una civiltà futura...
Non a caso, sussurra la discreta voce
narrante del film, questa fascinazione
per la fotogenia dell’infinitesimale na¬
sce dalla fatale passione dello sguardo
del regista per i sublimi mubnelli di
polvere della Carovana dei Mormoni
( Wagon Master, John Ford, 1950). Ri¬
mare l’impossibile: la serpe che il ven¬
to disegna sulle Dune o l’aria satura di
polvere che nella tempesta martella e
devasta. Si ricordano, tramite una ri¬
gorosa ricognizione delle fonti foto¬
grafiche, i disastri dell’America rurale
degli anni Trenta causati dai terribili
tornado che strappavano la terra colti¬
vabile dalla superficie appena arata dei
campi. La polvere può dunque morde¬
re o contaminare, se radioattiva. Ed al¬
lora la polvere va gestita, smaltita. Il
modo con cui ce ne occupiamo descri¬
ve lo stato d’evoluzione della nostra ci¬
viltà tecnica. Difatti è la polvere a de¬
terminare il declino della macchina, è
l’usura che scorre parallela all’awentu-
ra di un utensile ed il corredo luttuoso
degli ambienti della società industriale
che si manifesta appieno negli spazi
disabitati delle sue fabbriche in disuso
(mentre scorreva il film gli sovrappo¬
nevo il ricordo insistente della bellissi¬
ma mostra di fotografie Sinai Hotels di
Sabine Haubitz e Stefanie Zoche, cu¬
rata da Paolo Barbaro per lo scorso Fe¬
stival d’Architettura di Parma: farao¬
nici alberghi edificati nel niente e non
terminati, popolati da ombre e ghiri¬
gori disegnati dalla polvere su superfi-
ci irte di armature ferrose, sfida del
convesso contro la polvere che diligen¬
temente curva, smussa, trafora, ren¬
dendo poroso).
La polvere tende un agguato all’effigie
cinematografica, aderisce alla superfi¬
cie emulsionata ed unta di grasso della
pellicola che scorre verso l’otturatore,
come ben sa il proiezionista, offenden¬
done la performatività e l’esultanza
schermica. Diventa patina, come nelle
opere d’arte a cui la patina conferisce
una misteriosa ed imparagonabile gra¬
zia (tant’è vero che la statua o il dipin¬
to ripuliti appaiono meno “veri” delle
copie eventualmente derivate). Il pit¬
tore Protogene combatteva la “defigu¬
razione” dell’opera d’arte dipingendo
quattro quadri perfettamente identici
uno sotto l’altro 1 . La polvere è un Pro¬
togene ben più accorto che pone un
velo sulle novecentesche immagini
tecniche che gli abbiamo consegnato, e
vi imprime segni e cicatrici attuando¬
ne una solenne trasfigurazione, ricor¬
dandoci che niente, del visibile o del
vivibile, sfugge alla polvere...
Davide Gherardi
Note
1. Manlio Brusatin, Stona delle immagini, Torino,
Einaudi, 1989, p. 114.
Stile di famiglia
The Darjeeling Limited (Wes Ander¬
son, 2007)
The Darjeeling Limited (2007), l’ultimo
film del regista Wes Anderson, pre¬
sentato alla LXIV Mostra di Venezia
con un’immeritata, tiepida accoglien¬
za, è un viaggio in un’India, se possibi¬
le, più colorata di quanto non lo sia
nella realtà. I tre fratelli Whitman, al¬
lampanati, annoiati e ricchi come lo
erano i fratelli Tenenbaum (J Tenen-
baum , 2002), salgono su un treno per
cercare di ritrovarsi spiritualmente sia
come individui sia come fratelli. I tre
non si vedono dalla morte del padre,
avvenuta un anno prima. Peter
(Adrien Brody) fògge dalla moglie in¬
cinta, Francis (Owen Wilson), il fra¬
tello maggiore e organizzatore del
viaggio, è convalescente dopo un inch
dente non proprio casuale e Jack (Ja-
son Schwartzman) ha il cuore spezza¬
to - la sua storia è raccontata nel ro¬
mantico cortometraggio-prologo del
film, Hotel Chevalier. Jack ha trascorso
gli ultimi mesi nella sfarzosa stanza di
un elegante albergo parigino a leccarsi
le ferite per un amore forse finito, o al¬
meno irrimediabilmente intossicato.
Il treno, Darljeeling Limited appunto,
porta simbolicamente i tre fratelli al¬
l’interno di problematiche irrisolte con
il padre scomparso e con la madre, me¬
ta ultima del viaggio che assume toni
surreali e mistici, divertenti e dramma¬
tici al tempo stesso.
Anderson prosegue il suo percorso al¬
l’interno di intricate dinamiche fami¬
liari e di relazioni parentali caotiche
che ha inizio con l’adolescenza non
comune di Max Rscher in Rushmore
(1998), segue con la saga dei Tenen¬
baum e con le avventure di Steve Zis-
sou {Le avventure acquatiche di Steve
Zissou, The Life Acquatic With Steve
Zissou, 2004), padre e marito incapace
di assumersi ogni responsabilità. Oltre
alla tematica ricorrente dei difficili
rapporti parentali, il regista si è distin¬
to, fin da Rushomore, per un’attenzione,
quasi maniacale, al guardaroba dei suoi
personaggi, agli spazi in cui si muovo¬
no, agli oggetti che li accompagnano.
Ogni dettaglio diventa lo strumento
per ricostruire l’identità del protagoni¬
sta malinconico, stralunato e vanesio.
Il look di Margot (Gwyneth Paltrow)
ne I Tenenbaum, un vestito a righe La-
coste e una giacca di visone di Fendi,
disegnata dal regista assieme alla mai¬
son italiana, diventa il simbolo di un
modo di essere, di un’attitudine a un
genere musicale, letterario, filosofico
che rappresenta 0 regista e diventa ele¬
mento di identificazione per lo spetta¬
tore. Vale lo stesso per lo stile retro di
Chas (Ben Stiller), con impeccabile
tuta vintage Adidas, identica a quelle
dei suoi figli.
Le sneakers bianche Adidas con ban¬
de blu acquamarina e lacci gialli mo¬
dello “Zissou” indossate da Bill Mur¬
ray e dalla sua ciurma in Le Avventure
Acquatiche di Steve Zissou, hanno scate¬
nato in rete una lunga quanto inutile
ricerca da parte dei cultori del feticcio.
Il modello, infatti, non è mai esistito
sul mercato, ma è stato creato da An¬
derson esclusivamente per il film. Tan¬
to spasmodico è stato negli ultimi an¬
ni il desiderio di possesso di quelle
scarpe, che qualcuno ha pensato di
pubblicare anche le istruzioni per ela¬
borare, in maniera casalinga, un mo¬
dello Adidas quanto più possibile si¬
mile all’originale “Adidas-Zissou”.
Ma è proprio The Darljeeelìng Limited
ad appagare le vittime del feticcio ar¬
ricchendo il già elaboratissimo tripu¬
dio di colori (si pensi alle decorazioni
zoomorfe realizzate negli scompartì
del treno) di una preziosa collabora¬
zione con Marc Jacobs, designer del
marchio Luis Vuitton.
Il vero e proprio viaggio spirituale per
i tre fratelli comincia quando vengono
banditi dal treno sul quale viaggiano a
causa del loro comportamento disordi¬
nato (dipendenza da analgesici, sedati¬
vi e sciroppi per la tosse e un’inaspet¬
tata fuga del serpente velenoso acqui¬
stato da Peter). I Whitman si ritrova¬
no improvvisamente appiedati, nel
cuore dell’India, con il fardello dei lo¬
ro problemi personali, e materiali; a se¬
guirli nelle loro peregrinazioni c’è in¬
fatti un intero set di undici anacroni¬
stiche valigie (bardi, borse, borsoni e
tracolle), vero simbolo familiare del
passato da rielaborare, firmato Luis
Vuitton. Il set è realizzato in cuoio na¬
turale e ornato con stampe di giraffe,
rinoceronti, antilopi, zebre e palme, un
disegno infantile creato dal fratello del
regista, Eric Anderson, già autore dei
disegni per I Tenenbaum. Tutte le vali¬
gie sono caratterizzate dalle lettere
JWL, iniziali del padre dei tre fratelli,
e sono la pesante, ingombrante e inu¬
tile eredità lasciata dal genitore. Anche
i completi indossati dai fratelli, in di¬
verse tonalità di grigio e abbinati a tre
colori diversi di camicie, beige per
Francis, bianco per Peter e nero per
Jack, sono firmati Marc Jacobs.
Lo stilista non è però l’unico autore
dei costumi del film: la costumista di
The Darjeeling Limited è infatti l’italia¬
na Milena Canonero, già collaboratri¬
ce di Anderson ne Le Avventure Ac¬
quatiche di Steve Zissou, e premio
Oscar per i costumi di celebri film
quali Momenti di gloria {Chariots ofFi-
re, 1981) di Hugh Hudson, Barry
Lyndon (1975) di Stanley Kubrick e
del più recente Marie Antoinette
(2006) di Sofia Coppola. I colori delle
uniformi dello staff del treno, quei to¬
ni di blu, turchese e verde acido, dise¬
gnati dalla Canonero, evocano i colori
dei vagoni, ma anche i colori delle piu¬
me di pavone legate a un rituale al
quali i tre Whitman si sottopongono.
L’insistenza sul dettaglio ricercato fino
all’ossessione, così come la perseveran¬
za nella tematica del conflitto interio¬
re inserito all’interno del nucleo fami¬
liare, fanno del regista un autore con¬
siderato da molti ripetitivo. Tuttavia
l’antieroe di Anderson segue un per¬
corso in continua crescita, segnata sì
da un quasi grottesco perfezionismo
perlopiù griffato, ma anche da una
malinconica disillusione aderente al¬
l’attitudine paranoica dell’uomo con¬
temporaneo.
Sara Martin
LE CITTÀ DEL CINEMA
XLIII Mostra Intemazionale del
Nuovo Cinema di Pesaro
Pesaro, 24 giugno-2 luglio 2007
Le piccole Italie nascoste nel
nuovo mondo. Il cinema italoa-
mericano contemporaneo
Nella perenne ricerca di spunti storio¬
grafici e filmografie sconosciute che ne
caratterizza l’identità, il festival di Pe¬
saro ha quest’anno operato una scelta
singolare, e opportuna: quella di spo¬
stare l’attenzione su una retrospettiva
puntuale e su un lavoro di ricerca origi¬
nale. Si tratta di una svolta importante:
sappiamo bene come Pesaro abbia nel
suo DNA il rapporto, consustanziale,
con la ricerca universitaria, e come an¬
che nel passato svariati volumi colletti¬
vi abbiano raggiunto lo status di opere
miliari per la storia e la teoria del cine¬
ma. Non si può negare, tuttavia, che -
per le tante cause che non ce tempo di
ribadire - negli ultimi anni la parte del
leone da questo punto di vista l’abbiano
fatta le retrospettive sul cinema italia¬
no. Anche questa volta, del resto, l’ope¬
ra omnia comenciniana ha ricevuto
l’attenzione che meritava, con la fatica
editoriale di un bel volume curato da
Adriano Apra, cui va aggiunto - da
parte dello stesso studioso - un altro li¬
bro sul Comencini critico e giornalista.
La sorpresa, tuttavia, spetta proprio a
Quei bravi ragazzi, sezione della Mo¬
stra dedicata al cinema italoamericano
contemporaneo. Composta da film in
gran parte provenienti dall’alveo degli
indipendenti, quando non degli ultra¬
indipendenti, la scelta filmografica ha
potuto illustrare alcuni dei temi più
importanti e caratterizzanti; essi sono
poi stati sviluppati all’interno di una
caotica ma esuberante tavola rotonda, e
soprattutto depositati a futura memo¬
ria nel volume di cui vorremmo qui
parlare: Quei bravi ragazzi. Il cinema
italoamericano contemporaneo, curato da
Giuliana Muscio e Giovanni Spagno¬
letti (Venezia, Marsilio, 2007). Si trat¬
ta di un approdo scientifico davvero se¬
rio e lodevole, dove - grazie alla lungi¬
miranza dei curatori - non si è confi¬
nato il cinema a se stesso e alle sue di¬
namiche linguistico/autoriali (approc¬
cio, come noto, poco apprezzato dalla
curatrice), ma lo si è messo in relazione
con la storia dell’emigrazione italiana
in America, con le forme del teatro e
dello spettacolo dei nostri connaziona¬
li d’oltreoceano, e con la televisione se¬
riale. Da Farfariello ai Sopranos, il li¬
bro non finisce per fortuna con l’essere
un lungo elenco di luoghi e emergenze
della cultura italiana in America, inda¬
gando anzi i crocevia artistici, le figure
di maggior o minor importanza locale,
i rapporti con le fasi dell’emigrazione.
Muscio, nell’introduzione, ne indivi¬
dua cinque, ognuno dei quali analizza¬
bile attraverso i prodotti artistici e ci¬
nematografici depoca. Per noi studiosi
di cinema un po’ impreparati, tutta
questa parte, così come la sezione de¬
dicata alla storia (e affidata a fior di
studiosi statunitensi), rappresenta uno
spunto di riflessione inedito, a comin¬
ciare dalla specificità dell’immigrato
italiano in America, che soffre del raz¬
zismo degli italiani (in partenza, in
quanto meridionale) e dei bianchi Wa-
sp (in arrivo), secondo i metodi di sele¬
zione razziale narrati anche da Ema¬
nuele Crialese in Nuovomondo (2006).
Sarà per questo che - a parte gli Au-
teurs anni Settanta - assai poca biblio¬
grafìa esiste in Italia su questi artisti, e
che gli stessi curatori hanno affidato
molti dei saggi presenti nel volume a
ricercatori americani. Tra i temi tratta¬
ti, i pregiudizi anti-italiani (Franzina,
Luconi), gli scrittori italo-americani
(Pettener), il teatro degli immigrati
(Aleandri); o ancora: la New Hol¬
lywood tra nostalgia e tramonto etnico
(Casillo, Mancino, Zagarrio), l’identità
di genere (Camaiti Hostert, De Stefa¬
no), un intelligente saggio sul ciclo di
Rocky (Reich) e persino approfondi¬
menti su musica, cibo e altri mezzi di
espressione. Chiude il volume una ric¬
ca anagrafe del cinema italoamericano
contemporaneo (Spera).
Tornando a quanto si diceva, non era
facile immaginare la quantità di scavi e
di ricognizioni ancora da compiere in¬
torno al cinema italoamericano prima
di questo appuntamento. Il volume,
per fortuna, resterà, impedendo così
che - finita la rassegna pesarese - ci si
dimentichi del grande lavoro svolto.
Ciò serva anche come spunto di rifles¬
sione intorno al ruolo che il sapere ci¬
nematografico prodotto dalla ricerca
universitaria è capace di rivestire. For¬
se molti altri festival potrebbero gio¬
varsene se solo abbandonassero lo spi¬
rito anti-accademico e squisitamente
mediatico che fi contraddistingue, in
una delle annate più povere di idee fe¬
stivaliere che si ricordano da anni.
Roy Menarini
j Quei bravi ragazzi
| li cinema italoamericano contemporaneo
XXI II Cinema Ritrovato 2007
Bologna, 30 giugno-7 luglio 2007
“Dio ti vede, Stalin no”. Intervi¬
sta a Tatti Sanguineti
La comunicazione politica in Italia at¬
traverso il cinema. I film dei comitati
civici (1948-1953)
In questi giorni lei ha presentato a II Ci¬
nema Ritrovato una rassegna di film
prodotti dai comitati civici e provenienti
dagli archivi della Fondazione Ugo Spi¬
rito e deiristituto Paolo V: sono film mol¬
to rari, di cui non si ha alcuna notizia,
appartengono a una sorta di “fuori ora¬
rio” della visione e della comunicazione
politica, per questo mi incuriosisce, in¬
nanzitutto, capire comi nata in lei la cu¬
riosità verso tali opere, cosa ha determi¬
nato il suo incontro con questo materiale
audiovisivo, insomma da dove è nata
questa ricerca?
L’avventura della ricerca dei “comitati
civici” è cominciata dalla semplice
constatazione che questi film erano dei
film perduti, rimossi, dimenticati... Ve¬
dendoih è facile capirne il perché: sono
film di una grande virulenza ideologi¬
ca, sono film epocali, molto contestua¬
li, duri, tosti... Oltre a tale motivo un
passo fondamentale per questo mio
interesse è stata la stima e l’amicizia di
Turi Vasile. Turi Vasile è stato uno dei
più importanti produttori di area cat¬
tolica, ha fatto molti film: come regista
ha girato Gambe d'oro (1958) conTotò,
mentre come produttore ha realizzato
film significativi quali Roma (1972) di
Federico Fellini, I vinti (1952) di Mi¬
chelangelo Antonioni, Io la conoscevo
bene (1965) di Antonio Pietrangeli e
altri. Vasile è stato il cervello di questi
comitati civici, è un uomo di immen¬
surabile intelligenza, di grande spre¬
giudicatezza e fantasia: con Leo Lon¬
ganesi ha inventato quel famoso mani¬
festo dove si vedono due conigli con
sotto scritto “essi non votano”, e un al¬
tro manifesto dove c’è scritto “nell’urna
Dio ti vede, Stalin no”, slogan terribile
ma geniale. Questi film dei comitati
civici sono scanditi in diverse epoche e
servono ad affrontare delle battaglie
contingenti, dei tornanti della vita po-
litico-elettorale-parlamentare italiana.
Sono caratterizzati dal fatto di essere
prodotti da una piccola squadra com¬
posta da Turi Vasile e Marcello Baldi e
sono dei film spesso di montaggio, di
repertorio: c’è un insieme di footage, di
trovate, di grammatica quasi elemen¬
tare, di una forza comunicativa stu¬
penda e terribile.
Ho cominciato a cercarli e qualcuno
che ha avuto modo di vederli ha detto
che sono degli incubi. È vero, questi
film, visti oggi, in un momento in cui
c’è una recrudescenza, un ritorno del
conflitto tra la cultura laica e quella
cattolica, possono apparire come delle
immagini che ritornano, come un re¬
venant inatteso che ci visita di notte.
Come noto, quelli in questionefurono an¬
ni molto difficili, si votò per eleggere il
primo Parlamento dell'Italia Repubbli¬
cana e questo fece accendere uriardente
campagna elettorale. Si venne a creare
una lotta murale a colpi di manifesti, il
più delle volte attaccati sopra a quelli del¬
le parti antagoniste: ai tempi, infatti,
non vigevano alcune leggi in tutela degli
spazi d’affissione.
Mi chiedo, allora, che canali di diffusione
sfruttavano questi documenti audiovisivi
che lei presenta in occasione de II Cinema
Ritrovato? La comunicazione politica di
fine anni Quaranta, non regolamentata
da precetti che ne tutelassero l’equità infor¬
mativa, aveva difficoltà dì circolazione?
I comitati civici nascono come una
struttura totalmente autarchica, auto¬
gestita, che impara a diffidare del mon¬
do dello Stato, perché questo mondo è
inquinato, popolato, abitato dai comu¬
nisti. In Italia la presenza dei militanti
comunisti è diffusissima e l’organizza¬
zione dei comitati civici impara a fare
da sé, a diffidare, a usare canali alterna¬
tivi, scoprendo che il materiale pubbli¬
citario, i manifesti, i volantini inviati
tramite le poste italiane rischiavano di
non arrivare a destinazione.
Ecco perché imparano a servirsi di
mezzi propri, a camuffarsi, a nascon¬
dersi, a truccare le carte. E anche attra¬
verso questo tipo di trucchi, di pruden¬
ze di capacità di agire in autonomia
che furono vinte le elezioni del 1948.
La comunicazione politica di quegli anni
era prevalentemente articolata su slogan
cartacei o radiofonici, a cui si aggiunsero
quelli dei manifesti infissi sui muri della
città, che implicavano una ricezione in
un certo senso passiva e quasi casuale del
passante che si trovava, senza volerlo, di
fronte alle locandine. Per quanto riguar¬
da invece lafruizione dei video di propa¬
ganda essi erano pensati per un certo tipo
dì pubblico? Dove venivano proiettati?
Questi film vengono fatti per essere
mostrati prima e dopo i comizi, fanno
parte di quel piccolo campo turrito e
protetto costituito dagli spazi elettora¬
li. Il luogo a cui sono destinati è quel¬
lo del palco dell’oratore : i film vengono
proiettati a ridosso dei comizi, sono
materiali di accompagnamento da
mostrare nelle sezioni dei democristia¬
ni, sono dei documenti che “vanno as¬
sieme”, che parlano prima e dopo il
comiziante, che spiegano, aggiungono,
convincono, che hanno la forza sedut-
tiva, quella tipica delle immagini, delle
43
LE CITTÀ DEL CINEMA
44
attrazioni, del montaggio, àeMlexem-
plum, della forza di captazione del ci¬
nematografo.
In un'intervista da lei realizzata Turi
Vasile diceva: “eravamo tutti seguaci di
Méliès e non certamente di Lumière. I
nostri manifesti sono tutti basati sull'im-
maginario". E una dichiarazione che ri¬
vela una precisa presa di posizione.
Uno degli slogan di Turi Vasile era
proprio che il cinema deve rifarsi non
tanto all’evidènza del fatto reale, ma al¬
l’evocazione fantastica, al trucco, alla
testa tagliata: tutte caratteristiche esal¬
tate da Méliès. I civici si servono di
questo tipo di “trucchistica” da pionie¬
ri, un po’ elementare, un po’ semplicio¬
na, d’altra parte la Democrazia Cristia¬
na era consapevole che nel 1947-48 il
pubblico era costituito da una buona
percentuale di analfabeti che si bevono
tutto quello che viene detto loro e che
costituiscono una frangia, uno zoccolo,
una gleba di uomini semplici che han¬
no bisogno della forza delle immagini.
Ecco perché questi film erano accom¬
pagnati da un corredo di immagini, di
cartelloni pubblicitari, di carte dise¬
gnate da Jacovitti, in cui baffone Stalin
veniva ritratto con mille vezzi, con
scherzi, con trucchi grafici, con un ar¬
senale di trovate fantastiche.
Lo slogan di cui parlavamo prima era di¬
chiarato esplìcitamente già nel ’48 da Va¬
sile come una sorta dipoetica interna alla
propaganda, di filosofia della comunica¬
zione o è una definizione che lui ha dato
a posteriori rivedendo oggi quei lavori?
Fa parte della filosofia dell’intelligenza
di questo corregionale di Pirandello:
Turi Vasile ritiene, appunto, che il ci¬
nema sia fatto per far ridere e piange¬
re, che il cinema sia qualcosa che deve
agire sul cervello, sulla fantasia. Fa par¬
te della sua politica programmatica,
della sua teoria del cinema.
Ma questa dichiarazione, che trovo par¬
ticolarmente sottile, non potrebbe togliere
attendibilità e credibilità agli intenti del¬
la DC, proponendo l’informazione come
un’arte suggestivamente immaginativa?
In un certo senso, schierandosi dalla parte
di Méliès, non si finisce per dichiarare
proprio quello che i democristiani critica¬
no ai comunisti? In Strategia della
menzogna si denuncia la retorica di si¬
nistra fatta di furbi agitatori menzogne¬
ri da smascherare e utili idioti da redìme¬
re, eppure gli stessi fautori dei comitati ci¬
vici si servono dei trucchi falsità-mani¬
polazioni) per costruire le loro verità. Mi
sembra un po’ un controsenso, senza scen¬
dere nella semantica dei trucchi.
Loro pensano che il cinema di propa¬
ganda debba testarsi sulla base di do¬
cumenti di realtà. L’ontologia realisti-
ca-fenomenologica del cinema è fuori
discussione, ma a sorpresa bisogna im¬
mettere questo quoziente, questa zona,
questa area di fantasia, di gioco delle
carte.
Cosa fa sì che questi materiali siano desti¬
nati a sparire? L'aurea cinematografica
qui viene relegata a un circuito specifico.
Il cinema elettorale, il cinema di pro¬
paganda è come lo yogurt, ha una sca¬
denza stampigliata sopra. È un cinema
deperibile che il giorno dopo che si è
votato non serve più perché passata la
festa viene gabbato il santo e comincia
un altro momento, per cui ci vogliono
altri strumenti, discorsi, immagini,
fantasie, cinegiornali.
A che stato è la sua ricerca sui film dei co¬
mitati civici?
Ne abbiamo trovati 24 su 27: sono una
catena di film dispersa, ne abbiamo
trovati alcuni a casa di componenti del¬
la DC, di personaggi storici che furono
coinvolti in questo piano di riparazio¬
ne. Attraverso una ricerca non sempli¬
ce perché questi film sono un po’ come
degli avi dismessi, dei cappotti vecchi
che non si possono più indossare, fan¬
no parte del nostro passato, sono degli
incubi (c’è chi ne è fiero e chi se ne ver¬
gogna) che stiamo riscoprendo.
Abbiamo parlato della loro utilità nel
1948, ma qual è il loro destino oggi?
Nessun destino, non si può destinare
nulla perché il sistema televisivo italia¬
no è talmente precario, governato dal-
l’imbecillità e dalla corruzione che è
molto difficile pianificare la sopravvi¬
venza del proprio lavoro, c’è un muro
contro cui ci si può solo rompere la te¬
sta. Comunque, aldilà della stupidità e
corruzione dominanti, questi sono
film scomodi, ingombranti, sono mili¬
tanti che hanno già preso e dato la lo¬
ro razione di botte.
Per questo veniamo a II Cinema Ritro¬
vato, per conoscere delle persone che ci
mostrino delle strade e che ci facciano
vedere film mai visti.
Angelita Fiore
La musica per film. Intervista a
Marco Dalpane
Quest’anno II Cinema Ritrovato di
Bologna ha dedicato almeno due si¬
gnificativi momenti alla musica per il
cinema.
Il musicista Timothy Brock ha presen¬
tato le musiche composte da Chaplìn
al pianoforte per film come Limelight
(1952) e provenienti da alcune regi¬
strazioni effettuate nella casa del regi¬
sta. Queste, recuperate dalla Associa-
tion Chaplin di Parigi, venivano ado¬
perate per essere trascritte in partiture
da utilizzare poi per le colonne sonore
dei film di Chaplin. Alcune di esse so¬
no risultate totalmente inedite e sono
state tradotte in note da Brock, che ha
attinto alle registrazioni anche per
creare “un nuovo accompagnamento
musicale per il film A Woman in Paris".
Al seminario “A chi serve la storia del
cinema? Come sviluppare un progetto
di educazione all’immagine per il pub¬
blico più giovane”, svoltosi durante il
festival e dedicato agli esercenti euro¬
pei 1 , il direttore della Cineteca di Bolo¬
gna Gian Luca Farinelli ha dedicato il
suo intervento al rapporto tra musica e
cinema e all’importanza dell’accompa¬
gnamento musicale per i film muti.
Abbiamo l’opportunità di parlare di
questo e della musica per il cinema con
Marco Dalpane 2 , pianista accompa¬
gnatore per la programmazione ordi¬
naria della Cineteca di Bologna, oltre
che per il festival, nonché compositore
e direttore d’orchestra di musiche per
film come Die Bergkatze (1921) di
Ernst Lubitsch, contenuto nel cofa¬
netto Ernst Lubitsch Collectìon (6 dvd
Transit Film-Murnau Stiftung), che
ha vinto il premio come miglior DVD
2006/2007 all’interno del Cinema Ri¬
trovato DVD Awards.
Qual è la differenza fra la musica che
quasi quotidianamente componi per le
proiezioni e la musica che hai composto,
ad esempio, per ilfilm dì Lubitsch?
Nel primo caso siamo in presenza di
un’improvvisazione, di una composi¬
zione istantanea che è il risultato di
una serie di conoscenze acquisite come
la memoria, il bagaglio di formule mu¬
sicali, la tecnica dello strumento, ecc.
che precipitano in musica nel momen¬
to in cui s’instaura un rapporto con le
immagini.
Nel secondo caso la composizione di¬
venta un atto più mediato, riflesso di
elaborazioni successive che possono
portare anche ad un allontanamento
dal lessico più usuale del musicista, ad
una ricerca di elementi nuovi, ad una
maggiore complessità formale e ad
un’articolazione più precisa. Il lavoro
risulta in questo caso più lungo: per
quanto riguarda Die Bergkatze’ la pri¬
ma stesura è durata poche settimane,
con una elaborazione successiva di cir¬
ca tre mesi per mettere a punto tutti i
particolari.
Abbiamo assistito durante il festival alla
proiezione del film greco O Magos Tis
Athinas (Achilleas Madras, 1922-
1931), che comprende una serie di episodi,
abbastanza scollegati tra loro, riguardan¬
ti l'irresistibile fascino sulle donne di un
mago violinista. Come ti poni la prima
volta difronte ad un film come questo?
La frammentarietà di questo film mi
ha posto la questione di restituire i
nessi logici che erano venuti meno a
causa di un problema di conservazio¬
ne. Ciò accade abbastanza spesso con i
film delle origini e si presume che il
musicista abbia abbastanza esperienza
per decifrare tutto di un film - dal rit¬
mo ai tempi di montaggio, dalla reci¬
tazione allo stile di un’epoca - in mo¬
do da colmare o rendere superabili
Marco Dalpane e l’Orchestra Musican nel Buio
LE CITTA DEL CINEMA
certe difficoltà di lettura. Per questo
motivo io preferisco vedere almeno
una volta il film prima dell’esecuzione
dal vivo. Ma spesso non è possibile far¬
lo perché durante i festival la copia ar¬
riva a ridosso della proiezione.
Gianluca Farinelli ha dedicato il suo in¬
tervento durante il seminario per gli eser¬
centi europei all'importanza dell'accom-
pagnamento musicale dei film. Credi che
sarebbe un modo per avvicinare il pub¬
blico più giovane al cinema muto utiliz¬
zare i suoni di oggi nell'accompagna¬
mento ?
Per attirare i giovani verso il cinema
muto credo sia necessario introdurli a
ciò che stanno per vedere, parlare del
film e del linguaggio cinematografico,
non tanto utilizzare strumentalmente
la musica per attrarli. Ciò detto, alcuni
film si prestano sicuramente meglio di
altri all’uso di linguaggi musicali mo¬
derni: uno fra tutti è, ad esempio, Me¬
tropolis (1927) di Fritz Lang, che con il
suo carattere modernista e, al centro,
un’idea utopica del futuro può prestar¬
si all’utilizzo di suoni contemporanei 4 .
Il rischio è però che un loop elettroni¬
co imponga il suo carattere “moderno”
a non importa quale film. La musica
non è un linguaggio universale; tutto
appartiene a un contesto. Gli accosta¬
menti di stili lontani e diversi tra loro
devono partire da una profonda consa¬
pevolezza della cultura e della storia
del cinema e della musica.
Non credo quindi che sia necessario,
per allargare il pubblico, accompagna¬
re i film con sonorità popolari tra i
giovani, si rischierebbe un appiatti¬
mento e forse la perdita del pubblico
che ora popola i festival dedicati al ci¬
nema muto. Nella scena musicale la
questione della pluralità dei linguaggi
è centrale da almeno trent’anni e non
può essere risolta con semplici dichia¬
razioni d’intenti o con una program¬
matica adesione a uno stile piuttosto
che a un altro.
Serena Aldi
Note
1 La pubblicazione degli atti è prevista per la pri¬
mavera del 2008.
2 Per ulteriori notizie si veda il sito
http://www.marcodalpane.com.
3 La composizione della musica e la prima regi¬
strazione sono del 2000.
4 Lo stesso Dalpane ha composto per Metropolis
una colonna sonora utilizzando suoni elettronici.
XII Pusan International Film
Festival (PIFF)
Pusan, 4-12 ottobre 2007
Asia: le nuove correnti vengono
da Sud Est
Vi sono dei festival che rimangono
impressi nella memoria come occasio¬
ni di un’epifania, lo svelamento di
un’opera la cui eccellenza lascia varie
spanne indietro tutto il resto che s’è in
tal occasione visionato e che annuncia
un talento così vivido che se già im¬
pazienti di rivisitarne le doti in film a
venire. La XII edizione del Festival
Internazionale di Pusan, principale
vetrina cinematografica del continen¬
te asiatico, rimarrà certo memorabile
per la rivelazione di un’opera di cui si
sentirà ancora molto parlare nei mesi
a venire, in vista del suo ingresso nel
circuito festivaliero europeo ad inizio
2008 (prima tappa a gennaio in con¬
corso all’International Film Festival
Rotterdam), Wonderful Town (2007)
di Aditya Assarat. Un film invero e
quasi tautologicamente meraviglioso,
costruito su una ricerca espressivo-
formale intesa a captare l’atmosfera di
un luogo, il suo fascino, il suo mistero,
la sua minaccia ben al di là del narra¬
tivo e del verbale: la condensazione
dello spirito, dell’anima di un abitato e
degli spazi limitrofi attraverso suoni e
immagini la cui sublime bellezza non
è mero compiacimento estetico, ma
tessitura di una trama d’immagini che
riproduce quasi matericamente la pe¬
sante umidità dell’aria, la sonnolenta
quiete di una città che ha vissuto tem¬
pi migliori e una sensualità diffusa che
s’insinua tra inquadratura e inquadra¬
tura e prorompe in flutti che avvilup¬
pano allorché la camera prende a
muoversi. Giustissimo che questo pri¬
mo lungometraggio di un cineasta già
molto apprezzato e premiato per i
suoi lavori di cortometraggio e che si
profila come, finalmente!, seconda
grande firma di un vero cinema d’au¬
tore tailandese dopo Apichatpong
Weerasethakul, abbia quindi vinto
uno dei tre eguali New Currents
Award della competizione per opere
prime e seconde asiatiche.
Condivisibile pure la scelta del premio
per Flower in thè Pocket (2007) del ci¬
nese di Malaysia Liew Seng Tat, an¬
ch’egli già noto nel circuito festivalie¬
ro per una serie di corti che già sfode¬
ravano l’ironia pungente e sfrontata,
ma mai volgare che si ritrova in que¬
sta cronaca d’infanzia all’insegna del¬
l’assenza parentale in parallelo alla
cronaca di una paternità dimenticata
che deve a sua volta sormontare un
abbandono per ritrovarsi. Meno sod¬
disfacente, seppure davvero non mal-
Flower in thè Pocket
The Red Avm
45
r
46
LE CITTÀ DEL CINEMA
vagio, il terzo vincitore, il cinese Life
Track ( Guedo , 2007) di Jin Guang Hao
che convince di più allorché si dilunga
in una cronaca documentaria del quo¬
tidiano di un individuo nato senza
braccia, mostrandoci come con de¬
strezza sormonti con l’utilizzo dei pie¬
di gli ostacoli ordinari della sua disabi¬
lità, ma che s’impantana in un costrut¬
to narrativo dalla significazione pesan¬
te, con tanto d’irrisolto trauma infan¬
tile per il protagonista e affrancamento
di una figura femminile, clandestina
nordcoreana, sordomuta e per di più
sospetta di propagare il virus della
SARS! Davvero troppo se si aggiunge
poi che il film paga il supporto pro¬
duttivo di un altro coreano di Cina,
Zhang Lu (regista di Grain in Ear,
Mang Zhong, 2005, vincitore a Pusan
2006, e di Desert Dream , Hyazgar, vi¬
sto in concorso a Berlino 2007) con
strizzatine d’occhio stilistiche (si veda
la sequenza che riproduce pedissequa¬
mente il finale di Grain in Ear) di con¬
gruità discutibile.
La giuria presieduta dall’iraniano Da-
riush Mehrjui e che includeva pure
Cristian Mungiu e Lee Chang-dong
ha comunque segnalato pure tre degli
altri undici titoli in competizione,
dando giusta e visibile conferma del¬
l’ottima levatura della selezione e po¬
nendo l’accento sulla vitalità e libertà
d’espressione iniettate nelle cinemato¬
grafie d’Asia dall’utilizzo del digitale.
Per contro, la giuria Rpresci ha prefe¬
rito per il suo riconoscimento un film
girato in 35mm che vantava il timbro
d’approvazione dell’Ufficio centrale
del Cinema di Pechino, The Red Awn
(Hongse Kanbaiyin, 2007) di Cai
Shangjun. Niente di più inoffensivo e
conservatore di un drammone ben re¬
citato, di solida scrittura e messinscena
incentrato sull’(apparentemente) im¬
possibile riconciliazione tra padre e fi¬
glio divisi da uno strappo che suppor¬
ta l’abusata dicotomia tra una campa¬
gna ricettacolo dei buoni, sani valori
tradizionali cinesi ed una città mere¬
trice ammorbata dal flusso del danaro
e dalla modernizzazione-occidentaliz¬
zazione. Sconcertante, per davvero,
quindi che la giuria dei critici interna¬
zionali abbia sostenuto una lavoro di
levigata confezione, ma la cui proposta
di cinema era la meno nuova tanto lin¬
guisticamente quanto a livello di signi¬
ficazione profonda di tutto il concorso.
Meglio, molto meglio, le segnalazioni
di merito della giuria per il vibrante
Tribù del filippino Jim Libiran, che as¬
sembla un livido spaccato dei bas¬
sifondi di Manila attraverso i fram¬
menti di ventiquattrore nella vita di
un quartiere segnato dai conflitti tra
gang di strada, per l’etereo God Man
Dog (Liu lang shen gao ren, 2007) della
taiwanese Chen Singing, che scruta la
XXVI Le Giornate del Cinema
Muto
Pordenone, 6-13 ottobre 2007
Inedita Starevic
In esclusiva per la XXVI edizione di
Le Giornate del cinema muto, dalla Col¬
lezione di Léona Béatrice Martin Sta-
rewitch (che conserva e restaura i film
del nonno), a Pordenone si è tenuta
un’inedita rassegna dell’opera di Ladi-
slav Starevié. Grazie ad una selezione
ragionata (che, sorprendentemente,
propone tutte copie in 35mm), il Fe¬
stival ha restituito Starevié, se non al
titolo di maestro assoluto dell’anima¬
zione russa, almeno al pantheon dei
pionieri dell’animazione su scala euro¬
pea. Come i suoi contemporanei padri
dell’effetto 3D (Méliès, Blackton,
Cohl, de Chomon), Starevié (1882-
1965) inizia, però, con un genere di¬
verso, e cioè con i film dal vero. Oriun¬
do polacco di Lituania, emigra in Rus¬
sia, dove lavora come impiegato, fino
al 1911, anno in cui l’impresario
ChanìSonkov lo assume, per sfruttarne
il talento di fotografo (in specie per l’e¬
sposizione multipla) e di scenografo
(addetto soprattutto ai costumi da ma-
squerade). Promosso alla regia, Starevié
si scopre inadatto al lavoro con l’atto¬
re. Perciò si specializza piuttosto nel
film a passo uno, dove dirige coleotte¬
ri, cicale e scarabei e rane in plastilina 1 ,
che conforma al gusto coevo, umaniz¬
zandoli e travestendoli. Nel suo labo¬
ratorio, fabbrica fino a 500 maschere
(da ripresa a mezzobusto) per ciascuna
bambola e filma due metri di pellicola
all’ora, ammesso che nella scena appaia
un unico personaggio; per i primissimi
piani, trucca invece le bambole come
vere e proprie attrici viventi 2 . In La
vendetta del cameraman (Mest’ kinema-
tograficeskogo operatora, 1911), la cicala
operatore di pipe-show, a tempo perso,
anche pittore bohèmienne (con il cap¬
pello a tesa larga, tipico dei simbolisti)
agita il quieto vivere di una serena
coppia borghese di scarafaggi. In II
Natale degli insetti (Roidestvo obitatelei
lesa, 1911), una bambola di porcellana
sogna 0 leggendario Ded’moroza (alias
Babbo Natale) mentre tramuta insetti
in aiutanti. Di ceto poverissimo, Stare¬
vié, nel 1917, accetta il compromesso
con Chanzonkov, e si trasferisce agli
studi secessionisti di Jalta. Sull’onda
dell’esodo bianco, nel 1920, si stabilisce
infine a Parigi. Qui si apparta nella vil¬
la di Fontenais-sous-bois, con la mo¬
glie Anja (che cuce i costumi per le
animazioni) e la figlia Nina (Nina
Star) vera e propria attrice del periodo
parigino, e la seconda figlia Irina, sua
assistente, aiutante e sceneggiatrice.
Saltando a piè pari gli sconvolgimenti
russi del ’17-’20, e isolandosi, parimen¬
ricerca di spiritualità di un manipolo
di personaggi di diversa estrazione et¬
nica e sociale nel sincretico e spurio
paesaggio religioso della Taiwan d’og¬
gi, e per il sensibile film al femminile
Asyl (2007) del giapponese Kumasaka
Izuru.
Da segnalare in negativo sono, per
contro, le nuove proposte coreane, le
cui debolezze danno da pensare. Milky
Way Liberation Front (Eunha-haebang-
jeonseon, 2007) di Yoon Seong-ho
(opera prima) e My Song Is... (Na-eui
Norae-neun..., 2007) di Ahn Seul-ki
(secondo film) non solo erano le due
opere più sbilanciate e acerbe della
competizione, ma condividevano pure
un repertorio tematico - quello che fa
leva su giovani che vogliono fare cine¬
ma, le loro difficoltà nel realizzare i
propri film e i loro problemi di cuore -
sintomatico di un ripiegamento ombe¬
licale nelle nuovissime leve del cinema
di Seoul e dintorni. Il successo interno
e internazionale del nuovo cinema co¬
reano ha fomentato una sentita cultu¬
ra cinefila, tinta pure di questionabili
venature di rivalsa nazionalistica, por¬
tando sempre più giovani a tentare la
strada del cinema: ma questi giovani
hanno qualcosa da raccontare al di là
delle esperienze/peripezie proprie (o
di proiezioni finzionali) nel tentativo
di mettere in piedi un film o di farsi
una fidanzata? Il cinema coreano dei
tardi anni Novanta e d’inizio decennio
ha costruito la sua grandezza su una
decostruzione spesso distopica del pa¬
norama culturale e politico della Corea
del Sud contemporanea; oggi, assistia¬
mo invece ad un riflusso in debito
d’osservazione/critica del reale (o, an¬
cor peggio, di un qualsivoglia altro da
sé) di cui i film di Yoon e Ahn sono so¬
lo i più recenti esempi. Che si possa
definitivamente apporre la parola fine
ad un’importante stagione del recente
cinema mondiale?
Paolo Bertolin
ti, dall’ambiente francese (di cui non
assimila la lingua, quasi abolendo la
didascalia), Starevié riprende qui la
sua fabbricazione di sculture lignee,
articolate e ricoperte di pelle di camo¬
scio (adattate al corpo dell’insetto o
dell’animale antropomorfo). Tuttavia,
pur mantenendo i tratti arcaicizzanti
delle byline russe, Starevié immette
ora nel suo repertorio nuovi personag¬
gi: ecco che appaiono les marionettes
(bambole di porcellana, a molla* sol¬
datini di piombo). I corti del periodo
francese testimoniano così di un ori¬
ginale amalgama di culture. All’inter¬
no del melodramma inscenato dalla
marionetta dagli occhi di vetro (tipi¬
camente occidentale), s’innesta lo
sguardo e la mimica della scuola russa
del Teatro d’Arte di Mosca. “Queste
bambole hanno una testa talmente
grande, che potrò mostrarle in primis¬
simo piano. Attori siffatti possono re¬
citare con gli occhi in modo che i loro
pensieri siano chiari allo spettatore” 3 .
In Lo spaventapasseri [L'Epouvantail,
1921), demoniaci mostriciattoli in
plastilina (frutto di un delirio etilista
in stagione di vendemmia) giocano
d’azzardo con un muìik, cui rubano
l’anima, barando tramite una com¬
plessa rete di sguardi. In questo primo
periodo francese, si avvertono forti re¬
miniscenze slave, che, a lato dei tratti
più evidenti (gli scorci innevati con le
isbe), rimandano sottilmente perfino
agli eventi della rivoluzione russa. Co¬
sì in Le rane chiedono un re (Les Gre-
nouilles qui demandent un roi, 1922), si
narra la catastrofica e sanguinosa pa¬
rabola politica che investe un fanto¬
matico regno di rane antropomorfe a
partire dai moti “per la democrazia”,
attraverso la fase del re buono, che
però è un tronco inerte, e, non gover¬
nando, provoca infine l’anarchia, seda¬
ta dal “re cattivo”, ossia una cicogna
che divora il suo stesso popolo.
Dunja Dogo
Note
1. Natalja Nusinova, Kogda my v Rossiju vernjom-
sja... y Mosca, NIIK, 2003, p. 261.
2. Ladislav Stareviò dt. in Ibidem , p. 262.
3. Ladislav Starevié dt. in Ibidem , p. 261 (tradu¬
zione mia).
LE CITTA DEL CINEMA
L’interazione tra narrazione e spa¬
zio in un film di fine Ottocento
Una fortuita scoperta in un negozio di
antiquariato, compiuta dai direttori
della Lobster Films di Parigi, ha ripor¬
tato alla luce, nel marzo 2007, i nega¬
tivi di alcuni filmati realizzati in Me-
dioriente attorno all’anno 1897 e, in
buona parte, ispirati ad episodi della
Bibbia. Alcuni di essi sono stati inseri¬
ti con il titolo di Bìble Lands Films nel
programma delle Giornate del Cine¬
ma Muto, tornato nel Teatro Verdi di
Pordenone dopo gli anni del forzato
esilio di Sacile.
Tra questi film ritrovati fortunosa¬
mente ce n’è uno, Saint Joseph Repoussé
de Bethleem , che ci ha colpito partico¬
larmente, perché solleva alcuni inter¬
rogativi sulla relazione tra cinema del¬
le origini, narrazione e spazio. Esso,
nonostante la brevità, sviluppa una
narrazione lineare ed è privo di quelle
attrazioni dal forte impatto visivo che
costituiscono, in buona parte, il fulcro
del cinema delle origini. Il rapporto di
causa ed effetto che lega gli eventi rap¬
presentati è chiaro: alcuni personaggi
in cammino (evidentemente il santo
del titolo ed i suoi accompagnatori)
giungono di fronte al portone di una
casa, bussano, il custode o proprietario
apre il portone e, dopo una breve con¬
versazione, li caccia in malo modo; i
viandanti, perciò, si allontanano dalla
casa riprendendo il loro cammino.
Come sviluppa la narrazione l’autore
del filmato, in un periodo in cui la
scansione delle inquadrature ed il
montaggio sono opzioni di là da veni¬
re? Tale autore (alcuni indizi fanno
pensare a Albert Kirchner, in arte
Lèar) architetta una sola inquadratura
valorizzando in chiave narrativa lo spa¬
zio in profondità e lo spazio laterale.
Questo processo di accumulazione
narrativa su una singola inquadratura
diventerà usuale negli anni successivi,
fino a quando il montaggio e quello
che Noèl Burch ha definito il Modo di
Rappresentazione Istituzionale 1 di¬
venteranno predominanti.
Sullo schermo scorgiamo i viandanti
che dalla zona centrale dello sfondo,
camminando su una strada, si avvici¬
nano verso il primo piano: il movi¬
mento in avanti ci suggerisce il loro
lungo cammino e va inscritto in quella
valenza narrativa della profondità di
spazio cui abbiamo accennato (si badi
bene: parliamo della profondità di spa¬
zio, e non della profondità di campo).
Tuttavia, un grande problema si pre¬
sentò agli autori della pellicola nel mo¬
mento in cui fu adottata una soluzione
del genere: come indirizzare l’occhio
degli spettatori verso dei personaggi
che appaiono, inizialmente, in lonta¬
nanza e dunque piccoli? La risposta a
questa domanda ci permette di capire
come tanto la scelta del luogo delle ri¬
prese quanto la disposizione degli at¬
tori al suo interno testimonino una ac¬
curata pianificazione. Sono, infatti, al¬
meno tre i fattori che guidano il nostro
occhio verso i viandanti:
la strada dove essi si muovono è retti¬
linea e taglia centralmente l’inquadra¬
tura;
il muro di cinta della casa verso cui i
viandanti si stanno recando (la casa è
posizionata nella parte sinistra dell’in¬
quadratura) costeggia la strada, facen¬
do sì che le Enee che ne tracciano le
estremità convergano verso l’area cen¬
trale dello sfondo;
un bambino collocato nell’area più vi¬
cina allo spettatore, indicativamente
nella parte centrale dell’inquadratura,
non essendo rivolto verso la macchina
da presa e non svolgendo un’azione di
rilievo, spinge la nostra attenzione al¬
trove, con la conseguenza di dare mag¬
giore peso visivo ai personaggi che si
muovono in lontananza.
Una volta che il santo ed i suoi accom¬
pagnatori hanno risalito la strada, vie¬
ne sfruttato lo spazio laterale per por¬
tare avanti la narrazione: essi si sposta¬
no prima sul lato sinistro dell’inqua¬
dratura, dove si trova il portone della
casa, poi sul lato destro quando ripren¬
dono il cammino. Dato che, nello svol¬
gimento di questi eventi, l’inquadratu¬
ra non è più centrata, forse la presenza
del bambino serviva anche a mantene¬
re un bilanciamento visivo (d’altronde,
la sua presenza, che sia involontaria o
meno, può acquisire anche un valore
concettuale, mettendo in mostra egli
una quotidianità ordinaria - ed un
senso di appartenenza al luogo rappre¬
sentato - che i viaggiatori, data la loro
transitorietà, non possono vantare).
Sottolineiamo anche che, se la memo¬
ria non ci inganna, i personaggi vengo¬
no fatti uscire di campo, evidentemen¬
te per suggerire il proseguimento del
loro cammino; anche lo spazio fuori
campo, quindi, sembra essere stato
preso in considerazione con una fina¬
lità narrativa ben precisa.
Roberto Vezzani
Note
1. Facciamo naturalmente riferimento a Noèl
Burch, Il lucernario dell'infinito. Nascita del lin-
guaggio cinematografico , Parma, Pratiche Editrice,
1994.
Mesi’ kinematograficeskogo operatora
Le pellicole dei Bìble Lands Films
47
LE CITTA DEL CINEMA
48
II Cinema - Festa Intemaziona¬
le di Roma
Roma, 18-27 ottobre 2007
Riflessi in uno specchio oscuro
Onora il padre e la madre (Before thè
DeviiKnows Youre Dead, Sidney Lu-
met, 2007)
Alcune volte il cinema lo guarda, altre
volte fa in modo che ci guardi. In un
caso o nell’altro il Male abita le imma¬
gini dell’ultimo film di Sidney Lumet,
rendendole di volta in volta irresistibi¬
li o intollerabili. Before thè Devii
Knows You’re Dead si infila sotto la pel¬
le e appanna nel ricordo gli altri film
che hai visto nella stessa giornata. I fe¬
stival funzionano anche così: schiac¬
ciano un film sull’altro, fanno sbiadire
certe immagini e te ne imprimono al¬
tre negli occhi e nel cuore. La sera non
hai quasi più voglia di vedere il film
che aspettavi con ansia, il tuo buio lo
hai già incontrato di giorno alla proie¬
zione di Before thè Devii Knows You’re
Dead, e ti senti satollo e appagato. Le
sue immagini ti riattraversano, ritorna¬
no. La lucidità vacilla come lo sguardo
drogato di Philip Seymour Hoffman e
a quel punto ti perdi davvero nel buio.
Una volta si sarebbe detto che stavi al¬
largando i confini della coscienza. Ora
invece senti che sei soltanto nel ventre
oscuro dell’Auditorium del Festival di
Roma. Before thè Devii Knows You’re
Dead prende in prestito il titolo da un
vecchio adagio irlandese {May you he
in heaven half an hour before thè Devii
knows you’re dead), che accompagna il
disfacimento morale-economico di
una “buona” famiglia americana e che
rammenta allo spettatore che il tempo
è in ogni caso dalla parte del male.
Perché il tempo misura, col suo scorre¬
re inesorabile, la dimensione del limite
terreno, sancendo con forza l’inappel¬
labile finitudine dell’essere umano
contro la ciclicità eterna della condi¬
zione infernale, per cui ciò che accade
a uno dei fratelli Hans è già accaduto
all’altro ed è destinato ad accadere di
nuovo e di nuovo. La destrutturazione
temporale impiegata da Lumet, il
montaggio di molteplici sguardi, che
sono poi lo stesso sguardo, non sono
mero mestiere. Ma procediamo con
ordine. Andy e Hank sono fratelli, di¬
versamente infelici e diversamente di¬
sperati. Per potere fare fronte a impel¬
lenti problemi finanziari - Andy ha at¬
tinto dalle casse della sua società i sol¬
di per drogarsi e per mantenere uno
stile di vita elevato, Hank è sempre in
ritardo sui pagamenti degli alimenti e
vorrebbe iscrivere la figlia ad un’esclu¬
siva scuola privata - i due escogitano
di rapinare la gioielleria dei genitori la
mattina presto, quando in negozio ce
soltanto la commessa addetta all’aper¬
tura. Il piano approssimativo ed ele¬
mentare, progettato da Andy e “assol¬
to” da Hank, fallisce drammaticamen¬
te, innescando una spirale di violentis¬
sime e tragiche conseguenze. Before thè
Devii Knows Youre Dead genera così
due ore di dramma scespiriano non di¬
chiarato, immergendo paesaggi e pro¬
tagonisti in una tragedia immensa. La
follia implacabile dei personaggi e del¬
la storia diegetica converge con la sua
struttura: Lumet inscena in accordo a
quello che inscena. Una regia che
guarda e riguarda, mai stanca e remis¬
siva nei confronti della materia.
Grammatica e contenuto cortocircui¬
tano insieme alle menti e alle azioni
dei personaggi. Lumet costruisce e ri¬
costruisce all’infinito la rapina dei fra¬
telli Hanson attraverso i momenti che
l’hanno preceduta e attraverso le ore
immediatamente successive, restituen¬
do più punti di vista e ricomponendo i
pezzi senza catarsi. Lumet, come il
Kubrick di Rapina a mano armata ( The
Killing, 1955), dirige senza partecipa¬
zione la distruzione delle illusioni dei
suoi personaggi. Before thè Devii
Knows You’re Dead mutua l’epica grot¬
tesca dei Soldi Sporchi {A Simple Pian,
1998) di Sam Raimi, caposaldo recen¬
te di quel genere in cui ogni azione te¬
sa a nascondere un defitto non può che
provocare una catena di conseguenze
sempre peggiori. Sidney Lumet non
emette un giudizio morale, limitando¬
si a mostrare gli avvenimenti dalla par¬
te di ciascun personaggio, lasciando al¬
lo spettatore-giurato l’onere della sen¬
tenza e della conclusione. Before thè
Devii Knows Youre Dead, che esce in
Italia con il curioso titolo (si fa per di¬
re) Onora il padre e la madre, come tut¬
to il suo cinema è caratterizzato da
un’abile commistione di autorialità e
mainstream\ l’uomo ancora una volta è
sopraffatto da eventi più grandi di lui,
bigger than life, come accadeva nella
rapina di Quel pomerìggio di un giorno
da cani (Dog Day Aftemoon, 1975) o
sulla Collina del disonore {The Hill,
1965). La scenografia urbana è irrico¬
noscibile e proprio questa incoerenza
spaziale è l’indizio più evidente del di¬
sorientamento dei protagonisti. La
città perde la sua logica topografica
per diventare specchio dell’interiorità
turbata e malata del personaggio inter¬
pretato da Hoffman. Andy, più di ogni
altro nel film, lascia emergere il “pri¬
ma” della famiglia Hanson, che ha
messo radici ed è pronto ad esplodere.
La sua capacità percettiva, alterata dal¬
la cocaina sparata direttamente in ve¬
na, intensifica l’esperienza di uno spa¬
zio labirintico e surreale su cui plana¬
re, dentro il quale muoversi quasi al¬
leggerito dalla pesante corporeità. La
figura archetipica del labirinto viene
ribadita e confermata dalle scenogra¬
fie: i corridoi dell’ufficio di Andy, del
suo appartamento, dell’ospedale in cui
madre e figlio verranno ricoverati,
tracciano il percorso rituale del suo
personaggio. Il labirinto è la materia¬
lizzazione del luogo in cui ci si può
smarrire, dove la via si frantuma e si
biforca nascondendo l’inganno, è
esemplificazione iconografica dell’av-
venuta perdita del centro, è erranza
senza direzioni. Before thè Devii Knows
You’re Dead è un elogio del disordine
labirintico, che scopre il valore dell’in¬
terferenza, del caso e della disconti¬
nuità. Dissipando l’ombra del diavolo e
della senilità, Sidney Lumet dirige un
film sull’abisso domestico come non
riesce ormai alla media del cinema sta¬
tunitense. Al contrario di Mystic River,
in cui il nucleo familiare resta coeso
ad ogni costo, in Before thè Devii
Knows Youre Dead crolla in verticale e
consuma l’esecuzione in seno alla fa¬
miglia. Il padre di Albert Fmney. rag¬
giungerà il figlio al centro del labirin¬
to, nel luogo sacro in cui si celebra il
sacrifìcio. Il diavolo non ha corpo. Il
diavolo, piuttosto, è in corpo. Nel figlio
che “uccide” la madre, nel padre che
soffoca il figlio. Nessuna esitazione,
nessuna pausa pietosa di fronte all’a¬
more.
Marzia Gandolfì
Onora il padre e la madre
Onora il padre e la madre
LE CITTA DEL CENEMA
VII Science + Fiction - Festival
Intemazionale della Fantascienza
Trieste, 12-18 novembre 2007
Effetti speciali, mozzarelle e
“cattiveria” spagnola
La Hora Fria (Elio Quiroga, 2006)
Cronocrimenes (Nacho Vigalondo,
2007)
Anche quest’anno si è tenuta, con rin¬
novato successo, la manifestazione de¬
dicata all’esplorazione dei mondi del
fantastico, organizzata dal centro ri¬
cerche e sperimentazioni cinemato¬
grafiche del capoluogo giuliano La
Cappella Underground. Il Scien-
ce+Rction festival, dal 2005 membro
dell’European Fantastic Rim Festivals
Federation, consorzio che riunisce le
principali rassegne del genere nell’UE,
si è contraddistinto nella sua settima
edizione per una consistente presenza
di pubblico a dimostrazione dell’ormai
piena maturità raggiunta dalla ker¬
messe.
Ad aprire il palinsesto, Metropoli
(1927) di Fritz Lang presentato, con
accompagnamento musicale dal vivo,
nella versione restaurata del 2001. Ma
non è stato questo il solo omaggio alla
produzione di genere sci-fi degli albo¬
ri della cinematografia: merita, infatti,
di essere citata la proiezione di un al¬
tro film muto, Adita (1924) di Yakov
Protazanov, considerato il primo Ko¬
lossal sovietico di fantascienza. Un’a¬
stronave conduce su Marte due intre¬
pidi sovietici, Gusev, un soldato della
Rivoluzione d’Ottobre, e l’ingegnere
Los, i quali vi scoprono un mondo abi¬
tato da umanoidi tiranneggiati dalla
bella regina Aelita e da un’oligarchia di
anziani. Decidono, allora, di porsi alla
testa del popolo del pianeta allo scopo
di rovesciare la classe dominante mar¬
ziana. Il film, curioso tentativo di
esportare a livello interplanetario i
principi della rivoluzione comunista, è
stato presentato in una nuova sezione,
Marx Attacks!, la quale prende il via
proprio con questa edizione del festi¬
val e che, in occasione del cinquante¬
nario dell’impresa dello Sputnik, inau¬
gura un ciclo dedicato alla Science fic-
tion prodotta nei paesi dell’Europa
dell’est. A comporre quella che si rive-
ila essere una delle monografìe di gene
re più complete mai realizzate, le pelli
cole recentemente presentate all’Ame-
rican Cinematheque di Los Angeles,
in una retrospettiva intitolata From
The Tsars To The Stare: A Journey Th-
rough Russimi Fantastic Cinema, più il
significativo apporto dello storico fon-
do di pellicole dell’Associazione Italia-
URSS conservato presso la Cineteca
di Bologna.
Altra sezione dedicata è Voyage Fanta-
stique , che dopo l’omaggio a Jules Ver-
ne nel 2005, e la retrospettiva Nouvel-
le Vague e Science Fiction del 2006, si
è rivolta quest’anno agli incroci tra il
cinema di fantascienza francese e il
mondo del fumetto, presentando film
di animazione della portata de II pia¬
neta selvaggio {La Planète sauvage,
René Laloux, 1973). Ospite d’eccezio¬
ne Jean Giraud, in arte Moebius, gran¬
de artista del fumetto, coinvolto anche
nella realizzazione di capolavori sci-fi
come Alien (Ridley Scott, 1979) e II
quinto elemento {Le Cinquème element,
Lue Besson, 1997).
Momento centrale della manifestazio¬
ne rimane, però, la sezione Neon, in vi¬
sta dell’assegnazione del premio Aste¬
roide, destinato al miglior lungome¬
traggio in concorso. Iniziato nel 2004
e dedicato ai talenti emergenti, nelle
passate edizioni il concorso è stato ric¬
chissimo di film a medio e basso costo,
mentre quest’anno ha presentato
un’ampia selezione di opere firmate da
giovani registi che hanno potuto con¬
tare su budget piuttosto consistenti,
sintomo, forse, di una riconquistata fi¬
ducia delle case di produzione verso il
genere sci-fi. Esempi di questa nuova
tendenza il noir iper-tecnologico fran¬
cese Chrysalis (Julien Leclercq, 2007),
il russo The Sword Bearer {Mechenosets,
Philipp Yankovsky, 2006), il wu-xia-
pian finlandese che ricostruisce su at¬
mosfere orientali il poema epico nor¬
dico “Kalevala” Jadesoturi (Antti-Jussi
Annida, 2006), e lo spagnolo La Hora
Fria (2006) di Elio Quiroga, prodotto
ambizioso, sebbene non pienamente
riuscito, in cui i notevoli effetti specia¬
li sono abilmente distribuiti, senza gli
abusi e gli sfoggi gratuiti presenti in
molte delle altre pellicole in concorso.
Nel film, otto superstiti di una generi¬
ca guerra definitiva vivono rinchiusi in
un labirintico complesso sotterraneo,
circondati da aree contaminate abitate
da esseri mutanti, ed entità di ancor
più oscura provenienza che vengono a
dare loro la caccia la notte, durante l’o¬
ra più fredda appunto, attratti dal ca¬
lore dei corpi. Tra le necessità più ele¬
mentari per la sopravvivenza e i peri¬
coli esterni, saranno piuttosto gli odi,
le rivalità e le piccole e grandi meschi¬
nità degli stessi otto a dividere il grup¬
po condannandolo irrevocabilmente e
con esso l’umanità intera.
Nonostante questo diffuso, rinnovato
interesse per l’effetto speciale delle
produzioni sci-fi, la scelta del vincitore
del concorso da parte della giuria è ri¬
caduta, invece, sul film che più di tutti
se ne è tenuto lontano, premiato, anzi,
proprio “per la sua capacità di dimo¬
strare che anche con un piccolo budget
si possono raccontare delle storie
straordinarie”. Si tratta di un’altra pel¬
licola spagnola, Cronocrimenes (2007)
di Nacho Vigalondo, primo lungome¬
traggio del giovane regista che nel
2005 è stato in corsa agli Oscar con il
corto 7.35 de la manana. Héctor, nel
giardino di casa, è improvvisamente
attratto dalla figura di una bella ragaz¬
za in atteggiamento bizzarro. Incurio¬
sito, si mette a cercarla, ma una volta
scovatala priva di conoscenza in un
bosco adiacente, si trova a fuggire a sua
volta da un misterioso uomo con il vi¬
so coperto da una bendatura rosa ed
armato di un paio di forbici. Nella fo¬
ga trova riparo in un misterioso labo¬
ratorio dove un giovane scienziato, in¬
terpretato dallo stesso regista, si offre
di aiutarlo nascondendolo in una sorta
di cisterna che, però, trasporta il prota¬
gonista in un vero e proprio incubo
temporale e lo rende, di volta in volta
nel suo ripetersi, un uomo peggiore,
dentro e fuori. Héctor, infatti, nel di¬
sperato tentativo di tornare alla nor¬
malità, si trova a compiere azioni sem¬
pre più orribili, mentre le brutture dei
suoi crimini si riflettono sul suo stesso
aspetto, permettendoci di capire, nel¬
l’intrico della vicenda, quale Héctor
(numero 1, 2 o 3) stiamo osservando.
Più vicino al genere fantastico di certe
puntate di Ai confini della realtà che al¬
l’ambito fantascientifico vero e pro¬
prio, il film riesce a ricreare con pochi,
semplici mezzi (la futuristica macchi¬
na del tempo è, nella realtà, un’appa¬
recchiatura per produrre mozzarelle)
un’atmosfera angosciosa che conquista
lo spettatore e lo trasporta assieme al
protagonista, in un eterno ritorno la
cui soluzione giungerà inaspettata.
Vincitrice morale del festival è stata,
però, la cinematografia spagnola tutta,
distintasi nel corso della manifestazio¬
ne per originalità e voglia di osare, tan¬
to da meritarsi un’intera giornata ad
essa dedicata, coronata dalla proiezio¬
ne notturna di Ree (2007) di Jaume
Balagueró. Elemento comune dei film,
nella loro pur notevole diversità, una
dominante fatta di pessimismo ed
egoismo. La “cattiveria” che li attraver¬
sa, anche se mai gratuita e sempre mo¬
tivata da necessità di vario tipo, la fa da
padrona, e queste pellicole, bea lungi
dal farsi portatrici di qualsiasi senti¬
mento di solidarietà, diventano le in¬
terpreti più puntuali della massima
mors tua vita mea a fornire un ritratto
impietosamente feroce della natura
umana.
Laura Sangalli
Cronocrimenes
La Hora Fria
LE CITTA DEL CINEMA
XXV Torino Film Festival
Torino, 23 novembre-1 dicembre
2007
Il cielo sopra Torino
Secondo i tabloid locali il festival non
è mai andato così bene: gli albergatori
sono in festa, Wim è in festa. Rutelli
accorre per apporre le mani e benedire
la comunità giornalistica. Sottotitolo:
“palombella rosa”. Tutti esultano sotto
l’occhio di bue (ed anche un po’ porci¬
no) richiamato dalla presenza del pa¬
tron di questa nuova edizione festiva¬
liera: stirata, inamidata ed epurata. To¬
rino is calling. L’“edizione zero”, come
l’hanno spericolatamente ribattezzata
gli organizzatori, vorrebbe bruciare le
tappe: di certo sorge da dibattute ce¬
neri. Quest’Araba Felice, che a noi è
sembrata un po’ spelacchiata, si è mo¬
strata vagamente ostile verso quei
molli esteti dei cinefili, progettata così
com’è se si vuole “tonicamente”, ossia a
godimento della cittadinza... (a chi
interessa: si guardi la pregressa querelle
sulle finalità e destinazioni della “visi¬
bilità mediatica” del festival, e del “ri¬
cambio generazionale” del suo CDA,
in particolare l’articolo di Roberto
Alonge “TFF e TST: Prof, Politici e
Taxisti”, sapido scorcio che fotografa
guelfi e ghibellini della città sabauda e
non solo; da cui la replica di Franco
Prono: “Polemiche (sanguinose). Cul¬
tura e assessori: solo ufficiali pagato¬
ri?” 1 . La direzione ha sbandierato cifre
abbaglianti su incassi ed affluenza di
pubblico. Ricapitolando: un festival
concepito come rassegna culturale, un
collettore di film “vincenti” apparsi in
altri festival. Pingue, il botteghino.
Due nuove sezioni: “La zona” e “Lo
stato delle cose”. Meno anteprime e
più prime. Tante, tante, tante confe¬
renze stampa. E la diligenza arriva a
dovuta destinazione nello scenario
cultural-pop allargato voluto da
Chiamparino.
A proposito di stelle di latta: mentre in
quel di Petronia si facevano scintille, in
montaggio parallelo “Chiampa” depu¬
rava l’assetto urbano dai cascami del¬
l’esperienza centrosocialista. Ma nes¬
suno ha battuto ciglio. Quella era
un’altra sezione del festival: “La Zona
Sgomberata”. Rimanendo in tema di
guastatori vado a vedermi l’ultimo re¬
stauro di Maciste. Questa volta il for¬
zuto fascista è calato nella gabbia dei
leoni 2 . Astuto Brignone. Tra-guarda
pagane (di Pagano, Bartolomeo) esibi-
zìonì attraverso le sbarre della gabbia,
in modo da comporre una baziniana
coalescenza di uomo ferino + fiera cìr-
Ctìftòfc. Qf cinema è un ibrido tra '
\Verni ii-tllm . ( .i coloniali -
'i con tw nt io* di 'ii
gretti cortei Mod pie tu f \nonimo
Pittaluga, produttore del film, non
aveva colpa. Chi qualche colpa ce l’ha
sono, a nostro avviso, i Marlene Kuntz,
colti da anomala passione per la sono¬
rizzazione del cinema muto. I nostri
eroi non hanno ancora ben inteso co¬
me produrre le loro eiezioni musicali
in rapporto a un film muto: la loro
concezione a tal proposito è quella di
un pannello colorato (l’immagine
schermica) sullo sfondo come bersa¬
glio di eroiche/erotiche improvvisa¬
zioni (che puntualmente seguono una
prevedibile linea a zig-zag: climax/an¬
ticlimax, esplosione e poi rilascio). Per
queste cose, intendo le esplosioni rock,
meglio certi foschi documentari etno¬
grafici degli anni Venti che sanno me¬
no di “illuminotecnica” prestata alla
rockstar in vena di concedersi svoglia¬
tamente nell’ambito della propria so¬
nica taumaturgia.
Percorro l’angusta stradicciola battuta
da maligne rasoiate di vento subalpi¬
no. Incombe dal cielo l’opprimente
moloch antonelliano. Attratto dall’o¬
dore mangereccio cerco l’origine del
segnale di fumo. Inseguo il tintinnare
di posate. Infilo una porticina. Primo
piano: mi ritrovo davanti a Nanni
Moretti che mangia. Campo totale:
locale decisamente “in”. Dettaglio: il
menu propone cucina “fusion” o “nip-
pomediterranea” (termine da aggiun¬
gere al “prontuario d’italiese”). Titoli
di testa: Ecce Sushi. Volgo i tacchi. Per
oggi il mio evento mondano è Alek-
sandra (2007) di Aleksandr Sokurov.
In un meriggio sovraesposto, tavoloz¬
za intinta dei colori della terra e della
sabbia, si muove una donna anziana
già in distacco dal mondo. Tra una ra¬
gnatela di sguardi maschili dell’eserci¬
to russo accampato nella Repubblica
Cecena il suo corpo ed il suo volto di¬
ventano per ciascuno un simbolo di
qualcosa d’altro da Sé, mentre il per¬
sonaggio vaga ramingo, disperso esi¬
stenzialmente, in cerca di una dialetti¬
ca immanente. Sullo sfondo le macerie
del conflitto. In primo piano fram¬
menti di rapporti umani. Alexandra,
interpretata dalla grande Gaiina Vish-
neskaija (“ha un dono drammatico cu¬
stodito dentro di sé”, dice di lei il regi¬
sta) 3 , penetra in uno spazio, l’accam¬
pamento militare, bandito alle donne,
riservato al soldato ed alla puttana. E
la sua presenza si carica di un’ambi¬
guità sessuale livida, quasi intollerabi¬
le, di magnetismo inconsulto che gal¬
vanizza lo schermo. Misterioso trasfe¬
rimento di energia che solo pochi re¬
gisti riescono a compiere.
Altre visioni, tra una flànerìe e l’altra.
Nella sezione intitolata “Lo stato delle
cose” viene presentato Viva (2006) di
Anna Biller, omaggio a Russ Meyer ed
al softcore anni Sessanta con pretese de-
dinazioni femministe. Nella stessa se¬
zione spicca il bel documentario di Ju-
lien Tempie dedicato a Joe Strummer:
The Future is Unwritten (2007) ed il
Godard più disfatto che disfattista
proposto da Alain Fleischer. Difatti in
Morceaux de conversations avec Jean-
Luc Godard (2007) abbiamo un tricheur
des images inedito, distante dall’astuto
dosatore di Sé ammantato di malinco¬
nici riflessi che figurava in JLG/JLG.
Autoportrait de Décembre (1995). Di¬
chiara Fleischer: “Abituato sempre a
essere vincitore, in questa circostanza
[Godard] appare quasi identificarsi
nella vittima e alla fine risulta apparire
come un vinto, un fallito”.
Rientrano nelle altre iniziative del Fe¬
stival l’omaggio a Marco Ferreri, rievo¬
cato dalla presenza di Michel Piccoli, i
duetti di Nanni Moretti con registi va¬
ri: Wim Wenders, Francesco Rosi, i
fratelli Taviani... A preservazione di
certi elementi di continuità c’è Joa-
quim Jordà ed il nuovo lavoro di Yer-
vant Gianikian e Angela Ricci Lucchi:
Ghiro Ghiro Tondo (2007), ipnotico
film-catalogo di giocattoli ormai de¬
composti, che può essere pienamente
colto soltanto in relazione al lungo la¬
voro, di grande coesione e lucidità, dei
due registi/sperimentatori. Chiamate¬
mi snob, o addirittura... cinefilo, ma
per me la visione più bella è stata
Razzie Dazzle. The Lost World (Ken
Jacobs, 2006). Certo, si è trattato di
un’esperienza non per tutti di cinema
propriamente espanso, riallacciandoci
alla tradizione tenuta a battesimo da
Gene Youngblood. Film autopsia per
un cinema stroboscopico: Razzie
Dazzle è l’analisi e la rielaborazione
grafica, a tratti affine all’arazzo o alla
pittura informale, di un film Edison
del 1903, il “dal vero” di una giostra.
L’elaborazione viene interpolata da al¬
cune fotografie stereoscopiche tridi-
mensionalizzate con un procedimento
di sovrapposizione ad intermittenza.
La figura di Ken Jacobs ha assunto
un’importanza cruciale nel panorama
artistico contemporaneo, non soltanto
interessante perché si tratta di un arti¬
sta che lavora prevalentemente con
film delle origini: la sua tecnica è al
contempo coercitiva e maieutica. La
ricompensa allo spettatore per questo
long hard look avviene attraverso un
percorso iniziatico, in questo caso reso
ancora più duro da un possibile malin¬
teso: il film è stato proiettato nel silen¬
zio, sempre non silenzioso (sbuffi, fru-
scii, russate), della sala, sebbene i titoli
di coda annoverassero l’apporto di di¬
versi musicisti di rilievo. Ma va bene
così, la proiezione in silenzio è prassi
consueta per Jacobs che ha dichiarato:
“When we talk about film we mostly
consider thè movies. We mostly consi-
der photoplay film theater with actors.
There are a lot of other things where
you meet up with thè problem of thè
work and you surmount it and hope-
fully you are rewarded with a new way
of receiving pleasure” 4 . Bisogna preci¬
sare difatti che la proiezione cinema¬
tografica secondo Ken Jacobs è consu¬
stanziale all’esecuzione dal vivo. L’im¬
portanza di questo film è ponderabile
nel momento in cui si pensa al cinema
come all’ago di un compasso in equili¬
brio precario, sempre più lontano dal
suo fulcro: “qualunque cosa dicano di
se stessi i cineasti del cinema espanso,
essi hanno il merito di averci sottratto
all’abitudine (all’assuefazione) di esse¬
re condotti, sul sentiero delle emozio¬
ni, da registi-padroni che servendosi di
un’arte illusionistica ci comandano
quando ridere, piangere, commuoverci,
indignarci” 5 .
Davide Gherardi
Note
1. L’articolo di Roberto Alonge è reperibile pres¬
so Turin Dams Review.
http://obelix.cisi.unito.it/turindamsreview/sezio
ne.php?idart=15l&idsezione=22. La replica di
Franco Prono si trova sullo stesso sito.
http://obelix.cisi.unito.it/turindamsreview/sezio
ne.php?idart=160&idsezione=22&idcat=2.
2. Maciste nella gabbia dei leoni (Guido Brignone,
1926). Copia restaurata dal Museo Nazionale del
Cinema e dalla Cineteca di Bologna presso il la¬
boratorio “L’Immagine Ritrovata” di Bologna.
3. Intervista di Aleksandr Sokurov riportata in
Filmaker's. Daily Torino Film Festival, 27 novem¬
bre 2007, p. 2.
4. Julie Hampton, “An interview with Ken Ja¬
cobs”, Millenium Film Journal, no. 32/33, Fall
1998. Questa la traduzione fornita dalTUffico
stampa del TFF: “Quando parliamo di cinema di
solito pensiamo ai film. Nel senso di film con at¬
tori. Invece ci sono molti altri lavori in cui affron¬
ti dei problemi, li superi e sei ricompensato - si
spera - con un nuovo modo di ricevere piacere”.
Devo rilevare la non corretta traduzione del ter¬
mine photoplay , parola carica di una lunga storia
teorica nel contesto americano. Letteralmente:
“fotografìa animata”.
5. Enzo Ungari, “Il cinema espanso”, in Schermo
delle mie brame, Firenze, Vallecchi, 1978.
Nuvole (parlanti) all’orizzonte
Speciale Cinema e fumetto nel pano¬
rama contemporaneo
A cura di Maurizio Buquicchio e Fe¬
derico Pagello
Il presente speciale intende offrire una
prospettiva teorica e analitica sul sem¬
pre più centrale rapporto fra cinema e
fumetto nel panorama contempora¬
neo. Attraverso differenti approcci
metodologici e la fecalizzazione su te¬
mi e tendenze specifiche, sarà possibi¬
le verificare la convergenza del lin¬
guaggio e delle strategie narrative del
fumetto e del cinema americani, sia a
livello maìnstream che indipendente.
Per restringere il campo, daremo infat¬
ti risalto al prolifico cortocircuito veri¬
ficatosi negli ultimi anni a Hollywood
fra due dei mezzi espressivi più popo¬
lari e caratteristici della cultura ameri¬
cana. Affiancando film tratti da fu¬
metti prodotti nel passato recente a
nuovissime serie di comics ispirate a
film e serie tv pubblicate negli ultimi
mesi, verificheremo come lo scambio
di stili, motivi e visioni fra i due im¬
maginari sia definitivamente reciproco
ed “orizzontale”.
Le traiettorie di influenza sono com¬
plesse e vanno in direzione sia di una
sempre maggiore “cinematograficità”
delle opere fumettistiche che di un ca¬
rattere “fumettistico” del cinema con¬
temporaneo, anche a causa di un con¬
tinuo interscambio di autori. Gli
esempi potrebbero essere moltissimi:
autori di fumetti che diventano registi
(Frank Miller), sceneggiatori televisivi
che scrivono fumetti (Josh Whedon:
X-Men, J.M. Straczynski: Spider-
Man ), sceneggiatori di fumetti che
scrivono serie televisive (Bryan K.
Vaùghan, autore del fumetto Y: The
Last Man, i cui diritti sono stati acqui¬
stati da Time-Warner per un adatta¬
mento cinematografico, e da poco nel¬
lo staff creativo di Tosi), sceneggiatori
che lavorano indifferentemente per il
cinema, il fumetto e la televisione
(Jeph Loeb: Voglia di vincere, Batman,
Heroes), e un caso particolare ma em¬
blematico come quello dello scrittore
Michael Chabon, vincitore di un pre¬
mio Pulitzer per un romanzo {Le av¬
venture di Kavalier e Clay ) in cui rein¬
venta un pezzo di Storia del fumetto e
successivamente autore della sceneg¬
giatura dello Spider-Man 2 di Sam
Raimi. Un aspetto particolare riguarda
il peculiare e pressoché inedito incon¬
tro fra cinema indipendente america¬
no e fumetto underground. Se si esclu¬
dono isolati e poco discussi casi nella
produzione degli ultimi anni (si veda il
docu-film Grumb, prodotto da David
Lynch e diretto da Terry Zwigoff nel
1994), mai prima d’ora il cinema off-
Hollywood aveva attinto così significa¬
tivamente all’immenso serbatoio di
graphic novels, strisce e serie realizzate
a partire dagli anni Settanta.
I contributi ospitati nello speciale cer¬
cheranno di esplorare alcuni esempi di
questa ricca produzione. Il primo in¬
tervento (“Capire il boom del cinefu-
metto”, di Matteo Stefanelli) cerca di
fornire uno sguardo d’insieme sul fe¬
nomeno, proponendosi di rispondere
alle domande che si è costretti inevita¬
bilmente a porsi sulle sue origini. Gli
altri articoli analizzano invece aspetti e
testi specifici, scelti anche per rappre¬
sentare alcuni dei differenti motivi
dell’interesse suscitato in noi dal rap¬
porto cinema-fumetto: costanti tema¬
tiche e strutturali (“Città di immagini
e parole”, di Federico Pagello), sceneg¬
giatori di fumetti passati alla televisio¬
ne (“Deus ex Machina”, di Maurizio
Buquicchio), importanti opere indi-
pendenti da cui sono stati tratti film
riusciti (“Lo splendore della vita di
ogni giorno”, di Davide Gherardi), se¬
rie a fumetti ideate da registi cinema¬
tografici (“ 7Brothers e il debutto di
Woo nel mondo dei comics”, di Stefa¬
no Baschiera).
Major o indie, il fumetto rimane oggi
in ogni caso un’arte “povera”, un setto¬
re dell’industria culturale ormai inevi¬
tabilmente di nicchia, ma questa appa¬
rente condizione di marginalità, invece
di provocare la morte di un medium
una volta di massa, sembra donargli
una seconda giovinezza e un’inedita
influenza sul resto del mediascape con¬
temporaneo, dominato da “freddi” lin¬
guaggi digitali. Il fumetto sembra pre¬
sentarsi in questo momento come un
“fratello minore”, vitale e spregiudica¬
to, di un cinema sempre più high con-
cept e mass-cult, disperatamente alla ri¬
cerca di nuove idee: questa apparente
contrapposizione genera ancora un’ul¬
teriore, articolata, dialettica ricca di
sorprese.
51
SPECIALE
Il boom del cinefumetto e i suoi
confini
Il successo del cinefumetto e i discorsi
del boom
L’intensa relazione tra cinema e fu¬
metto è al centro oggi di molti discor¬
si. Tra questi, alcuni si concentrano su
un aspetto, in qualche misura centrale:
il successo del cosiddetto “cinefumet¬
to” - o cinecomics - owero della cre¬
scente diffusione di film tratti o ispira¬
ti a comics e graphic novels. La circola¬
zione di questi discorsi, sia di matrice
cinefila che fumettofìla, presenta una
ripetuta serie di loop interpretativi che
investono la riflessione teorica e la
pratica critica, riducendo la spiegazio¬
ne a una ristretta serie di ipotesi. Mi
pare quindi utile, prima di entrare nel
merito della nostra analisi, ripercorrere
rapidamente alcuni fra gli approcci
praticati in questi discorsi, di cui - scu¬
sandomi per le imitabili semplifica¬
zioni - provo a riassumere gli assunti e
i limiti principali:
- da un lato proliferano gli sguardi sto¬
ricistici, che sostengono la “classicità”
di tale rapporto, inquadrandolo in una
tradizione intermediale sottoposta ad
un generale (quanto generico) rinno¬
vamento. A dominare è un approccio
evoluzionista, che lascia indiscussa la
dimensione istituzionale e sociale di
questa tradizione, riducendo al mini¬
mo la problematicità delle differenze
di epoca e di contesto, delle fratture
culturali e simboliche. La critica cine¬
matografica e fumettistica - ma anche
il filone di studi sulle popular cultures -
abusano spesso di questo approccio,
predicando una tradizione che enfatiz¬
za le continuità, limitandosi a registra¬
re talune discontinuità, senza ap¬
profondirle 1 ;
- fioriscono poi gli sguardi economici¬
stici, secondo cui il successo di Batman
(Tim Burton, 1989) prima (anni No¬
vanta) e Spider-Man (Sam Raimi,
2002) poi (anni Duemila) avrebbero
(ri)acceso un mercato e dato il via ad
uno sfruttamento intensivo delle ope¬
re provenienti da quel mercato, in
chiave di logiche win-win. Il cinefu¬
metto appare come l’epifenomeno di
una generica integrazione dei media,
di cui tuttavia restano in ombra le ra¬
gioni strategiche rispetto al sistema, le
differenze nei modelli di business dei
vari soggetti, le ricadute sugli assetti
organizzativi e sulle culture economi¬
che della comics industry 2 ;
- riemergono carsicamente gli estetolo-
gi, la cui tesi chiave dell’ibridazione - il
fumetto sempre più cinematografico,
e/o il cinema sempre più fumettistico
- trova argomentazioni • episodiche:
basti pensare al semplicismo operato
nell’ambito di studi sulle display cultu¬
res (con il paragone tra split screen e
pagina a fumetti), o viceversa alla mar-
ginalizzazione delle proposte più per¬
sonali (cfr. la teoria superflat di Takashi
Murakami). A dominare sono poco
utili ideologie opposte - di “somiglian¬
za” versus “intraducibilità” semiotica -
fino ad enfatiche formulazioni
sulT'incompatibilità ontologica” 3 ;
- accanto a queste, nell’informazione e
nella ricerca sui comics si riproducono
le vecchie posizioni rivendicazioniste,
tipico (sotto)prodotto dell’ancora fra¬
gile dibattito critico e teorico sul fu¬
metto, secondo cui il cinefumetto non
sarebbe che figlio della “rivincita cul¬
turale” - visibile anche in letteratura e
in tv - di un linguaggio che negli ulti¬
mi vent’anni ha vissuto una stagione di
fioritura creativa di cui altri media sta¬
rebbero - un po’ improvvisamente -
approfittando.
Questi sguardi e i loro discorsi presen¬
tano in genere un tratto comune, che
va al di là del pur diffuso sentimento di
“novità” configurato dalla retorica del
boom. E l’idea di una relazione, quella
tra comics e cinema, reificata in un og¬
getto dotato di alcuni tratti e dimen¬
sioni riconoscibili - il cinefumetto, ap¬
punto - che tende ad essere spiegato in
due modi: 1) come processo biunivoco,
legato alla specificità della relazione
tra i due media, e quindi esito esclusivo
(è il caso degli sguardi storicisti e ri-
vendicazionisti); 2) come effetto di
processi esterni, legato alla ricaduta sul
fumetto (o sul cinema, a seconda della
prospettiva in campo...) di fenomeni
attivi all’interno del sistema mediale,
secondo una dinamica da effetto casca¬
ta (più il caso di economicisti ed este-
tologi).
Credo invece che, per capire il boom
del cinefumetto, si debba adottare una
prospettiva meno schematica, che
guardi al cinefumetto come fenomeno
co-costruito dalla relazione fra cinema
e fumetto e dall’azione di macro-dina¬
miche in atto nel sistema dei media.
Un campo d’azione più complesso, in
cui i fattori di cambiamento culturale
attraversano i confini tra un medium e
l’altro, sullo sfondo dei nuovi rapporti
fra industria culturale e società. In
questo intervento riprenderò alcune
nozioni che vengono proprio dagli
studi sul tema dei “confini” dell’indu¬
stria culturale e del mutamento dei
media, cercando di far dialogare il fe¬
nomeno cinefumetto con i nuovi
aspetti di un vecchio problema : il
mainstreaming dei media.
Oltre i margini: l'industria culturale e la
compatibilità delfumetto
Come è noto fin dalla riflessione di
Edgar Morin, l’industria culturale è
una grande officina di elaborazione dei
desideri e delle attese collettive il cui
attivo funzionamento — l’elaborazione
di un immaginario in grado sia di con¬
trollare che di lasciare esprimere questi
desideri - si fonda su una potente di¬
namica simbolica: la dialettica innova¬
zione-standardizzazione. Questa ap¬
parente contraddizione è all’origine
della sua capacità di (ri)produrre stan¬
dard e insieme creare varianti, attra¬
verso un processo di assorbimento o
espunzione di contenuti e pratiche
dalla propria offerta. A questo livello si
colloca il tema dei “confini” dell’indu¬
stria culturale che - nella formulazio¬
ne di Fausto Colombo - si presentano
come un territorio mutevole “che co¬
stituisce una riserva di possibile avan¬
zata o di arretramento” 4 . Se l’analisi
dei processi che conducono dentro o
fuori da questi margini è intesa nel la¬
voro di Colombo nei termini di confi¬
ni generali tra fuori e dentro l’industria
culturale (per es.: la musica rap, da
Street culture a genere dell’industria di¬
scografica), nel nostro caso vanno inte¬
si come più ristretto campo d’azione
del mainstreaming , ovvero del potere
culturale di costruzione dei valori do¬
minanti in termini di idee e immagi¬
nari, ma anche di configurazioni pro¬
duttive e di consumo mediale. Da un’i¬
dea di confini generali, passiamo ad
una di confini zonali: la relazione tra
media centrali e media periferici.
Qui si inserisce una prima osservazio¬
ne rispetto al cinefumetto: la nuova
compatibilità rispetto ai confini succi¬
tati. La relazione tra cinema e fumetto
ha vissuto a lungo ai margini dell’indu¬
stria culturale, mentre oggi rappresenta
una connessione vitale per il sistema.
Lo dimostra il suo ruolo di primo pia¬
no nel mercato audiovisivo e in quello
del licensing (mediale e non), visibile
sia come successo numerico di prodot¬
to (quantità di blockbuster prodotti;
quantità e qualità commerciale del¬
l’audience cinetelevisiva raggiunta,...),
sia come allungamento della filiera in¬
dustriale (dominio nelle licenze per la
toy industry e merchandising, espansio¬
ne dei produttori in altri mercati del-
l’industria dei contenuti...).
Il boom del cinefumetto, visto come
de-marginalizzazione, è inoltre forte¬
mente collegato alla nuova posizione
di uno dei due soggetti del nesso ri¬
spetto a questi confini: è il fumetto in
toto a mutare la propria compatibilità
rispetto al sistema mediale e all’indu¬
stria cinematografica in particolare 5 .
Se ci collochiamo dal punto di vista
del fumetto possiamo osservare diversi
indicatori di marginalità che mostrano
profondi mutamenti: basti pensare, sul
versante dei contenuti, ai flussi di adat¬
tamenti-, sul versante degli apparati, al¬
le strutture proprietarie. Il primo, con
sottoindicatori quali la quantità di
adattamenti (fìlm-da-fumetti, e fu-
metti-da-film), e la bilancia degli
scambi (con il fumetto un tempo do¬
minato da prelievi cinematografici,
mentre oggi tende a dominarli), ci di¬
ce di una intensificazione e di un rie¬
quilibrio - se non un’inversione - nel¬
le politiche di adattamento. Il secondo
ci mostra invece il nuovo livello di in¬
tegrazione: se un tempo le case editri¬
ci di comics erano sostanzialmente in¬
dipendenti, e raramente parte di grup¬
pi editoriali (in Occidente, la sola
major fumettistica partecipata da una
media corporation era DCComics, del
gruppo Time Warner), oggi tutti i
grandi produttori di comics sono inte¬
grati in grandi industrie dei contenuti
(DelRey Manga e Pantheon in Ran-
dom House, First Second in Holtz-
brinck, Futuropolis in Gallimard, Vir¬
gin Comics in Virgin) o impegnate in
diversificazioni produttive negli au¬
diovisivi o nei new media (Marvel ha
aperto i Marvel Studios, Dark Horse
Spider-Man
iiilìliili:
un ramo di attività cinetelevisiva, Dar-
gaud sviluppa cartoons come Dargaud
Marina, DCComics ha attivato una
divisione Internet destinata allo sfrut¬
tamento di contenuti user generateci
con il marchio ZudaComics).
La sintesi che si può trarre da questi
dati è che il fumetto ha acquisito una
nuova compatibilità: sempre nei termi¬
ni di Colombo, si può parlare di un
processo di assorbimento del fumetto da
parte dell’industria culturale, e in par¬
ticolare da core media come televisione,
editoria letteraria e - per l’appunto -
cinema.
La compatibilità ideologica del fumetto
indipendente
Dopo avere rilevato il tendenziale as¬
sorbimento del fumetto, possiamo pas¬
sare ad osservarne più da vicino alcuni
fattori decisivi. Il modello interpretati¬
vo che abbiamo scelto individua un set
di fattori che coinvolgono i rapporti
fra tutti gli elementi in gioco nella cir¬
colazione culturale 6 . Una distinzione
va fatta allora tra la compatibilità ge¬
nerale del cinefiimetto e quella di alcu¬
ni segmenti o prodotti. Vorrei quindi
soffermarmi su un paio di esempi rela¬
tivi a specifici segmenti.
Si pensi al trend dei cinecomics indi-
pendenti: film tratti da fumetti ben di¬
versi da Superman oAstenx, legati al ri¬
conosciuto lavoro autoriale di alcuni
creatori, identificabili come elementi
della scena indie o degli alternative co¬
mics, o eredi della cultura del fumetto
underground. Credo che per spiegare
questa tendenza sia utile riportare il
fenomeno cinefumetto al ruolo di un
particolare set di fattori, ovvero quelli
che Colombo chiama “di selezione
ideologico-culturale”. Il successo - so¬
prattutto critico e in determinati festi¬
val come il Sundance - di film come
American Splendor (Robert Pulcini,
Shari Springer Berman, 2003) o Ghost
World (Terry Zwigoff, 2001), e in defi¬
nitiva la loro stessa comparsa sul mer¬
cato cinematografico sarebbero ricon¬
ducibili soprattutto all’esistenza di un
circuito dei media e del cinema pro¬
priamente “indie”. L’immagine di Gho¬
st World come cult-movie della cultura
indipendente si spiegherebbe così non
tanto come effetto-micro, sui produt¬
tori di cinema indie, dei macro-proces¬
si di “influenza” dei comics (tesi riven-
dicazionista), quanto con la sintonia
tra universi simbolici - cinema ìndie e
fumetto indie - dotati del medesimo
spirito, utile al consolidato circuito del
cinema indie per alimentare la propria
alternativa al perimetro di generi e va¬
lori del cinema mainstream.
La compatibilità meta-identitaria del fu¬
metto seriale di supereroi
Tutt’altro set di fattori determina un
altro aspetto dell’assorbimento del fu¬
metto, osservabile sia per il cinema che
per la tv: il grande uso di narrazioni se¬
riali. Ritengo cruciale non sottovaluta¬
re un dato: i blockbuster del cinefù-
metto sono fondati su comics seriali,
quasi tutti molto noti: Spider-Man, X-
Men, Sin City, Batman, Superman,
Constantine. Questione di brand: la fa¬
ma precedente assicura un ingrediente
del successo, quella ampia brand awa-
reness che è da sempre uno dei prere¬
quisiti chiave per il lancio di un pro¬
dotto mass-market. Eppure tale fama
non basta a far sì che X-Men o Batman
sbanchino tra i lettori: tranne nei pri¬
mi anni Novanta, con vette da un mi¬
lione di copie, da tempo le serie Usa
non superano le 150.000 copie per
collana (meno del nostrano Tex Wil-
ler).
La questione pare quindi di ordine
simbolico: la narrazione dei comics
sembra garantire un valore aggiunto
che il cinema (e la tv) 7 è in grado di far
fiorire e sfruttare. Si tratta del fatto di
offrire una serialità “grande”, ovvero
estesa e paradigmatica, capace di for¬
nire due elementi che i prodotti narra¬
tivi dei media faticano ormai ad offri¬
re da qualche tempo: radicamento me¬
moriale, e riconoscimento collettivo.
Come ha avuto modo di commentare
Neil Gaiman, uno dei narratori più lu¬
cidamente implicati nel boom del ci¬
nefumetto: “Credo che l’età delle gran¬
di storie e dei grandi miti non sia mai
finita. Basta guardare i comics. In 40
anni Marvel e DCComics, con i loro
universi narrativi, hanno scritto la più
grande saga dell’era moderna. Sono
questi i nostri miti, oggi” 8 . Secondo il
modello di Colombo, si tratta dell’a¬
zione dei cosiddetti fattori “di incor¬
porazione”, secondo cui “identità col¬
lettive possono utilizzare la fruizione
di determinati prodotti per manifesta¬
re la propria appartenenza” 9 .
Credo che qui stia un punto impor¬
tante: la peculiare vastità e densità del-
l’immaginario dei comics seriali. C’è
da un lato il fatto che i comics DC e
Marvel sono - con le soap opera - i
soli mondi narrativi permanenti, ovvero
in evoluzione da decenni, senza inter¬
ruzioni, sempre in mano ai medesimi
marchi, tali da alimentare la sensazio¬
ne che sopravvivranno ben oltre gli at¬
tuali creatori e consumatori. Dall’altro
si tratta delle più significative epiche
consumerizzate, narrazioni stratificate
da vaste memorie testuali ed extrate¬
stuali, che ne fanno la più ricca archi¬
tettura sincretica di figure eroiche e ri¬
scritture mitologiche, incarnate in for¬
me di consumo fin da principio espli¬
citamente mercantili: storie per sogna¬
re, ma anche oggetti sfruttabili com¬
mercialmente (e da ben prima di Star
Wars o Harry Potter). In una società
caratterizzata dal declino delle grandi
narrazioni, questi mondi fondati su se¬
rialità transgenerazionali, su valori e
simboli colorati dell’universalità del
mito, e su pratiche tipiche del consu¬
mo mediale più maturo, ne hanno fat¬
to una risorsa simbolica che può oggi -
più ancora che venti o trenta anni fa -
giocare un ruolo simbolico unificante.
Come ci suggerisce Gaiman, nel cine¬
fumetto si intravede, in modo inatteso,
una sorta di ritorno della sempre più
rara funzione bardica dei prodotti nar¬
rativi: gli universi DC e Marvel canta¬
no le gesta della nostra comunità, te¬
stimoniando le emergenze della vita
sociale nella società del consumo. Il ci¬
nefumetto costituisce una delle forme,
sul piano dei contenuti, di quella sicu¬
rezza ontologica che da sempre è tra le
funzioni cognitive cruciali della narra¬
zione popolare.
Il cinefumetto come mercato del racconto
ìmmersivo
Abbiamo visto, con l’aiuto di un mo¬
dello per l’analisi del problema del
mainstreaming e dei confini dei media,
come alle origini del fenomeno cinefu-
metto siano coinvolti fattori differenti,
che possono aiutarci a chiarire aspetti
specifici come la “novità” del filone di
adattamenti filmici tratti da fumetti
indie, o come la moltiplicazione di
blockbuster movies tratti da noti comics
seriali di genere superomistico. Credo
però che al di là dei casi specifici valga
la pena formulare qualche ipotesi più
generale. In estrema sintesi, la mia è
questa: credo che il cinefumetto non
sia altro che l’istituzionalizzazione in
una formula - quella dell’adattamento
di prodotti fumettistici - di quel mer¬
cato della narrazione immersiva che è
tra i principali contributi della comics
culture al nuovo scenario convergente
dei media 10 . Per due ragioni: la conno¬
tazione partecipativa del consumo fu¬
mettistico, e il ruolo del fumetto nella
definizione del fenomeno del transme¬
dia storytelling.
Da un lato, lo stesso statuto culturale
dei comics, maturato ai margini delle
forme culturali istituzionali, lo ha con¬
dotto - per necessità e per virtù - a
promuovere dinamiche di circolazione
“comunitarie”, fondate sulle forme
passionali e partecipative dei gruppi di
fans, promotori di un intero circuito
fatto di fiere e conventions, fanzines e
poi BBS, community iperattive e canali
distribuitivi dedicati come le “fùmette-
rie” 11 . Dinamiche tipiche di quella
participatory culture che, da Jenkins in
poi, sembra definire il paradigma del¬
l’azione dei pubblici nell’ambiente dei
media post-digitalizzazione.
Dall’altro, il punto cruciale è questo: se
nell’attuale contesto i prodotti narrati¬
vi devono fare i conti con il paradigma
del transmedia storytelling, le storie di
successo - si pensi a Matrix (Andy e
Larry Wachowski, 1999) o Harry Pot¬
ter (Chris Columbus, 2001) - saranno
quelle in grado di prevedere un coin¬
volgimento stratificato e immersivo
del pubblico. I comics di supereroi so¬
no da quarantanni una delle forze pla¬
smatrici (con le soap) del concetto di
mondo narrativo immersivo, in quanto
dotati di “struttura narrative seriale,
forze creative multiple responsabili di
varie parti della storia, un senso defia
continuità di lungo termine, un
profondo archivio di personaggi, lega¬
mi attuali alla complessa storia della
property, e un senso di permanenza” 12 .
Nel fumetto, i media - e quindi il ci¬
nema - trovano un bacino di immagi¬
nari e prodotti che, maturati in un
Ghost World
53
SPECIALE
54
contesto di forte coinvolgimento da
parte dei pubblici del mezzo, sembra¬
no garantire una fruizione in grado di
sostenere la costruzione di esperienze
di consumo partecipativo e immersivo.
Nella discontinuità della cultura fu¬
mettistica contemporanea, il cinefu-
metto offre un consumo così come lo
immaginano i media oggi.
Matteo Stefanelli
Note
1. E il caso di pubblicazioni come il volume Cine-
comics edito da Ciak (2003), o del catalogo Cine-
ma&Fumetto, Litde Nemo, 2006; ma anche, in
ambito accademico, di certa saggistica praticata
dal Journal of Copular Culture, o dall’ International
Journal of Comic Ari.
2. Per un esempio recente, si veda Kerry Gough,
“Translation Creativity and Alien Econ(c)omics”,
in Ian Gordon, Mark Jancovich, Matthew P,
McAllister, Film and Comic Books, Jackson, Uni¬
versity of Mississippi Press, 2007. Un’analisi più
attenta al tema dei modelli di business è in An¬
drea Materia, “I conti in tasca a Comicswood”, in
Andrea Materia, Giuseppe Pollicelli, Comicswood,
voi. 1, Roma, Bottero Edizioni, 2001.
3. Il riferimento è qui a Pascal Lefèvre, “Incom¬
patibile Visual Ontologies?”, in I. Gordon, M.
Jancovich, M.P. McAllister, op. cit., pp. 1-12.
4. Fausto Colombo, “L’industria culturale e i suoi
margini”, in Fausto Colombo, Luisela Farinotti,
Francesca Pasquali, I margini della cultura , Mila¬
no, Franco Angeli, 2001, p. 20.
5. Per un’introduzione ai cambiamenti in corso
nel fumetto odierno, rimando a Matteo Stefanel¬
li (a cura di), Fumetto International Trasformazio¬
ni culturali del fumetto contemporaneo, Roma, Dra¬
go, 2006.
6. Mi limito qui a ricordarli: fattori di selezione
ideologico culturale; di centralizzazione produtti¬
va; di ottimizzazione produttiva; di ordinamento
e organizzazione dell’offerta; di compatibilità con
il consumo; di costruzione del consumo; di incor¬
porazione; di adeguatezza culturale; di circolarità.
7. Per un’analisi del versante televisivo del feno¬
meno, mi permetto di rimandare a Matteo Stefa¬
nelli, “L’identità segreta del telefilm”, in AA. W.,
Link Focus: Telefilm, RTI/Mediaset, 2007.
8.. Intervista, Festivaletteratura, Mantova, 7 set¬
tembre 2007; per una trascrizione del testo del¬
l’intervento (parziale): http://www.fantasymaga-
zine.it/intemste/7953.
9. F. Colombo, op. cit, p. 39.
10. Mi riferisco naturalmente allo studio di
Henry Jenkins, Convergerne Culture, New York-
London, New York Univeristy Press, 2006.
11. Per un approccio alla cultura fumettistica in
chiave di sottocultura: Lue Boltanski, “La Consti-
tution du champ de la bande dessinée”, in Actes de
la recherche en Sciences sociales, n. 1, Paris, Seuil,
1975. Sullo sviluppo del Direct Market negli Usa,
e la dimensione simbolica del consumo di comics
negli Usa: Matthew J. Pustz, Comic Book Culture:
Fanboys and True Believers, Jackson, University
Press of Mississippi, 1999.
12. Sam Ford, As thè World Turns ” in a Conver¬
gerne Culture, Master Thesis Degree, Boston,
MIT, 2007; si veda Convergence Culture Con-
sortium Weblog http://convergenceculture.org/
weblog
Città di immagini e parole
La metropoli nel cinema e nella televi¬
sione influenzati dal fumetto
Una cascata di lettere e numeri che so¬
no in realtà la struttura logica di
un’immagine: l’immagine di una città
irta di grattacieli di vetro e acciaio, tan¬
to falsa quanto efficace nel celare la ve¬
rità della catastrofe, strumento di con¬
trollo di un potere assoluto che si espli¬
ca innanzitutto nella capacità di mani¬
polare lo spazio. I dipinti di un pittore
eroinomane, i sogni di un uomo volan¬
te, fumetti di supereroi e panorami di¬
gitali: visioni di una New York deva¬
stata nel prossimo futuro come imma¬
gini da decifrare, incarnazioni virtuali
di un progetto terroristico che dev’es¬
sere compreso e sventato in tempo.
Matrix (The Matrix, Andy e Larry
Wachowski, 1999) e Heroes (Tim
Kring, 2006) condividono un’ossessio¬
ne: quando la realtà diviene allucinato¬
ria, perennemente in potenza, fino al
punto di non poter essere colta che at¬
traverso le pre-visioni enigmatiche di
un “cieco” (Neo, Isaac Mendez, Peter
Petrelli), le immagini assumono su di
essa un potere straordinario e terribile
che solo la parola può cercare di spie¬
gare e ricondurre ad un senso che è
sempre oltre di loro, oggetto di una
contesa infinita fra le parti in conflitto.
Quest’ossessione ha certamente qual¬
cosa a che fare con il processo di con¬
vergenza fra il linguaggio cinemato¬
grafico, costretto fin’ora a fare i conti
con l’“impronta del reale”, e quello del
fumetto, segnato invece dall’astrazione
del disegno e dalla simbiosi fra imma¬
gine e parola. Matrix e Heroes trovano
in quel linguaggio il loro esplicito refe¬
rente (del resto, pur non essendo adat¬
tamenti veri e propri, entrambi conta¬
no sceneggiatori, come i fratelli Wa¬
chowski e Jeph Loeb, già cimentatisi
con le testate della Marvel). Il “cine¬
ma-fumetto” costituisce in ogni caso
uno dei luoghi in cui la condizione at¬
tuale del cinema americano si mostra
nel modo più chiaro - dal punto di vi¬
sta produttivo, tecnologico, culturale
ed estetico - e rappresenta un “genere”
tutt’altro che periferico o effimero in
questo contesto: non dimentichiamo
che Star Wars (George Lucas, 1977),
film-prototipo dello spettacolo hol¬
lywoodiano contemporaneo, si rifa
esplicitamente e in modo profondo ai
serial fantascientifici Flash Gordon
(Frederick Stephani, 1936) e Buck Ro-
gers (Ford Beebe, Saul A. Goodkind,
1939), tratti dalle celebri strisce e tavo¬
le domenicali di Alex Raymond (il
primo) e Philip Nowlan e Dick Calkin
(il secondo). La “New New Hol¬
lywood”, insomma, conta fra le sue
pratiche fondamentali anche il recupe¬
ro e la messa in evidenza delle struttu¬
re narrative, iconografiche e ideologi¬
che del fumetto degli anni Trenta.
In questo articolo, voglio concentrare
la mia attenzione sulla rappresentazio¬
ne dello spazio urbano in alcuni testi
appartenenti a questo filone poiché es¬
so rappresenta un topos tematico e un
elemento iconografico ed estetico di
primaria importanza sia nelle fonti fu¬
mettistiche che negli adattamenti ci¬
nematografici. Farò riferimento in
particolar modo ad un gruppo di ope¬
re - oltre ai già citati Matrix e Heroes,
anche Unbreakable (M. Night Shya-
malan, 2000) e Donnie Darko (Richard
Kelly, 2001) - che, pur non traendo
origine da opere pre-esistenti, omag¬
giano in maniera esplicita e totalizzan¬
te l’estetica e l’immaginario del fumet¬
to, mostrando una consapevolezza dei
legami fra i due linguaggi per certi
versi anche maggiore rispetto a molti
adattamenti diretti; in tutti e quattro,
la rappresentazione della città assume
una posizione strategica sia a livello
narrativo che iconografico. In questo
modo, intendo sottolineare inoltre
quanto molti autori interessanti delle
ultime generazioni trovino sempre più
nel fumetto, come già nella letteratura,
nel teatro e nella pittura, una delle
principali fonti di ispirazione per la
propria estetica e la propria poetica. Si
tratta di un’ennesima prova della voca¬
zione riflessiva della cultura pop, ma
anche di un segnale della sua decisa
maturazione e stratificazione: a diffe¬
renza dei riferimenti critici e deco¬
struttivi di un Godard, che negli anni
Sessanta “citava” il fumetto come sin¬
tomo della società di massa, osservia¬
mo qui un utilizzo più rispettoso e
consapevole di questo linguaggio, la
dimostrazione che esso ha ormai otte¬
nuto uno status estetico e culturale ca¬
pace di influenzare le arti “maggiori”.
La centralità della città nel fumetto ame¬
ricano
Il fumetto americano è tuttóra larga¬
mente dominato dal genere consacrato
ai supereroi, e così il cinema che a
quello si ispira si fa anch’esso veicolo
dell’egemonia degli eroi in calzama¬
glia. Popolati da creature che vivono in
simbiosi con lo spettacolo della città
moderna, film e comic book mostrano
così la pervasività dello spazio metro¬
politano nell’iconografia e nell’imma¬
ginario del genere; per questo motivo,
Scott Bukatman, affrontando questo
aspetto, ha pubblicato la più interes¬
sante analisi dedicata ai supereroi nel¬
la letteratura critica recente 1 . D’altra
parte, l’ossessione per lo scenario urba¬
no è ben radicata anche nei fumettisti
americani che si muovono in altri am¬
biti, come quello del cosiddetto graphic
novel e l’ underground, che fanno della
propria estraneità dalla produzione
mainstream un motivo di distinzione.
Da New York (Will Eisner, Kitchen
Sink Press, 1986) a City of Glass (Paul
Karasik e David Mazzuchelli, Avon
Books, 1994), da American Splendor
(Harvey Pekar, autoprodotto, poi Dark
Horse e altre, 1976-) a Jimmy Corrigan
(Chris Ware, Fantagraphics, 2000), fi¬
no alle opere di Ben Katchor (Julius
Knipl, Reai Estate Photographer, Pen-
guin e altre, 1991-; The Jew of New
York, Pantheon, 1998), l’immagine
della città occupa un ruolo importante
anche nel fumetto americano indipen¬
dente: la vita sulla strada o il cammi¬
nare quotidiano nella metropoli (Ka-
rasik-Mazzuchelli), quartieri popolari
e zone di periferia (Eisner), località
decentrate come Cleveland (Pekar),
Seattle o il New Jersey (Hate, di Peter
Bagge, 1990-) sono scelte in chiara al¬
ternativa allo scintillìo dei grattacieli
di Manhattan fra cui si muovono i su¬
per-umani 2 .
E importante sottolineare inoltre
quanto la messa in scena dello spazio
urbano rappresenti anche un elemento
del rapporto fra cinema e fumetto, in
modo particolare nel contesto statuni¬
tense, costituendo ad esempio una del¬
le chiavi attraverso cui film come Bat-
man (Tim Burton, 1989), Dick Tracy
(Warren Beatty, 1990), Spider-man
(Sam Raimi, 2002) e Sin City (Robert
Rodriguez e Frank Miller, 2005) sono
riusciti ad adattare il linguaggio delle
strisce sul grande schermo in modo
decisamente più convincente che nel
passato.
Matrix. - la città dei supereroi
Nel fumetto di supereroi la città è so¬
stanzialmente metafora della “materia¬
lizzazione” dell’ideologia capitalista,
del momento in cui, oltrepassato il di¬
scorso politico e sociale, essa assume il
diretto controllo sulla realtà in cui si
muovono gli individui. Metropolis e
Gotham City sono visioni simboliche
in cui la metropoli americana (sostan¬
zialmente, la New York degli anni
Trenta) viene rappresentata come un
ambiente completamente artificiale,
uno scenario meraviglioso immediata¬
mente fruibile come set per avventure
fantascientifiche ovvero come luogo di
corruzione senza ritorno di tutto ciò
che è autentico e quindi buono ; con¬
temporaneamente, però, la metropoli
appare anche come una jungla, uno
spazio di libertà primordiale, un pae¬
saggio naturale in cui le regole civili
sono sospese in nome di una riemer¬
sione continua dell’inconscio animale
del cittadino (si pensi al totemismo
esplicito di molti personaggi) 3 . La me¬
tropoli ipercapitalista come evento na-
Batman, illustrazione di Alex Ross
turale, la city come matrice di rapporti
sociali non modificabili: secondo la
si tradizione marxista, non c’è più perfet¬
ta definizione dell’ideologia del capi¬
tale di questa: “Il capitale non è una
cosa più che non lo sia il denaro. Nel-
1 uno come nell’altro, determinati rap¬
porti produttivi sociali fra persone ap¬
paiono come rapporti fra cose e perso¬
ne, ovvero determinati rapporti sociali
appaiono come proprietà sociali natu-
: rali di cose” 4 . L’oscura Chicago/
s; Gotham digitale e cyberpunk mostra-
| ta in Batman Begins (Christopher No-
lan, 2005) è il rovescio della New
York/Metropolis statuaria e Art Deco
che troviamo in Superman Returns
(Brian Singer, 2006), ma esse sono le
| due facce della medaglia di questa città
| ideale: entrambe dominate da un grat¬
in tacielo, quello della famiglia Wayne e
:: quello del Daily Planet, simbolo dei
|| due personaggi e del loro ambiguo e
contraddittorio rapporto con il potere
(economico, politico e mediatico).
; L’awenuta rimozione totale della Na¬
tura, tuttavia, dona progressivamente
: alla metropoli americana un carattere
S di iperrealtà che provoca una crescente
s difficoltà da parte dei discorsi ideologi-
: ci di produrre soggetti “a tutto tondo”:
la nevrosi che caratterizza i supereroi
della Marvel coincide con il loro essere
calati non più in una rappresentazione
metaforica - quindi solida e autosuffi-
ciente - di New York, bensì in una sua
(: versione iperreale e pop. La moltiplica-
?: zione di supergruppi di mutanti, me-
| tàfore esplicite di crisi sociale, va di pa-
; ; ti passo con la cosiddetta Dìsneypication
di Manhattan, la quale subisce nel ge-
nere supereroico un’intensificazione
esponenziale della spettacolarizzazione
degli spazi metropolitani: le sequenze
(girate sulla Statua della Libertà, a Ti-
mes Square, sul Ponte di Brooklyn o
■sulla Fifth Avenue nelle serie dedicate
sagli X-Men (Brian Singer e Brett Rat-
sper, 2000-2006), a Spider-man (Sam
Raimi, 2002-2007) e ai Fantastic Four
(Tini Story, 2004-2007) mostrano co¬
me il genere tenda sempre più ad enfa¬
tizzare la natura della città come attra-
Wpne turìstica , trasformandola grazie
agli effetti digitali in un enorme luna
PMk, in un’altra Las Vegas.
E questa metropoli fredda e iperreale
Superman Returns) a dispetto delle
• upcrfici riflettenti e delle scritte colo¬
rate (Fantastic Four), che Matrix met¬
ili in scena con la sua Mega City, una
atta fantastica realizzata girando tra
0my, Chicago e Oakland (ma con
§*£ dettaglio inequivocabilmente
newyorchese: il Flatiron Building, il
più celebre grattacielo d’inizio Nove-
ìilfRte):, Da essa scaturisce il plot della
|§||§|;:supereroe Neo è il portavoce di
itti: rifiuto di questa città-vetrina a fa¬
vore di una visione della realtà, apoca¬
littica ma concreta, in cui la soggettività
degli individui riprenda sostanza gra¬
zie al forza dell’ideologia, attraverso le
parole di Morpheus, dell’Oracolo, del-
1 Architetto. Come ha sostenuto Clau¬
dio Bisoni 5 , Matrix è un film in cui le
Grandi Narrazioni vengono esplicita¬
mente rievocate in sostegno del sog¬
getto in opposizione al disagio post¬
moderno provocato dalla spettacola¬
rizzazione del reale, e ciò avviene in¬
nanzitutto attraverso una grande im¬
portanza attribuita al linguaggio: gli
spiegoni” che affliggono la serie sono
il tentativo di offrire un contrappeso al
vuoto - innanzitutto estetico - delle
sequenze dazione e di quelle dedicate
alla visione del mondo virtuale.
La parola, elemento essenziale del fu¬
metto americano, non solo supereroi¬
co, cerca di riempire di senso lo spetta¬
colo urbano, costantemente attirato
verso la pura fantasmagoria.
Unbreakable e Donnie Darko.- le città
di altri eroi
Unbreakable è un film che è stato inse¬
rito dai critici fumettistici nel filone
del cosiddetto “revisionismo” (sic) del
genere supereroico, ovvero quel rinno¬
vamento tematico e stilistico inaugu¬
rato nel 1986 da Frank Miller e Alan
Moore con The Dark Knight Returns e
Watchmen, con figure di supereroi nuo¬
vi e più problematici rispetto al passa¬
to. Come sottolineato da Geoff Klock 6
in un libro dedicato proprio alle inno¬
vazioni narrative del fumetto america¬
no degli ultimi ventanni, il film di
Shyamalan è, come Matrix, una para¬
bola sull’interpellazione ideologica del
protagonista, questa volta da parte di
un fanatico delle storie di supereroi: si
tratta quindi in questo caso di un
esplicito metadiscorso sul fumetto, e
una rischiosa sperimentazione sulla li¬
nea che divide l’immaginario e il reale.
Se osserviamo lo stile della rappresen¬
tazione degli spazi urbani notiamo la
profonda distanza che separa Un¬
breakable da Matrix e da tutti i film ci¬
tati in precedenza: alla verticalità della
metropoli futuristica, ai suoi spazi tra¬
slucidi simboleggianti il Potere, alla re¬
lazione immediata fra l’immagine del¬
la città e la struttura ideologica ad essa
soggiacente, si sostituiscono una forte
orizzontalità (sia degli spazi urbani
che dei movimenti di macchina), am¬
bienti quotidiani, non-luoghi popolati
da una folla anonima, a sottolineare
1 assenza di una qualsiasi prova visibile
del legame fra la parola (l’interpella-
zione ideologica) e la realtà abitata dai
personaggi. Infatti, pur mostrando en¬
trambi un processo di soggettivazione
e l’adesione volontaria del protagonista
al ruolo di supereroe, nei due film il
percorso del personaggio è compieta-
mente diverso: nel primo s’impone
uno scontro ideologico in cui fin da
subito le parti sono chiare, e così i le¬
gami fra parola e immagine; nel se¬
condo, il dubbio e l’incertezza domi¬
nano fino al colpo di scena finale, in
cui il discorso del villain costringe a ri¬
leggere le immagini viste fino a quel
momento sotto un’altra prospettiva.
Dalla dicotomia metropoli/realtà apo¬
calittica di Matrix si passa quindi a
piani sequenza anti-spettacolari di una
Philadelphia autunnale, dai toni grigi e
blu: non a caso, all’inizio del film il
protagonista sta tornando da New
York e successivamente minaccia il fi¬
glio durante un litigio in questo modo:
“Vado a New York e non torno più!”;
la sua combattuta identità di eroe è ri-
specchiata dalla sua lontananza dalla
città dove convenzionalmente gli sa¬
rebbe più facile accettare (o credere) ai
propri poteri.
Donnie Darko è un altro film che mo¬
stra l’influenza profonda del fumetto
sull’immaginario e l’estetica del suo
autore. Qui siamo dalle parti del fu¬
metto indie e underground, che spesso
preferisce come location la provincia
americana o zone suburbane, in aperta
polemica con l’egemonia delle down¬
town metropolitane nella produzione
commerciale. Il film, ricollegandosi
anche al genere horror e fantastico di
target adolescenziale e alle sottocultu¬
re musicali giovanili grazie ad una co-
lona sonora “alternativa” al punto giu¬
sto, utilizza l’immagine stereotipata
della smalltown (della smallville ) popo¬
landola di bozzetti caricaturistici, ani¬
mali antropomorfi, personaggi ma¬
scherati e libri illustrati in grado di
spiegare (e provocare?) i viaggi nel
tempo. Il film mette in scena una cit¬
tadina in cui alla realtà si sovrappon¬
gono continuamente figure fantastiche
o puri segni grafici (come i bizzarri
“serpentoni” che rappresentano i mo¬
vimenti futuri dei personaggi - una
sorta di allusione al linguaggio del fu¬
metto?). L’ultima svolta della sceneg¬
giatura è il momento in cui il Donnie
Darko crede di comprendere il suo de¬
stino: in questa sequenza il volto del
protagonista viene risucchiato e “sfigu¬
rato” da uno di quei “serpentoni”, me¬
scolando ripresa fotografica e effetto
digitale in un primo piano in cui l’at¬
tore viene sostanzialmente trasformato
in disegno. Di nuovo, troviamo un’im¬
magine ibrida, fortemente didascalica
nel suo dare espressione letterale ai
movimenti e all’interiorità dei perso¬
naggi, come nel fumetto; e, allo stesso
tempo, la sua immediata traduzione in
parola: Donnie Darko crede di com¬
prendere la sua situazione grazie una
serie di sovrastrutture (le teorie sul
viaggio del tempo, l’importanza della
formula “celiar door”, etc.), che artico¬
lano discorsi sul futuro, sul destino e
sulla soggettività dell’eroe, come già in
Matrix e Unbreakable.
Donnie Darko, come Neo e moltissimi
personaggi di Heroes, deciderà alla fine
di andare incontro ad una morte an¬
nunciata e pxt-vista. A differenza dei
supereroi, però, il suo destino non è le¬
gato a quello del “mondo”, ma alla li¬
mitata dimensione dei suoi affetti e
della sua piccola città: pur proponendo
spunti di satira sull’America in gene¬
rale, la scelta di ambientare la vicenda
in una piccola città corrisponde alla
volontà precisa di rifiutare le temati¬
che altisonanti e i risvolti ideologici
del genere mainstream , nello stesso
spirito con il quale molto fumetto in¬
die predilige le micronarrazioni della
vita di provincia, scegliendo di dare
SPECIALE
spazio al privato, trattato spesso in una
chiave esplicitamente autobiografica.
Heroes.' New York post 9/11
Delle riletture dell’immaginario fu¬
mettistico da parte dei media audiovi¬
sivi, Heroes è l’ultimo esempio, non so¬
lo in ordine cronologico, ma anche e
soprattutto dal punto di vista dell’ag¬
giornamento dei canoni del genere: il
topos delf“uomo comune” alle prese
con poteri straordinari, la scomparsa
dell’identità segreta, il primato dei “su¬
pergruppi”, le ossessioni paranoiche-
fantapolitiche e la dimensione globale
delle vicende sono solo alcuni degli
elementi da tempo ormai inseriti sta¬
bilmente nei fumetti e che Heroes fa
propri, mentre negli adattamenti cine¬
matografici sembrano perdurare tutto
sommato personaggi e meccanismi
degli anni Trenta e Sessanta. Ciò che
più interessa qui, del resto, è come, no¬
nostante tutte le novità, l’immagine
della metropoli di New York, seppur
rara , frammentata e non più totaliz¬
zante, rappresenti ancora la matrice
narrativa ed iconografica dell’intera
serie, il perno attorno al quale ruotano
le vicende di tutti i personaggi, l’icona
da decifrare, l’obiettivo da raggiungere
e il tesoro da salvare. Come in Matrix
l’immagine della città è la posta in gio¬
co nella lotta fra le macchine ed i ri¬
belli, così l’immagine di New York, la
sua interpretazione (conservazione o
distruzione?), è l’oggetto del conflitto
fra superumani in Heroes.
Destinazione finale e punto di conver¬
genza di tutti i personaggi e fili narra¬
tivi, lo spettacolo della distruzione di
New York è continuamente rappresen¬
tato: in sogno, in quadro, nelle brevi
escursioni dei viaggiatori nel tempo.
La pre-visione della catastrofe urbana
(svelamento per eccellenza deE’espe-
rienza metropolitana - tanto più dopo
ITI settembre) costituisce il contralta¬
re e la verifica della iper-strutturazione
narrativa della serie, il momento in cui
il ritmo inarrestabile di eventi si inter¬
rompe per pochi attimi, ma soltanto
per dare spazio ad immagini iper-si-
gnificanti che rilanciano a loro volta il
racconto. La New York di Heroes è
quella di una pittura già fumettistica,
di una televisione che tradisce la natu¬
ra digitale dei propri effetti, di sogni e
premonizioni che, giusti o sbagliati,
non hanno mai nulla di vago e indefi¬
nito: tutte queste immagini esprimono
sempre al massimo grado di chiarezza
il proprio contenuto, come nel disegno
del fumetto popolare americano. È la
New York dei supereroi, un’immagine
immediatamente sovraccaricata d’i¬
deologia.
Tuttavia, molte cose sono cambiate ri¬
spetto al passato, ai tempi dell’“ami-
chevole Uomo Ragno di quartiere”:
ora lo spazio urbano non è più lo sce¬
nario quasi esclusivo del racconto, e
New York non è più il centro autosuf¬
ficiente del mondo. La città è sola¬
mente il punto di convergenza di ener¬
gie e tensioni che si organizzano sul¬
l’intero pianeta e che lì, grazie allo
spettacolo della catastrofe del sistema
occidentale, trovano semplicemente il
linguaggio adatto ad esprimere, il caos
in modo più esasperato: è il linguaggio
del filmetto di supereroi, appunto,
quello in cui parola e immagine si so¬
vrappongono, si scambiano di ruolo, in
cui il significato viene alla luce attra¬
verso immagini roboanti, bidimensio¬
nali, “didascaliche”, e dialoghi enfatici,
opposizioni frontali, scontri epici 7 .
La visualizzazione della struttura lin¬
guistica dell’immagine della città e
l’ossessiva esposizione verbale di tema¬
tiche post-moderniste e new age in
Matrix', l’ambiguità della rappresenta¬
zione dello spazio urbano e il paranoi¬
co e infinito (meta)discorso sul fumet¬
to da parte del villain-teoiico in Un-
breakable', la sovrapposizione fra foto¬
grafia e effetti grafici, da un lato, e la
costruzione di un puzzle narrativo da
risolvere attraverso un libro illustrato
in Donnie Darko\ la natura “didascali¬
ca” delle immagini e la messa in rilievo
delle strutture narrative in Heroes: il
fumetto sembra essere adottato dal ci¬
nema e dalla televisione per la sua na¬
tura di linguaggio ontologicamente
anti-realista e anti-illusionista, e uti¬
lizzato di frequente per proporre un
discorso meta-ideologico.
L’immagine della città si costituisce co¬
me il terreno su cui diverse narrazioni e
le parole dell’ideologia si scontrano,
neEa battaglia per dare un senso alle
esperienze dei soggetti messi in scena.
Federico Pagello
Note
1 Scott Bukatman, “The Boys in thè Hoods: A
Song of thè Urban Superhero”, in Matterà of
Gravity. Special Ejfects and Supermen in thè XX
Century, Durham, Duke University Press, 2003.
2 Al rapporto fra fumetto e metropoli sono stati
dedicati negli ultimi anni due numeri monografi¬
ci di due diverse riviste italiane di diversi ambiti
disciplinari ( Schizzo , periodico del Centro Fu¬
metto Andrea Pazienza, n. 13 , maggio 2003, cu¬
rato da Matteo Stefanelli; Controspazio , rivista di
architettura e urbanistica, n. 117,2006), nonché il
recente convegno Comics und die Staadt y tenuti a
Berlino nel giugno 2007, e che ha visto parteci¬
panti studiosi come Henry Jenkins, Scott Bukat¬
man, William Uricchio e Pascal Lefevre.
3 Cfr. Alberto Abruzzese, La grande scimmia. Mo¬
stri vampiri automi mutanti, Roma, Napoleone,
1973.
4 Karl Marx, Il capitale , libro I, Firenze, La Nuo¬
va Italia, 1969, p. 37.
5 Claudio Bisoni, “La matrice e le sue interpreta¬
zioni. Ovvero perché Matrix non è un film post¬
moderno”, in Guglielmo Pescatore, Matrix. Uno
studio di caso , Bologna, Hybris, 2006.
6 Geoff Klock, How to Read Superheros Comics
and Why, New York, Continuum, 2006.
7 In perfetta sintonia con quanto sostenuto a pro¬
posito del melodramma da Peter Brooks in L'im¬
magine melodrammatica , Parma, Pratiche, 1985.
Deus ex Machina
Brian K. Vaughan: una proposta di
monografia
“If you were exiled from America
what taste, smeli and sight would you
miss most?”
“The Taste, thè Smeli and sight of
pure evil. We do it better than any-
one” 1 .
Questo saggio si propone di raccoglie¬
re sistematicamente in un tentativo,
seppur embrionale, di monografìa,
informazioni e considerazioni sulla
carriera di scrittore ancora breve, e tut¬
tavia molto prolifica, di Brian K. Vau¬
ghan. Non vi è infatti, allo stato attua¬
le, se si escludono numerosi articoli e
recensioni, un discorso critico esau¬
riente sul lavoro di sceneggiatore e au¬
tore di fumetti del co-scrittore di Lost
(2004-), del creatore di serie di prossi¬
ma trasposizione cinematografica co¬
me Y: The Last Man (2002-) ed Ex
Machina (2004-). Come vedremo,
sondando le diverse espressioni di una
poetica ben definita e decisamente au-
toriale, ciò che renderà interessante
Vaughan sarà proprio la qualità “cine¬
matografica” del suo lavoro sul fumet¬
to, in un certo senso in grado di con¬
trovertere un rapporto di contamina¬
zione solitamente inverso fra scrittura
fumettistica e filmica. D’altra parte,
per quanto sia un dato spesso negato
dall’autore, potremo anche verificare
nella sua produzione molteplici ascen¬
denze letterarie, che ci permetteranno
di ascriverlo ad una tradizione di scrit¬
tura anglosassone di stampo allegori¬
co, di utopie negative, che va da A Mo-
dest Proposai (1729) di Jonathan Swift
ad Animai Farm (1944) di George
Orwell.
Tutto ha inizio neEa formazione deEo
scrittore: nato a Cleveland nel 1976, si
trasferisce a New York dove frequenta
i corsi di cinema deEa Tisch aEa New
York University. Lì, dove segue E film
and dramatic writing program, riesce a
far parte di un laboratorio attivo per
pochi anni, chiamato “The Stanhattan
Project” (Manhattan Project + Stan
Lee). Si trattava di un workshop idea¬
to daE’innovativo editore deEa Marvel,
James “The Professor” Felder, aEo sco¬
po di reperire nuovi talenti al di fuori
deE’industria del fumetto. A breve, aiu¬
tato daEo stesso Felder, Vaughan di¬
venterà uno dei più richiesti autori per
tutte le maggiori serie Marvel e DC, da
Batman a X-Men, nonché vincitore di
premi Eisner, Harvey e Shuster.
Seppure la spinta rivoluzionaria di
questo giovane emergente apportata al
medium-fumetto nel contesto già ben
deHneato dei supereroi ha un valore
notevole e degno di analisi, ciò che ci
interessa maggiormente esplorare e
Heroes
classificare è il lavoro più personale di
Vaughan, quello fatto su serie e graphic
novels di cui è stato creatore. Se infatti
la nuova linfa portata a personaggi “in
declino” come Dr Strange (2006-2007)
o Swamp Thing (2000-2001), ha senza
dubbio permesso allo scrittore di otte¬
nere un grande credito e una quasi inu¬
sitata libertà creativa, è nelle produzio¬
ni di fumetti “adulti” come quelli pub¬
blicati per Vertigo, Wildstorm o Dark
Horse che Vaughan esprime la propria
vena ora più “politica”, ora “autobiogra¬
fica”. Due caratteristiche, queste, usual¬
mente prerogative della scrittura indi-
pendente. Risulta dunque ancora più
interessante, in quest’ottica, lo sguardo
underground al mondo del fumetto di
un autore comunque legato esclusiva-
mente alle major, alle più potenti case
editrici fin dagli esordi. Scorrendo i
nomi dei “modelli” di Vaughan non ve¬
drete Jack Kirby o Will Eisner, ma
Alan Moore, Daniel Clowes, Adrian
Tornine, Garth Ennis, Seth, Brian
Bendis, Warrcn Ellis o Joe Sacco.
Cercheremo di dividere immaginaria¬
mente il lavoro di Vaughan in tre filo¬
ni principali: quello apertamente auto-
biografico, quello puramente roman¬
zesco e finzionale e, per finire, quello
politico.
“Do you have any interest in doing au-
tobiographical work?”
“Probably not. My life is boring, and
anything interesting usually makes its
way into my fiction” 2 .
Al primo gruppo, appartengono le se¬
rie in cui è possibile intravedere aned¬
doti della vita di Vaughan (spesso da
lui stesso confermati tali) e, più in ge¬
nerale, attraverso le innumerevoli pop-
culture referencies, i frequenti rimandi
musicali e cinematografici, i punti fer¬
mi della cultura della sua generazione.
Fa parte di questo corpus prima di tut¬
to Y: The Last Man, il cui finale sarà a
breve pubblicato, con il sessantesimo
albo 3 . Si tratta della storia dell’ultimo
uomo sulla terra o, per essere più pre¬
cisi, dell’ultimo maschio. Un virus leta¬
le, infatti, stermina l’intera popolazio¬
ne maschile del pianeta, lasciando im¬
provvisamente in mano alle donne il
potere politico, economico e militare.
È facile accostare il racconto di questo
mondo post-apocalittico a numerosi
altri episodi nella letteratura e nel ci¬
nema americano di genere fantascien¬
tifico, ma l’approccio innovativo di
Vaughan sta proprio nell’evitare ogni
riferimento e citazione diretta se non
nei dialoghi dei personaggi, rigeneran¬
do completamente il tema. Il protago¬
nista è un “artista della fuga” di nome
Yorick, apertamente modellato auto¬
biograficamente dall’autore (il quale si
vanta di aver tentato alcuni numeri da
“mago della fuga” in gioventù). La dif¬
ferenza fra questo e un fumetto pro¬
priamente underground sta però nella
narrazione: flashback e flashforward,
indicatori temporali e spaziali, forme e
stilemi del road movie fanno di Y un
prodotto assolutamente hollywoodia¬
no. Non è un caso che New Line si sia
accaparrata quasi immediatamente i
diritti per un adattamento cinemato¬
grafico (con la delusione di molti fan
che avrebbero preferito una serie tele¬
visiva).
Chi abbia letto il fumetto, in tempi
non sospetti, avrebbe potuto prevedere
facilmente l’approdo di Vaughan, pre¬
sto o tardi, nel team di sceneggiatori di
Lost. Tecniche drammatiche, tensioni e
trasgressioni strutturali, dinamiche fra
i personaggi e colpi di scena sono in¬
fatti pressoché analoghi nelle due sce¬
neggiature. Attualmente Vaughan è
stato coinvolto in 11 episodi di Lost,
senza dubbio fra i migliori della terza
serie, fra i quali spicca Catch 22, di cui
l’autore è stato l’unico a firmare la sce¬
neggiatura. L’episodio segue la vicenda
di Desmond, personaggio ispirato ad
Ulisse, viaggiatore e naufrago (nello
spazio e nel tempo). La struttura della
puntata, e lo stesso Desmond, ricalca¬
no lo schema della peripezia e il perso¬
naggio di Yorick, così come si possono
leggere in Y: The Last Man.
Al momento, a causa dello sciopero
degli sceneggiatori e scrittori di Hol¬
lywood, di cui Vaughan è un fervente
sostenitore, la scrittura degli episodi di
Lost è ferma, ma l’autore è già impe¬
gnato nelle sceneggiature cinemato¬
grafiche di Y e di Ex Machina, anche
questo opzionato da New Line.
“Imagine The West Winjf meets Un-
breakablé... unless you don’t like that
crap, in which case, Ex Machina is
completely different” 6 .
Un ingegnere di nome Mitchell Hun-
dred, in grado di parlare con le mac¬
chine e con qualsiasi apparecchio elet¬
tronico, è il protagonista di Ex Machi¬
na. Una serie costruita esclusivamente
su due piani temporali, flashback e
presente: nel passato, viene narrata la
storia de “la grande macchina” (da una
citazione di Thomas Jefferson), primo
supereroe della storia, “mancato” data
l’impossibilità per un personaggio do¬
tato di superpoteri di interagire in mo¬
do efficace con la società reale. Nel
presente, che occupa la gran parte del
racconto, seguiamo invece le “burocra¬
tiche” e assolutamente anti-spettacola-
ri vicende dello stesso personaggio, di¬
venuto sindaco di New York. Il sinda¬
co Hundred, pur essendo un indipen¬
dente e tendenzialmente pragmatista,
viene eletto anche grazie alla notorietà
acquisita per aver dirottato uno dei
due aerei diretti sulle torri gemelle, in
un’America disperatamente bisognosa
di eroi. Il riferimento di Vaughan all’e¬
lezione di Schwarzenegger in Califor¬
nia è evidente, ma non va sottovaluta¬
to il coinvolgimento dell’autore nell’e¬
sperienza traumatica dell’attentato,
come si legge da alcune dichiarazioni
in proposito di una mini-serie com¬
memorativa DC sui fatti del 9/11: “I
watched thè towers fall from thè roof
of my apartment in Brooklyn, so I was
honored to get to donate something to
DC’s 9/11 tribute collection. My short
story explored how writers and artists
could possibly do something as frivo-
lous as work on comics while thè
world was collapsing” 7 . In Ex Machina
l’aspetto politico e autobiografico si
fondono, e in modo assolutamente ri¬
schioso, mai banale: il personaggio
principale dovrà confrontarsi con ma¬
trimoni gay, razzismo, sicurezza, reli¬
gione e quasi ogni altro tema “scottan¬
te” nel dibattito pubblico americano,
soprattutto nella New York post-11
settembre.
Di tutt’altro genere sono invece Ru-
naivays (2003-) e The Escapists (2006),
produzioni inseribili nel filone più
classicamente romanzesco di Vau¬
ghan. Il primo è un originale rilettura
del mondo supereroistico: sei ragazzi¬
ni comuni scoprono che i propri geni¬
tori sono in realtà dei super-villaìns. Il
secondo è invece ispirato al Pulitzer di
Michael Chabon The AmazingAdven-
tures of Kavalìer and Ciaf', e ne è pra¬
ticamente uno spin-ojf, ancora una
volta sul tema della fuga. Kavalier e
Clay sono due fumettisti del 1930 in
fuga: il primo dall’Europa nazista, ver¬
so l’America, il secondo da un corpo
distrutto dalla polio e dalla propria
omosessualità repressa. Il fumetto di
Vaughan, grandissimo fan di Chabon,
segue invece le avventure di uno scrit¬
tore ebreo di Cleveland, Max Roth, il
quale cerca di creare un fumetto in
omaggio al padre, grande appassionato
dell’“eroe escapista”: uno dei suoi col-
laboratori assumerà nella vita reale le
sembianze del supereroe per sventare
un crimine, ma la situazione si farà
presto, realisticamente, fuori-control-
ìo.
Infine, nel filone più politico di Vau¬
ghan, è centrale quello che possiamo
considerare l’esperimento narrativo più
letterario ed insieme più ambizioso
dell’autore: Pride of Baghdad (2006).
La graphic novel è basata sulla vera sto¬
ria di quattro leoni fuggiti dallo zoo
durante i bombardamenti di Baghdad
della primavera del 2003. In cerca di
cibo, in una Baghdad deserta e deva¬
stata dalle esplosioni, i leoni sono divi¬
si da posizioni contrastanti sul signifi¬
cato della libertà e dall’incontro con
altre razze animali, ognuna allegoria di
SPECIALE
58
una diversa posizione sull’Iraq. Il con¬
cetto di autodeterminazione, il prezzo
da pagare per un ordine sociale restrit¬
tivo o totalitario, l’alternativa del “tutti
contro tutti”, sono alcuni dei dubbi
politici e filosofici con cui i personag¬
gi animali sono costretti a confrontar¬
si brutalmente. Il fumetto è cautamen¬
te al di fuori della limitante propagan¬
da democratica anti-Bush, così come
della semplice indignazione dei radi¬
cali americani. Esso consiste piuttosto
nella rivisitazione di un canovaccio che
trova il proprio archetipo nella Batra¬
comiomachia e nella commedia ani¬
male di Aristofane, ma soprattutto ha
la propria consacrazione nella contem¬
poranea satira Animai Farm di Orwell.
Se l’attenzione di questo romanzo era
evidentemente puntata sul regime co¬
munista staliniano, esso consisteva, su
un piano universale, di una profonda
riflessione sul significato della libertà,
e sui “pericoli” che ne possono deriva¬
re, all’emergere di una nuova élite di
potere. Come allora Orwell, anche
Vaughan per Prtde of Baghdad ha ini¬
zialmente incontrato restrizioni edito¬
riali, critiche illiberali e manifestazioni
di sdegno, pur non essendosi mai
schierato su posizioni antiamericane.
Ci sembra dunque ancora oggi molto
attuale quanto scritto dall’autore in¬
glese nel 1944, nella postfazione al li¬
bro, sul tema della libertà di stampa:
Se libertà vuol dire veramente
qualcosa, significa il diritto di dire
alla gente quello che la gente non
vuole sentire. La gente comune
approva ancora vagamente questa
idea e in base ad essa agisce. Nel
nostro paese - non è lo stesso in
tutti i paesi: non fù così nella
Francia repubblicana e non è così
negli Stati Uniti oggi - sono i li¬
berali che vogliono infamare il
pensiero 9 .
Maurizio Buquicchio
Note
1 Brian K.Vaughan in un’intervista contenuta nel
suo sito ufficiale, http://bkv.tv.
2 Ivi.
3 Su questo fumetto, e in particolare sul suo rap¬
porto con le serie televisive, si veda: Stefano Ba-
schiera, “ Y .: The Last Man e le serie Tv dei giorni
nostri”, Cinergie, n. 9, marzo 2005, pp. 34-35.
4 Nota serie televisiva, sul Presidente degli Stati
Uniti, prodotta fra il 1999 e il 2006.
5 Unbreakable (M. Night Shyamalan, 2000).
6 Brian K. Vaughan in op. cit.
7 Ivi.
8 Michael Chabon, The Amazing Adventures of
Kavalìer and Clay, New York, Random House,
2000.
9 George Orwell, “Libertà di stampa”, in La fat¬
torìa degli animali , Milano, Mondadori, 1995, p.
115.
Lo splendore della vita di ogni
giorno
American Splendor. La vita e le stagio¬
ni di Harvey Pekar tra cinema e fu¬
metto
“Ordinary fife is pretty complex
, stufi!”
Harvey Pekar
1980. Il Village Voice, periodico
newyorchese, pubblica un lusinghiero
articolo su American Splendor, fumetto
underground interamente scritto, fi¬
nanziato e distribuito da una sola per¬
sona: Harvey Pekar, un impiegato
pubblico di Cleveland. Poco tempo
dopo Pekar viene contattato dal regista
Jonathan Demme e dal produttore te¬
levisivo Alan Sacks, e nel corso dei pri¬
mi anni Ottanta American Splendor ot¬
tiene tre diversi adattamenti teatrali,
mentre Pekar si fa conoscere al grande
pubblico tramite una serie di appari¬
zioni come ospite al popolare talk-
show condotto da David Letterman.
Nel corso degli anni Novanta Pekar
ottiene l’interessamento di Ted Hope,
produttore connesso alla Good Ma¬
chine, una compagnia di produzione e
distribuzione indipendente. Hope, no¬
me benaugurante, chiede a Pekar di
stendere una sceneggiatura cinemato¬
grafica e suggerisce l’idea di farlo ap¬
parire nel film accanto all’attore desi¬
gnato per interpretarlo, idea con cui
concordano pienamente i registi di do¬
cumentari Robert Pulcini e Shari
Springer. Hope ottiene un finanzia¬
mento dalla HBO e così le riprese del
film possono partire. La location pre¬
scelta è la citta di Pekar, Cleveland,
siamo nel novembre del 2001. Pekar
vive le riprese in prima persona diven¬
tando una presenza assidua sul set. In
seguito assiste all’anteprima di Ameri¬
can Splendor presso il Sundance Film
Festival dove realizza che si tratta di
un film “innovativo”: “Bob and Shari
mixed different Forms — documentary,
narrative fiction, animation and stili
photo of cartoons” 1 . La coppia di regi¬
sti, ispirandosi al fatto che Harvey è
stato disegnato da una miriade di arti¬
sti nel corso degli anni 2 , sperimentano
un casting multiplo. Pekar appare nel
film, viene intervistato da Shari Sprin¬
ger Berman in voice-off, introduce gli
episodi, s’aggira per le gelide strade di
Cleveland, ma è al contempo interpre¬
tato da Paul Giamatti e da Donai Lo-
gue. Il gioco degli avatar riconduce
sempre a lui, alle sue ossessioni, ai suoi
tic: è uno studio celebrativo di questo
anti-eroé della everyday lìfe americana.
Il film è fresco e piacevole, e zigzagan¬
do tra animazione e ripresa fotografica
gioca ad interpolare la cornice della vi¬
gnetta con i bordi dell’inquadratura.
Gli interpreti sono azzeccati, in parti¬
colare l’interpretazione di Paul Gia¬
matti, costretto a confrontarsi con il
Pekar originale, è magistrale. Giamatti
trasforma e condensa le smorfie ner¬
vose ed il birignao slang di Pekar in
un’interpretazione plasticamente ade¬
rente ai valori grafici elaborati dal fu¬
metto, sopratutto in chiave Robert
Crumb: la giostra dei denti, il saltella¬
mento nervoso da una gamba all’altra,
la voce rauca, la goffa postura, la smor¬
fia sghemba che attraversa il viso, la
maschera raggelata dell’espressione
che si apre a brevi squarci di micro¬
mimica allusiva. Un “gioco performa¬
tivo”, forse il primo caso di un’inter¬
pretazione integralmente ispirata da
un’iconografia fumettistica. Le imma¬
gini sono arricchite da una bella co¬
lonna sonora jazz scelta sulla base di
una consulenza fornita dallo stesso
Pekar, che ha esercitato per diversi an¬
ni la critica discografica. Il film non fa¬
tica a conquistarsi la vittoria al Sun¬
dance. Questi dati non li ho ricavati da
un articolo o da un saggio, ma da un
fumetto scritto dallo stesso Harvey
Pekar 3 , perché è questa la caratteristica
più affascinante del personaggio:
Pekar da oltre trentanni mette la pro¬
pria vita in un fumetto.
American Splendor, ilfumetto
Per presentare American Splendor è uti¬
le rifarsi all’introduzione scritta da
Robert Crumb destinata alla prima
raccolta antologica del fumetto 4 .
Crumb ricorda il primo incontro con
Pekar descrivendolo come un autenti¬
co hipster, frenetico nel parlare e nel
muoversi, fanatico di jazz moderno e
grande collezionista di libri e vinili
mentre la cifra della monomaniacalità
viene posta alle fondamenta di un fu¬
metto auto-prodotto e distribuito a
mano, nel più completo isolamento ar¬
tistico e culturale dalla “scena” edito¬
riale californiana o newyorkese. Il pri¬
mo incontro tra Crumb e Pekar viene
rievocato in un fumetto del 1979: The
Young Crumb Story 1 . Pekar si interessa
gradualmente al nuovo ambiente degli
underground comix di cui Crumb di¬
venta in breve tempo il principale
esponente 6 . Dopo una serie di rifles¬
sioni e vicissitudini perviene a queste
conclusioni:
The guys who do that animai
comic ari super-hero stuff for
straight comics are really limited
because they gotta try t’appeal to
kids. Th’ guys who do under¬
ground comics have really opened
things up, but there are" stili plenty
more things that can be done with
em, they got great potential. You
c’n do as much with comics as thè
novel or movies or plays or any-
thing. Comics are words ari pic-
tures; you c’n do anything with
words ari pictures! 7
Un termine che comparirà spesso nei
suoi fumetti è la parola “cheap” che
vuol dire economico, povero, ma anche
“avaro”, accusa che Pekar riceve spesso
nella sua quotidianomachia. “You’re
cheap!” si sente dire dalla ragazza con
cui esce o dal collega d’ufficio a cui
scrocca un passaggio in macchina o
una fetta di torta. Il concetto di pove¬
ro e di economico per Pekar, che colle¬
ziona old things e si veste second hand
va bene, funziona, è affine alla flessibi¬
lità stessa che permette il fumetto.
L’importante per lui è l’urgenza di
esprimersi, e di spendere bene i propri
soldi nel farlo. Lo scenario in cui si
muove è Cleveland. Gli anni narrati da
Pekar nelle sue prime storie, le più du¬
re e pure, riflettono l’incertezza di una
metropoli che negli anni Sessanta, do¬
po aver vissuto un breve momento di
espansione dell’industria pesante, è av¬
viata verso il declino, fase che porta ad
un vasto movimento di periferizzazio-
ne e rapida degenerazione nella qualità
della vita allocata nei nuovi slums.
Pekar si muove in questo contesto co¬
me un personaggio assolutamente in¬
tegrato al paesaggio suburbano con le
sue subculture. Alcuni dei suoi fumet¬
ti raccontano il periodo della depres¬
sione economica e delle tensioni raz¬
ziali, i cosiddetti Hough Rìots del 1966
(dal nome della comunità di colore di
Hough, dove si generarono gli scon¬
tri). Questa prima stagione di Ameri¬
can Splendor che va dal 1976 alla metà
degli anni Ottanta circa, coincide con
una cruda, realistica rappresentazione
della working-class americana, ad
esempio in Rolline on Time (1978) op¬
pure in Visua/ize, Actualize, Realize
(1979) 8 . Non mancano le vicende pri¬
vate, lo sguardo impietoso sul duplice
fallimento coniugale, la solitudine, il
tedio, le amare e malinconiche rifles¬
sioni sull’esistenza ed il decadimento
biologico. Buona parte della produzio¬
ne di Pekar aspira alla confessione let¬
teraria ascendendo alla funzione catar¬
tica più remota e significativa della la¬
mentazione, come in A Ride Home
(1983) 9 . Le sue radici ebraiche affiora¬
no in una vicenda di passaggi in mac¬
china gratuiti: Free Rìde (1984) 10 , dove
si affronta il nodo del sionismo, che
Pekar liquida in pochi giri di parole:
“Oh, Man this guy wants thè jews
t’have their own country aribe strong
so they can walk all over people thè
way they been walked ori’ 11 . A questa
prima fase, più esistenzialista e “prole¬
taria”, seguiranno altri numeri della
prima serie originale di American
Splendor, quasi interamente autopro-
SPECIALE
dotta, che termina nel 1993. Dal 1994
Pekar scriverà dei numeri addizionali
di American Splendor per la Dark Hor-
se Comics, produrrà due graphic novel
e nel settembre del 2006 realizzerà una
mini-serie di quattro numeri di Ameri¬
can Spendor per la Vertigo, marchio in¬
die della DC Comics. Nella citata in¬
troduzione, Crumb sottolinea l’origi¬
nalità dell’approccio di Pekar, difficile
da trovare in letteratura, impossibile
nei film o nella televisione. Pekar è un
Emile Zola senza carnet che scrive di
quello, che ha visto mentre le cose gli
sono ancora fresche in mente, e com¬
pone le sceneggiature per i fumetti
usando quegli omini fatti a bastoncino
che disegnano i bambini. Il rapporto
che stabilisce con i disegnatori a cui
commissiona le storie tende ad impe¬
dire che questi ricadano in uno stile
standardizzato da fumetto supereroi-
stico, e questo molto prima che l’esplo¬
sione di Frank Miller o Alan Moore
popolarizzasse la tipologia d’approc¬
cio. Tale lucida metodologia ha per¬
messo delle esplorazioni formali: ad
esempio il disegnatore Gerry Shamray
ha lavorato basandosi su una serie di
foto di Pekar e della moglie prese nel
loro appartamento. Aggiunge il sotto-
scritto che il “caso Pekar” ha la nota di
merito di aver rappresentato quasi un
unicum nel panorama dell’industriale
editoriale del fumetto corrotta dai
prezzi, dal comics code , dal sistema di
distribuzione e smaltimento o dal pre¬
dominio vessatorio dei generi “di suc¬
cesso”. Per una tassonomia minima dei
generi praticati da Harvey Pekar: la
fantasia, la confessione, la conferenza-
imbonimento del lettore, il micro¬
evento quotidiano, la recensione, le ge¬
sta di jazzisti e di uomini non illustri,
il piccolo pantheon del consueto e del¬
l’ordinario. A queste forme ne va ag¬
giunta un’altra che si auto-organizza
perimetrando il tempo vissuto secondo
un evento concluso: il cancro, o la ge¬
nesi del film American Splendor, come
indicano gli stessi titoli delle graphic
novel scritte in collaborazione con la
nuova compagna Joyce Brabner Our
Cancer Year (1994) e Our Movie Year
(2004).
American Splendor .; il film
Se il fumetto moderno e contempora¬
neo “mima” il cinema per ricostruirne
atmosfere e ritmi, come hanno pun¬
tualizzato gli studi di Daniele Barbieri
ed Alberto Abruzzese, nel caso di
American Splendor (2003) di Robert
llplcini e Shari Springer Berman è
evidente lo sforzo di capovolgere que¬
sta tendenza e di “saltare” tra le maghe
delle diverse modalità espressive di fu¬
metto + cinema: il film è un marchin¬
gegno intertestuale che scivola tra le
diverse combinazioni possibili del rap¬
porto tra finzione disegnata e storia
narrata per immagini in movimento e
le declina nelle variabili della recita,
Fanalisi, l’intervista, l’auto-rappresen-
tazione, l’interpellazione, ecc... Nel¬
l’incipit viene inserito un episodio
apocrifo di Pekar bambino che fa il
tradizionale giro del quartiere durante
Halloween ma senza il tradizionale
costumino da superore, suscitando co¬
sì lo sgomento della vicina di casa, il
che dovrebbe suggerire la connaturata
tendenza di Pekar a scostarsi dal main-
stream fumettistico (ma tutto ciò sem¬
bra configurato come un manifesto del
cinema indipendente da cui provengo¬
no gli stessi registi). I titoli di testa ri¬
badiscono le intenzioni di coniugare il
dominio dell’impaginazione delle vi¬
gnette con il campo dell’inquadratura
cinematografica, verso una sorta di
mixed media. Il set dell’intervista a
Pekar è uno sfondo bianco che sugge¬
risce l’analogia con la pagina del fu¬
metto ed appaiono integrate all’in¬
quadratura delle scritte non locutive,
che riportano delle indicazioni spazio¬
temporali ad emulazione della dida¬
scalia fumettistica. Un’altra sequenza
mette in continuità la messinscena sul
set ed il suo retroscena, dove compaio¬
no i personaggi reali (Pekar e Radloff )
che sono stati appena rappresentati
dagli attori. In un’altra, ispirata ad un
fumetto del 1978 disegnato da
Crumb: Standing Behind Old Jewish
Ladies in Supermarket Lines (1978) 12 ,
l’inquadratura viene splittata per dar
luogo ad un pensiero di Giamatti vi¬
sualizzato con il Pekar disegnato da
Crumb che interviene a viva voce. In
un’altra sequenza, dove compare il “sa¬
lomonico” Mr. Boats, supervisore col¬
lega di Pekar e grande dispensatore di
saggezza popolare, il profilmico è di¬
sposto per coincidere esattamente con
i contorni di una copertina di Ameri¬
can Splendor. Le apparizioni televisive
di Pekar al David Letterman Show so¬
no “citate” attraverso l’inquadratura di
un televisore. Ma la sequenza visiva¬
mente più interessante è quella dedi¬
cata alla trasposizione di uno dei fil¬
metti più belli della serie American
Splendor, ossia: The Harvey Pekar No¬
me Story, disegnato da Robert Crumb
nel 1977 13 . Qui Giamatti si muove in
uno spazio vuoto digitalizzato con il
blue screen. Nel bianco compare una ri¬
ga che lo segue, a tracciare i contorni
di una vignetta, e lo sfondo presto si
riempie di linee che si richiamano allo
stile del tratteggio “sporco” di Crumb
per poi dissolvere in una strada inne¬
vata. Se la sequenza disattende la po¬
tente frontalità del fumetto originario,
tesa a comunicare un disagio estrania¬
to, comunque convince come uno dei
momenti più febei a monte di queste
continue prove e riprove di convivenza
tra cinema e fumetto. Si può dire allo¬
ra il film costruisce un work in progress
“cross-mediale” che si svolge sotto gli
occhi dello spettatore appellandosi
molto alla nozione già assodata di ci¬
nema “postmoderno”. Ma sostanzial¬
mente, se lo riportiamo alla struttura
essenziale, si tratta di una docu-fiction
su Pekar, in cui allo stesso Pekar viene
chiesto di commentare alcuni episodi
di American Splendor ed introdurre i
caratteri che ne popolano le vicende.
Da questi spunti emergono continui
“focus” drammatizzati che sostanzial¬
mente seguono una linea cronologica
piuttosto lineare, coincidendo con la
vita e le stagioni di Pekar. Alla fine del
film la linea della narrazione e quella
della vita reale del narratore coincido¬
no: il film si chiude con le immagini di
Pekar che festeggia il pensionamento
con la famiglia. In generale i registi
Robert Pulcini e Shari Springer Ber¬
man si premurano di mantenere una
certa aderenza al realismo spigoloso
del fumetto, ma non mancano le dete¬
stabili concessioni alla drammatizza¬
zione hollywoodiana: si veda ad esem¬
pio la differenza tra lo sguardo com¬
mosso e minimale praticato da Pekar
su un avvenimento per lui saliente co¬
me la conoscenza della sua futura ter¬
za moglie, in DearMr. Pekar: WhatDo
I Do For a Living... Costumes, Comics
and Convicts 14 , e l’edulcorazione pseu-
do-hoolywoodiana dello stesso episo¬
dio, nel film.
La discutibile pesantezza dell’essere
Pekar, con i suoi avatar d’inchiostro, lo
si guarda come una cosa desiderabile,
l’energia nervosa di cui si carica crepi¬
tando è l’energia degli schiavi che bru¬
licano nel corpo decomposto delle
grandi aree depresse nelle metropoli
nordamericane. Il suo regalo più gran¬
de alla letteratura “popolare” di questo
secolo letterario ' (che per quanto sia
breve, non è ancora finito) è il suo por¬
si come heteros autos. Pekar è indimen¬
ticabile nella graziosa levità del suo di¬
venire altro dello stesso, in quel colpo
di calcagni con cui eleva la materia gri¬
gia di cui sono impregnati i buchi neri
dell’esistenza verso la luce con cui ce la
fa guardare, quasi verso un’auralità del
percetto (seguendo l’indicazione del¬
l’unico maestro che si è fatto ricono¬
scere: “Avvertire l’aura di una cosa si¬
gnifica dotarla della capacità di guar¬
dare”) 15 , rendendo riconoscibile un
tratto di vita altrimenti persa nelle cor¬
renti di uno sciabordio informe. Pekar
si incide nella nostra mente con un er¬
pice kafkiano, ci tatua della sua esi¬
stenza. E ci si affeziona a questo every-
man di periferia, che ci interpella per
lenirsi i piccoli tagli e le contusioni ad¬
dolcendo un po’ anche la nostra vita e
così facendo ci accomuna nei segmen¬
ti di una prossimità umana. Non sto
soltanto proponendo di includere nel
prossimo Voyager una copia di Ameri¬
can Splendor, sto cercando di dire che
Pekar ci inscrive in una categoria, non
nuova, ma ancora non emersa sotto le
cure di un qualche Foucault, una cate¬
goria antropologica dell’uomo con¬
temporaneo. Ed il tratto notevole di
questa emersione è rappresentato pro¬
prio dal mezzo che egli ha prescelto
per concretarla: il fumetto, per le ra¬
gioni non minori della sua propria for¬
za di espressione. E la cosa più notevo¬
le del gesto è che rasentando quasi la
non-espressione finisce per ritrovare
appieno quel gusto equipollente della
creazione che non decresce di dignità
rispetto a qualsiasi altro medium d’e¬
vocazione creativa. Gli storici “annali¬
sti” francesi hanno scoperto il valore
della microstoria e dei “testimoni loro
malgrado”, e allora, Pekar è un testi¬
mone volontariamente involontario: in
lui scorre un flusso elettrico di curio¬
sità inesausta e logorroica, la volontà di
59
SPECIALE
60 marchiare tutto, dare un’opinione su
tutto, ed oltre a tutto questo c’è una
parte, ancora da depurare, di testimo¬
nianza preziosissima. Il suo sguardo
estremamente lucido e spietato lo ac¬
comuna ad alcuni dei più importanti
realisti americani contemporanei.
D’altronde Pekar, tratto sottolineato
nel film, nasce come collezionista
compulsivo, rivelando tratti di un
comportamento favorevole alla reifica¬
zione, difatti prima di scrivere storie a
fumetti vinceva l’ansia esistenziale
con il metodo del junk che si strafa di
dischi. Pekar in questa fase ben de¬
scritta in American Splendor sarebbe un
“cugino Pons”, a cui si accosta per
sciatteria e passione divorante, se non
fosse che la sua collezione è puramen¬
te affettiva, priva come d’ogni valore
materiale. Ma questo non ci deve stu¬
pire: Pekar, giustamente ripreso da
Berman e Pulcini come stagliato su
uno sfondo dove compaiono scatole
colme di dischi, rimane un collezioni¬
sta che ripone nelle griglie delle sue vi¬
gnette i multipli esemplari di un umi¬
le ma dignitosissimo proletariato uma¬
no: nerds, scansafatiche, hobos ,. donne
di facili costumi, lunatici, vecchi trom¬
boni pieni di consigli improbabili,
scrocconi, ecc... Mi rifaccio allo studio
di Michel Foucault sulle coordinate
ontologiche della parola “autore”, stu¬
dio recentemente analizzato da Gior¬
gio Agamben il quale commenta: “la
funzione-autore appare come un pro¬
cesso di soggettivazione attraverso il
quale un individuo è identificato e co¬
stituito come autore di un certo corpus
di testi” 16 ; e credo si possa parimenti
sostenere che nel processo di capitaliz¬
zazione della funzione-autore, a cui
aspira la Grande Scimmia dell’imma-
gine-merce, la funzione-autore è già
lacerata nel momento in cui viene sog-
gettivizzata attraverso lo stesso effetto
di corpus indotto dal nome dell’autore
stesso, passaggio che segna il limite
anche della funzione-lettore. Sono gli
effetti speciali intorno alla Grande
Scimmia, come nella celebre sequenza
di Videodrome (David Cronenberg,
1983) dove lo schermo viscoso e pul¬
sante di un televisore fagocita lo spet¬
tatore (sequenza che ha regalato una
volta per tutte al nostro immaginario
una perfetta rappresentazione deE’Io
che sparisce dietro l’ingloriosa marcia
della marcescenza dell’Aura) “illustra”
gli effetti della fruizione di un segno
autoriale che è già morto sul suo na¬
scere. Allora, posso capovolgere la sen¬
tenza agambeniana per cui “porsi come
autore significa occupare il posto di un
morto”. Pekar è difatti il caso di un ta-
natografo già morto nel momento in
cui scrive, ma ciò che a lui interessa
non è tanto rileggere il soggetto al di là
del suo tramonto, bensì produrre un
ampliamento di quella che è sempre
stata la posizione dell’autore a mo di
“esèrgo”, ossia la foto sul retro del li¬
bro, in cui la funzione-autore e l’auto¬
re stesso s’abbracciano definitivamen¬
te. Quello che gli interessa è boxare a
lungo con la sua ombra, produrre un
incontro con noi, farsi ascoltare, ed in
questo la sua scrittura briccona e smar¬
giassa, cioè “pekaresca”, si riafferma
come un episodio sostanziale non del
cinema, non del fumetto, bensì un epi¬
sodio della storia della lettura , se consi¬
deriamo la lettura un gesto controrea¬
gente al dispositivo che la produce, un
apporto all’umanità dotato di direzio¬
ne, tempo ed infine di un’etica: “come
presenza di un corpo vivo in un mon¬
do vivo che può essere salvezza quanto
minaccia, negazione e affermazione, e
certo esige il riconoscimento del no¬
stro essere sempre in cammino alla ri¬
cerca di un senso, di una figura ove an¬
che il disordine si trasformi in presagio
di ordine” 17 . Pekar è una figura in fu¬
ga, o in viaggio, verso qualcosa di me¬
no che una ricerca sistematica, qualco¬
sa di più che un diario, qualcuno che
cerca una comunicazione resistente, o
quanto meno di buttare una manciata
di cemento a presa rapida sul mondo
che gli sfugge sotto i piedi. Solo il fil¬
metto forse poteva fermare questa
scheggia impazzita. E allora possiamo
intuire finalmente cos’è il fumetto per
Harvey Pekar: è qualcosa tra la stretta
gelida e famelica della strada ed una li¬
vida insonnia, tra il tedio e l’ipercineti-
smo del pazzo, è qualcosa di molto si¬
mile a quanto è stato descritto da quel¬
la poesia di Léonard Cohen, che reci¬
ta:
Non mi sono suicidato
quando le cose andavano male
Non mi sono dato
alla droga o all’insegnamento
Ho cercato di dormire
e visto che non ci riuscivo
ho imparato a scrivere
ho imparato a scrivere
cose che uno come me
avrebbe letto
in una notte così 18
Davide Gherardi
Note
1 Harvey Pekar, “The American Splendor
Movie”, ora in Harvey Pekar, American Splendor.
Our Movie Year , New York, Ballantine Books,
2004, p. 15.
2 Airindirizzo http://joshcomix.home.mind-
spring.com/and/pekar_artists/index.html si trova
una lista pressoché completa fino al 2006 dell’as¬
sortimento di artisti che hanno illustrato le storie
di Harvey Pekar, dalla “A” di L.B. Armstrong alla
“Z” di Mark Zingarelli.
3 H. Pekar, “The American Splendor Movie”,
cit., pp. 2-19.
4 Robert Crumb, “Introduction” (1985), in Har¬
vey Pekar, American Splendor. The Life and Times
of Harvey Pekar , New York, Ballantine Books,
2003.
5 Harvey Pekar, Robert Crumb, “The Young
Crumb Story”, 1979, ora in H. Pekar, American
Splendor. The Life and Times of Harvey Pekar , cit.,
s.p.
6 Gli underground comix sono “un’esplosiva misce¬
la di sesso, politica, reminiscenze dei fumetti del¬
l’orrore, comicità goliardica, riferimenti alla rivista
‘Mad’, ricerche formali, effetti grafici e psichede¬
lici, neologismi gergali”. Vedi Pietro Favari, Le
nuvole parlanti , Bari, Dedalo, 1996, p. 123.
7 H. Pekar, American Splendor. The Life and Times
of Harvey Pekar , cit., s.p
8 Ibidem, s.p.
9 Ibidem, s.p.
10 Ibidem, s.p.
11 Ibidem, s.p.
12 Ibidem, s.p.
13 Ibidem, s.p.
14 Ibidem, s.p.
15 Walter Benjamin, “Di alcuni motivi in Baude¬
laire”, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Tori¬
no, Einaudi, 1995, p. 124.
16 Giorgio Agamben, “L’autore come gesto”, in
Profanazioni, Roma, nottetempo, 2005, p. 71.
17 Ezio Raimondi, Un'etica del lettore, Bologna, Il
Mulino, 2007, p. 75.
18 Léonard Cohen, “Questa- è l’unica poesia”, in
L'energia degli schiavi, Roma, minimum fax, 2003,
p.97.
nm OFF THE STKEETS OFCLRfElM COMES...
WS3MÌ$
m LIFE m TIMES Am PEKAR
S P E CI ALE
'/Brothers e il debutto di Woo nel
mondo dei comics
Per introdurre a grandi linee un fu¬
metto come Severi Brothers (John
Woo/Garth Ennis, Virgin Comics,
2007) bisogna per un attimo andare al
cinico marketing presente nell’attuale
intenso scambio cinema-fumetto per
poi, solo in un secondo momento, ana¬
lizzare gli apporti linguistici (se pre-
: senti) che un regista come Woo ha sa¬
puto apportare al media fumetto e co-
me e re si è saputo adattare all’arte se-
; quenziale.
Ma prima, per l’appunto, Marketing, e
:| anche a costo di risultar piatti scontati
gse banali dobbiamo ricordare come il
portare su celluloide un personaggio
dei fumetti dal nome già conosciuto al
grande pubblico possa far risparmiare
diversi soldi nel promuovere il film
| stesso (e parecchi soldi sono investiti
nella promozione). Lo stesso, ovvia¬
mente, avviene in direzione opposta,
intani anche se parliamo di un merca-
to ben diverso in termini di numeri e
( soldi non si può ignorare come i fu-
metti tendano ad allungare su carta le
avventure filmiche di popolari perso-
(paggi che proprio non vogliono uscire
((dall’immaginario collettivo - Night-
|:mare (Wes Craven, 1986) è ancora vi¬
llo nelle vignette 1 , così come i perso¬
naggi de L'armata delle tenebre 2 (Sam
Raimi, 1992) - o come costantemente
ripresentino versioni a vignette dei
film in sala, da Star Wars (George Lu-
cas, 1977) a Kill Bill (Quentin Taran-
tino, 2003-2004), in una forma di
“adattamento popolare” che un tempo
fu dei romanzi.
Bene, fin qui nulla di nuovo e nemme¬
no di particolarmente interesse, ma
quando il colosso Virgin ha deciso nel
2006 di dedicarsi anche a fumetti (in-
sieme a videogames per cellulari e car¬
bòni animati), non solo ha aperto una
sede in India e un website molto ac¬
cattivante 3 , ma ha anche arruolato un
regista come Shekhar Kapur tra i suoi
creatori e amministratori e fin da subi¬
to ha scelto il fumetto come media at-
torno al quale far ruotare diverse per¬
sonalità provenienti dai più disparati
campi dell’intrattenimento. Infatti, per
emergere in un mercato quanto mai
vario e saturo come quello del fumet¬
to, la Virgin Comics ha puntato con
decisione verso la ricerca di nomi già
conosciuti dal grande pubblico da
■Stampare sulla patinata prima pagina
;i|ei loro prodotti, scegliendo non per¬
sonaggi di finzione e titoli cinemato-
giafici ma, piuttosto, i loro creatori.
Una manovra, questa, forse non parti¬
colarmente nuova nel panorama fh-
mettistico (dove uno scambio di auto-
ri con altri media è sempre stato pre¬
sente) ma interessante perché la Vir¬
gin Comics sta provando a definire la
sua identità a fumetti proprio attorno
a quest’idea di “apertura autoriale”; ba¬
sti pensare ai nomi delle varie collane
come “Director’s cut” e “Virgin’s voi-
ces”.
Quindi, idea di base della Virgin Co¬
mics: accogliere intellighenzia da altri
media e dargli possibilità di esprimer¬
si a fumetti affiancandogli, ovviamen¬
te, professionisti del settore. Tra i nomi
che campeggiano prima del titolo del¬
le varie serie abbiamo: Nicholas Cage
& figlio, Dave Stewart (co-fondatore
degli Eurythmics), Jenna Jameson;
Guy Ritchie e, appunto, John Woo.
Questa è solo una breve introduzione
al nuovo panorama Virgin e sembra
evidente come il titolo 7 Brothers idea¬
to da John Woo e sceneggiato da
Garth Ennis appaia come il prodotto
più accattivante. Innanzitutto Woo è
un regista che ha un che di fumettisti-
co nei suoi film e a sua volta ha indi¬
rettamente ispirato una generazione di
sceneggiatori di comics; lo stesso En¬
nis gli rese omaggio nella serie Hitman
(DC Comics, 1993), per temi, tropi e
personaggi. In secondo luogo, la pre¬
senza dello sceneggiatore irlandese è
una garanzia di un’unità d’intenti, con¬
tinuità stilistica e di una dose di origi¬
nalità linguistica con il lavoro di Woo.
Se il regista di Hong Kong non ha bi¬
sogno di presentazioni sembra neces¬
sario ricordare come Ennis sia un mo¬
stro sacro del fumetto a stelle e strisce
degli anni Novanta-Duemila, ha scrit¬
to per le più importanti case editrici al
mondo (dalla Marvel alla Top Cow
ecc.), è il creatore di Preacher (Ennis,
Dillon; 1995, Vertigo), sceneggiatore
di Hellblazer (1988-, Vertigo) e prota¬
gonista del restyling dello scomodo
Punisher (Ennis, Dillon; 2001-2004,
Marvel Max), incoronato nel 1998 co¬
me miglior scrittore agli Eisner
Awards (per il quale è stato candidato
cinque volte) e via dicendo. Il suo trat¬
to caratteristico è una rappresentazio¬
ne assolutamente spettacolare della
violenza e un uso creativo del turpilo¬
quio. Insomma, dalla fantasia di un re¬
gista come Woo, libera da ogni impe¬
dimento “produttivo” del mezzo cine¬
matografico, e dalla maestria narrativa
di Ennis sembrerebbe lecito aspettarsi
- per una volta - un debutto significa¬
tivo nei fumetti da parte di un regista.
Global?
Un altro dei tratti caratteristici della
Virgin Comics è quello di aver forti
contaminazioni con l’immaginario
orientale, indiano in primis. A parte il
processo di outsourcing (manifestato e
sottolineato anche nella presentazione
nel loro website) una delle loro collane
di fumetti (la collana “indiana” è chia¬
mata Shakti ) è dedicata a prodotti che
si riferiscono direttamente all’immagi¬
nario indiano, sia per tratti iconografi¬
ci sia per orizzonti “filosofici”, tagliati
ovviamente con l’accetta. Senza ad¬
dentrarci troppo in questo orientali¬
smo - ci sarebbe anche da discutere su
quale idea di Oriente appaia tra queste
pagine e sul mercato di riferimento di
questi prodotti - diciamo solo che
quest’idea di voler rappresentare un
mondo quanto mai globale, anche se
con il centro in Usa, è centrale in
7Brothers. La storia stessa è l’adatta¬
mento di una leggenda cinese, la prima
a raccontare di “supereroi”: dieci fra¬
telli con dieci diversi superpoteri si
uniscono per difendere i lavoratori
della Grande Muraglia. Ennis e Woo
riadattano questa leggenda ai tempi
moderni, cercando di spingere sul ta¬
sto del “piccolo mondo globale” e del
“tutti possono esser supereroi, anche i
più insospettabili”.
Infatti, tra i protagonisti abbiamo ci¬
nesi (ovviamente), africani, medio¬
rientali, nativi americani, caucasici e
via dicendo, tutti fortemente stereoti¬
pati e allo stesso tempo somiglianti tra
loro nel tratto “sporco” di Jeevan Kang.
Ogni personaggio ha anche una ste¬
reotipa “storia epifanica” dei propri po¬
teri, direttamente collegata al luogo di
origine: il palestinese che con la sola
voce riesce a distruggere un elicottero
israeliano in procinto di bombardare la
sua casa, l’africano in mezzo a una
guerra civile, ecc.; insomma, un mondo
globale 4 , diversificato ma assoluta-
mente piatto e familiare con epicentro
(manco a dirlo) negli Stati Uniti.
Trama
La trama della prima serie si sviluppa
con una banalità sconcertante che
emerge anche in poche righe di sinte¬
si: la Cina ha girato il globo prima di
Magellano e Colombo ma ogni traccia
è stata volutamente cancellata dalla
storia perché i costi delle spedizioni
avevano ridotto il paese sul lastrico du¬
rante un periodo di carestie. Sulle navi
che viaggiarono in ogni angolo del
pianeta cera anche un arcimago chia¬
mato Son of Hell e il suo apprendista
Fong: il primo era impegnato a trac¬
ciare con particolari pietre le “linee del
drago” che gli dovevano permettere di
controllare gli elementi naturali e vir¬
tualmente il mondo stesso. Fong dal
canto suo, sapendo degli intenti male¬
fici del suo maestro, decise di lasciare
anch’esso il suo marchio sulle linee del
drago, in questo caso fertilizzando
donne locali in modo da avere una
progenie. Entrambi i piani fallirono
miseramente quando l’imperatore del¬
la Cina decise di mettere al bando ul¬
teriori spedizioni, e Fong con uno
scontro all’ultimo sangue riuscì a im¬
prigionare Son of Hell in fondo a una
montagna prima che potesse vendicar¬
si dell’imperatore. Ai giorni nostri, una
ragazza cinese raccoglie attorno a sé
sette personaggi provenienti da ogni
parte del mondo, ognuno ha dei pote¬
ri speciali, ognuno è ovviamente la
progenie di Fong. Devono riunirsi per
combattere il ritorno sulla terra di Son
of Hell.
Ecco, una trama che assomiglia molto
a The League ofExraordìnay Gentlemen
di Alan Moore (Wildstorm Comics,
1999) e che comunque richiama un’in¬
finità di storie a fumetti, un plot che
ripercorre quasi pedissequamente il
più classico sviluppo narrativo dei fu¬
metti supereroistici.
Struttura
Ennis e Woo non si prendono nessun
rischio, la struttura della miniserie -
articolata in cinque albi - è quantome¬
no tradizionale ed essenziale:
1. Incontro dei personaggi.
2. Scoperta dei poteri dei personaggi e
del motivo della loro riunione.
3. Incredulità seguita da una presa di
coscienza del loro ruolo di eroi.
4. Primo incontro con il villain e pe¬
sante sconfitta.
5. Villain a un passo dal dominio del
mondo.
6. Rinascita insperata degli eroi.
7. Vittoria finale con definitiva crea¬
zione del gruppo 5 .
Questo percorso a sette tappe è serra¬
to e rigido, non si trova spazio dedica¬
to alla caratterizzazione dei personag¬
gi se non in figure di archetipi quali il
credente, il diffidente, l’iroso, il medi¬
tativo, il folle dal cuore d’oro, né tanto
meno aperture possibili della storia sia
in rapporti interpersonali sia nella pro¬
blematizzazione dei superpoteri. La
storia dice tutto, non lascia alcun filo
della narrazione in sospeso, misteri da
risolvere, personaggi da indagare, am¬
biguità da sviluppare; nasce e si esauri¬
sce come miniserie chiusa nella sua
unità 6 . Questo va a scontrarsi con 0
fatto di essere comunque un “numero
uno”, una storia di presentazione di un
gruppo di supereroi che appartengono
per forza di cose all’universo della se¬
rializzazione, anche se sembrano ne¬
garla. Insomma, la struttura di
7 brothers vive del paradosso di essere
esaustiva come sviluppo, presentando
però personaggi da serie che rimango¬
no alla fine come uno scheletro vuoto
senza spessore alcuno. Mi spiego me¬
glio, la storia è incentrata più sullo svi¬
luppo della vicenda, sul raccontare una
61
ÌSlilliii
62
7Brothers
storia, che sui personaggi che la ani¬
mano; i protagonisti sono terribilmen¬
te delineati, è un mondo senza ombre
e aperture. Là dove la narrazione di
The League ofExtraordinary Gentlemen
(per esempio) offre decine di storie
possibili a ogni giro di pagina con per¬
sonaggi ed azioni difficili da codificare
pienamente, 7brothers è dominato dal¬
la piattezza e da uno svolgimento nar¬
rativo che si dipana senza mai metter¬
si in discussione o creare stratificazio¬
ne alcuna
II tocco di Woo
In tutto questo c’è da chiedersi: “e l’ap¬
porto di Woo?”. Per esserci c’è ma è
piatto e non problematico come il fu¬
metto stesso, più che un apporto è un
“rimandare a”. Infatti, per dare un’i¬
dentità “wooiana” al fumetto stesso si è
proceduto adattando in vignette alcu¬
ne caratteristiche inquadrature e situa¬
zioni del cinema di Woo. Un sistema
di citazioni e rimandi molto semplifi¬
cato rispetto anche a quanto fece En-
nis nel sopramenzionato Hitman e
che, alla fin fine, risulta in un asservir¬
si a pagine di “azione” statiche, una
sorta di storyboard di scene tipiche dei
film di Woo.
Questo è il punto, essendoci uno svi¬
luppo narrativo che non ha accelera¬
zioni brusche e non riesce mai a dare
un vero e proprio ritmo alla vicenda se
non quello di uno stanco susseguirsi di
“già visto”, il momento dell’Azione, del
confronto Bene vs. Male non è altro
che una serie di vignette che rimanda¬
no in maniera il più esplicita possibile
alle inquadrature del cinema di Woo:
un tipo orientale in giacca e cravatta
che spara con due pistole circondato
da bossoli volanti, una soggettiva im¬
possibile attraverso il buco in un muro
di un grattacielo, il momento di empas¬
se con pistole reciprocamente puntate
e pronte per far fuoco ecc. Il lettore
non viene chiamato a nessuno sforzo
particolare di lettura e di ritorno sulla
pagina scritta e questo porta anche a
un impigrirsi dell’azione stessa e un
processo di riconoscimento extrate¬
stuale e nulla più; se non bastasse
quanto detto finora a rendere l’idea di
piattezza che domina questo prodotto,
posso aggiungere che il villain, nel
momento di massimo potere, gigan¬
teggia letteralmente sui palazzi della
città 7 e che ogni intervento dell’eroe (a
partire dalla scoperta dei poteri) viene
creato come un deus ex machina.
Conclusioni: dirigere un fumetto , un’ope¬
razione dì marketing
Difficile vedere nell’operazione Virgin
Comics: Directors Cut qualcosa di di¬
verso da una mera trovata pubblicita¬
ria, così com’è difficile pensare a un
John Woo impegnato per più di 20
minuti a “creare” lo stesso 7brothers. Se
lo scambio di temi e personaggi sem¬
bra funzionare in entrambe le direzio¬
ni del rapporto cinema/fumetto, lo
scambio di intellighenzia — anche se
possibile - ha più possibilità di offrire
unidirezionalmente risultati interes¬
santi: i nomi degli autori del fumetto
sono decisamente più sconosciuti che
le loro creazioni, per arrivare al cinema
devono fare un percorso molto più
lungo e complesso di quello dei loro
personaggi ai quali comunque riman¬
gono legati a doppio filo. Il percorso
degli autóri da cinema e fumetto, inve¬
ce, è decisamente simile a quello dei
personaggi di finzione, è un nome co¬
nosciuto e di richiamo da associare con
un prodotto.
È interessante constatare come - se si
prendono ad esempio Frank Miller e
John Woo - in entrambe le direzioni
dello scambio sono presenti riferimen¬
ti diretti all’autore e alle creazioni che
hanno contribuito alla sua popolarità.
La creazione fumettistica di Woo do¬
veva in qualche modo riferirsi alla sua
opera in celluloide, esser riconoscibile
come una continuazione del suo lavo¬
ro e della sua “poetica”, non è un caso
che 7Brothers non sia un fumetto di
formazione, cosi come non è un caso
che il fumetto di Jenna Jameson ripor¬
ti una protagonista assolutamente so¬
migliante, alle prese in abiti scollati in
una lotta contro demoni infernali. In-
somma, un appiattimento, una ridu¬
zione a icona facilmente identificabile
e riconoscibile, nessuna sfida al media
e al suo linguaggio.
Se Miller, benché adattando i suoi fu¬
metti (quindi anche qui un collega¬
mento diretto con il lavoro che ha
creato il suo nome) ha affrontato i li¬
miti e le differenze tra i due media,
Woo non ha mai messo in discussione
il mezzo in sé, ha appiccicato temi e a
volte stili senza un attimo di riflessio¬
ne o di sfida ma anzi appiattendo le ló¬
ro stesse caratteristiche autoriali cine¬
matografiche in cliché, diventando
quasi la caricatura di se stesso.
Stefano Baschiera
Note
1. La creazione di Wes Craven ha avuto una vera
e propria vita parallela a fumetti, ad iniziare dal
1989 con l’adattamento di Steve Gerbel per la
Marvel, passando poi per diversi editori quali In-
novation Publishing (1991-1992), Trident Co¬
mics (1991), Avatar Comics (2005, scritto da
Brian Pulido) e infine la nuova edizione per la
Wildstorm Comics scritta da Chuck Dixon.
2. Scritto per la Darkhorse da Sam Raimi stesso
nel 1992, ha avuto una ri-edizione nel 2006 da
Dynamate Press. Da sottolineare come esista un
raminiano crossover a fumetti Darkman vsArmy
ofDarkness scritto da Roger Stern e Kurt Busiek
nel 2006.
3. http://www.virgincomics.com. Nel website si
possono trovare le versioni digitali di alcuni albi,
la cosa interessante è che offrono una strana let¬
tura vignetta per vignetta invece che l’interezza
della pagina (la Marvel per esempio si basa sul
pdf).
4. Per rendere più chiara quest’idea di globalizza¬
zione, il villain , una volta liberato dalla sua mille¬
naria prigionia uccide il cinico magnate artefice
della sua liberazione e ne assume le sembianze per
controllare la potente multinazionale di cui era
capo.
5. La divisione in sette parti è ovviamente arbi¬
traria (potremmo averne 14 come 3).
6. La seconda miniserie è ora in edicola, ma per
opera di altri autori.
7. Si, come Godzilla, un’iconografìa questa, che
onestamente credevo sparita dal fumetto supere-
roistico.
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ISSN 1824-3495